“Pace in terra agli uomini di buona volontà” è probabilmente un refuso. La pace può forse nascere dalla volontà? Ne dubito. Anzi, sono convinto del contrario. Più una persona vuole, anche se vuole il bene, più il suo cuore è agitato. La pace è assenza di paura, libertà dalla schiavitù delle passioni, e questa pace non si raggiunge con atti volontari.
Chi non ama la pace? Anche l’incessante movimento centrifugo che sembra disperdere la mente e le sue energie in mille cose – progetti, studi, lavori, relazioni umane – alla fine, paradossalmente, è la ricerca di un luogo in cui riposare e trovar pace. Questo luogo si trova in noi ma proprio la nostra volontà, che ci esteriorizza, ce ne allontana.
Di fatto, il testo latino, bonae voluntatis, traduce il termine greco “eudokìa”, parola che a sua volta si sforza di rendere un concetto ebraico che esprime “la benevolenza di Dio”. Nei testi di Qumran troviamo una parola simile (eudokìas) a indicare la grazia divina. Quindi potremmo leggere: “pace agli uomini amati da Dio (o dalla grazia divina)”. È dunque una pace che nasce non dall’impegno dell’uomo ma dall’amore di Dio.
È una questione di genitivi. Con “l’amore di Dio” si intende il nostro amore per Lui o il Suo amore per noi? Dipende dalla funzione oggettiva o soggettiva del genitivo. Così “gli uomini di buona volontà” non sono quelli che hanno buona volontà ma coloro che ne sono posseduti, ovvero la patiscono. Questo contraddice secoli di volonterosa moralità. Confuta l’idea che la pace sia il frutto di azioni benintenzionate. Dissolve questa illusione morale, tipica del senso comune, che riduce Dio a una sorta di Legge universale, un Grande Notaio che resta sullo sfondo delle vicende terrene assicurando a ognuno premi o sanzioni secondo un semplice calcolo retributivo.
Ma possiamo accettare che la pace sia una grazia, un bene inaccessibile ai nostri conati volitivi? Tema delicato, che urta una certa sensibilità, soprattutto moderna, che vorrebbe un Dio meritocratico. Se optiamo per una traduzione più filologica del passo citato e leggiamo: “pace in terra agli uomini che Dio ama” (o “amati dal Signore”), ci potremmo chiedere per quale ragione Dio dovrebbe amare solo qualcuno. Ci sembra poco etico, da parte Sua, fare preferenze. Qualcuno ha così pensato di risolvere il problema aggiungendo una virgola: “pace in terra agli uomini, che Dio ama”. È meraviglioso che basti cambiar la punteggiatura per far sì che l’amore di Dio abbracci tutti gli uomini indifferentemente.
A questo punto però non si capisce perché la pace non sia un bene comune. Perché ancora tanta violenza e disperazione nel mondo? Risposta: Dio la dona a tutti ma non tutti la possono ricevere, perché in loro manca la buona volontà. Questo permette di riportare la pace a una dimensione etica, fatta di colpe e di meriti. I moralisti son contenti, i volontaristi gongolano.
In realtà, per “gli uomini di buona volontà” è più difficile che per altri trovar pace. Difatti, la volontà implica sempre una lotta con sé stessi, trascina con sé qualcosa di violento e mortificante. Il nostro cuore seguirebbe i corsi naturali della vita se non ci fosse la volontà a legarlo e a tirarlo rudemente qua e là. Questo sembra appunto il suo scopo, impedirci di fare ciò che desideriamo o, viceversa, obbligarci a fare quello che non abbiamo voglia di fare. Chi agisce per volontà lo fa sempre contro voglia.
“Io voglio” è la comune radice del problema. Dal volere nascono infatti due figlie. Una è ragazza casta e virtuosa, l’altra di facili costumi. Seria, studiosa e laboriosa la prima, la seconda interessata solo a godersi la vita. Quest’ultima è in realtà la più vecchia, ma conserva nei suoi modi un’immaturità quasi infantile, si dimostra spesso irresponsabile. L’altra è più giovane ma ha l’aspetto di una donna attempata, grigia e contegnosa. Si chiama Volontà, e il padre ne è orgoglioso. L’altra, Voglia, smuove in lui sentimenti contrastanti, a volte di intima complicità, a volte di riprovazione.
Così, voglioso e volonteroso indicano entrambi un certo volere, ma tra loro c’è un abisso. La volontà si può esibire in pubblico, la voglia va nascosta nelle pieghe del privato. In una v’è dignità di carattere, lodevoli intenzioni, nell’altra dissolutezza e volgare sensualità. Per questo le attività di volontariato attirano su di sé immancabili encomi. Un’associazione di ‘vogliariato’ provocherebbe un’unanime condanna.
La volontà evoca nobili fatiche e rinunce, la voglia sembra scivolare nell’accondiscendenza al piacere, nella morbida indolenza. Il tipo volitivo ha lo sguardo teso verso obiettivi lontani, l’occhio voglioso affonda nel presente, ricettacolo di immagini seducenti come donne di Ingres. ‘Io voglio’ sembra così poterci condurre alle sublimi altezze dell’autocontrollo, o nei bassifondi fangosi della voglia. Se l’Alfieri esclama “volli, sempre volli, fortissimamente volli”, nessuno dubita che nella sua mente si agiti la nobile sferza della volontà. Perciò lo ammiriamo, senza neppure chiederci quale sia l’oggetto del suo volere. Ma chi di noi ammirerebbe qualcuno che dice: “ho voglia, sempre voglia, una fortissima voglia”?
E perché nessuno dice: ‘ho volontà di mangiare, di dormire, di far sesso’? Perché non occorre volontà per far ciò che ci è naturale. Per converso, non esiste una voglia di potenza, ma una volontà di potenza, ovvero l’intenzione di accrescere un potere di cui non abbiamo alcun bisogno e in cui hanno radici le nostre nevrosi. La volontà si pone come antagonista alla natura. Vive di astrazioni e di arroganti pretese. Pretende di forgiare il nostro carattere, arricchirci, elevarci. Si inerpica su sentieri di montagna, scala le rocce, sfida la gravità per raggiungere le vette.
La voglia si lascia invece trasportare, come un fiume che scende nella valle, correndo verso il mare che lo attira. V’è, in questo lasciarsi andare della voglia, anche della cattiva voglia, un che di umile e realistico. La volontà ci fa grandi promesse che non mantiene mai, addita un orizzonte inafferrabile. La voglia, nel suo modesto proposito, si accontenta di quello che c’è. Non vuole renderci migliori e trova che il mondo sia sufficiente a soddisfare le sue esigenze. La volontà al contrario lo vuol cambiare, renderlo più perfetto di quanto già non sia. In ciò ci fa sentire simili a Dei. Infatti alludiamo spesso alla volontà di Dio, mai a una sua voglia.
La nostra società ci impone di educare le voglie secondo i valori dello sforzo volontario. Anche i sentimenti devono loro malgrado andare alla scuola della buona volontà. La passione erotica può cavalcare l’onda volubile della voglia. Ma l’amore coniugale, spenti i primi ardori, deve camminare sulle stampelle della volontà. Per questo il matrimonio ispira rispetto. Il libertinaggio, al massimo, invidia. Ci piace credere che l’uomo possa sottrarsi con la forza della volontà alle proprie inclinazioni naturali e fare quello che deve, non quello che desidera, rispettando gli ideali etici e sociali più che gli istinti. Seguire la voglia porterebbe, ne siamo sicuri, alla corruzione e al disfacimento della società.
Ovviamente a questa idea ne è sottesa un’altra, ovvero che le nostre inclinazioni siano cattive. Non diceva Pitagora che l’unica cosa sicura al mondo era la malvagità degli uomini? Ma i vari codici morali che lungo la storia han cercato di curare questa intrinseca malvagità, con le loro norme tutte basate sulla volontà, non l’hanno certo guarita. Anzi, è lecito supporre che gran parte del male nel mondo nasca proprio dalla nostra volontà di migliorarlo.
La volontà è infatti una guerra che non mena a nessuna pace duratura. È la madre di ogni conflitto, delle più assurde ambizioni e, paradossalmente, delle più feroci concupiscenze. È più facile trovar pace nella voglia. Infatti la voglia si accontenta e, appagata si riposa. La volontà è insaziabile, è un appetito metafisico che, sempre inappagato dall’essere, gli impone un forzato, faticoso divenire.
La volontà rende l’uomo duro. Lo priva così di una delle virtù più essenziali, la cedevolezza. Il morbido salice si piega sotto il peso della neve e la fa scivolare per terra. L’inflessibile quercia si spezza. Ma se l’uomo può cedere alla voglia, la volontà si impegna a non cedere, a portare pesi sempre più gravi, si rinforza con l’esercizio come un muscolo. Cedere, nella percezione comune, ha qualcosa di femminile e passivo. La voglia diventa perciò l’ammiccante desiderio cui bisogna resistere o cui ci si abbandona colpevolmente.
La voglia, assecondata nella sua naturalezza, è come la lama di quel macellaio taoista, che manteneva il suo filo anche dopo anni: “Seguendo i filamenti della carne, il coltello scivola attraverso le fessure nascoste, scorre attraverso le cavità del corpo, trova la via che già c’è. Non taglio legamenti né tendini, per non parlare di ossa o giunture … La lama si muove appena, delicatamente, ed ecco che la carne si apre e cade come una zolla di terra”. Al contrario, lo spirito sottoposto alla tensione della volontà si usura e perde il filo per l’attrito con la sua stessa natura.
La volontà esce dagli interstizi, dagli spazi sottili che la vita spontaneamente le offre, si apre a forza altre strade. In questo processo volitivo l’uomo proietta il suo Io attivo e razionale, quella parte mascolina di sé che prende decisioni. È in questa volontà di fare, di capire, di essere, che si rispecchia. La voglia gli appare allora come una presenza oscura, impersonale, che invade la sua coscienza e lo spinge a fare cose di cui forse gode ma che razionalmente disapprova. Video meliora proboque deteriora sequor, è il lamento della volontà di fronte alla voglia e alla sua forza d’attrazione.
Nessuno ci insegna ad aver voglia. Per converso, ci viene insegnato a sviluppare la volontà, la forza di carattere che servirà a reprimer quelle voglie in cui sembra palesarsi una nostra debolezza. Nella volontà si depositano le istanze della ragione, i suoi progetti di conquista e di auto-affermazione. Nella voglia siamo dominati ma nella volontà ci sentiamo dominatori. E il dominare, la volontà di potere, è il nostro fondamentale anelito, il teorema su cui si regge la nostra civiltà.
La volontà vuol sottomettere i démoni della natura e sostituirli con quelli dell’orgoglio. Cadiamo così dalla superficiale padella di peccati carnali – che hanno un limite fisico – nella brace di hybris. Le tentazioni della voglia sono poche, quelle della volontà, infinite. Per questo il Saggio “indebolisce la volontà degli uomini e ne rinforza le ossa”, ovvero li libera dalle loro manie di controllo e ne nutre il midollo, l’essenza vitale. Non si tratta di distinguere tra una buona o una cattiva volontà. L’uomo infatti non potrà mai avere una buona volontà. Essa rappresenta un centro da cui l’ego, radice d’ogni male, ramificandosi infetta il mondo intorno.
La volontà può servire a far soldi, ad acquisire conoscenze, a farsi una posizione nella società, ma certo non a trovar pace. C’è sempre, nella volontà, un appropriarsi di qualcosa, un capitalizzare per sé, anche nella volontà di donare, di aiutare gli altri o in quella di rinunciare al mondo e mortificare sé stessi. Tutte le intenzioni volontarie sono malvagie, non perché contraddicono qualche sistema etico ma perché presuppongono un potere autosufficiente dell’io. Tutta la nostra etica è volontaria, quindi malvagia. Dal semplice imporsi alcune regole di buona condotta, fino alla diabolica volontà di farsi santi. D’altro canto, convincersi di questo e opporsi volontariamente alla volontà, sarebbe strangolarsi con un doppio nodo.
Dunque, non resta che sperare nella Grazia. Non posso esimermi dal vivere in un mondo basato sulle cause e gli effetti. Continuerò a raccogliere quel che ho seminato. Questa vita è infatti intrecciata con la Necessità, e una dose di volontà le è necessaria. Nello stesso tempo però, senza uscire da questo mondo, posso respirare la libertà dello spirito e la sua pace.
Non dipende dai nostri sforzi morali o intellettuali, ma da una trascendenza che liberamente si manifesta. Nessuno sforzo cosciente può produrre questa epifania, come non si può far crescere l’erba tirandola. È una pace che si risveglia in noi proprio quando la volontà personale ci lascia. Quando dal profondo del cuore esce quel ‘fiat’ che non è rassegnarsi al destino ma come l’affidarsi a una madre. Si manifesta allora quella naturale santità dell’uomo che non consiste nel flagello di un ascetismo volontario ma è una semplice voglia di Dio.
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