Secondo il Buddha, la vita è Dolore. A Voltaire, che lo sollecita a studi filosofici, Federico II risponde: “le mie sofferenze hanno consumato la mia filosofia”. Visioni pessimistiche cui non si vorrebbe aderire ma alle quali l’esperienza fatalmente ci inclina. Vivendo, impariamo che nessun discorso autenticamente umano può prescindere dal Dolore. Tuttavia, v’è nel Dolore qualcosa che si ribella alle parole, e quanto più abbiamo vissuto, tanto meno ci sembra possibile parlarne.
Ivàn Karamàzov, riflettendo sulla sofferenza dei bambini, nega ogni pretesa di trovarle un senso. Le razionalizzazioni basate sul determinismo naturale gli sembrano “baggianate euclidee”. Le giustificazioni di carattere religioso, che vorrebbero spiegare tale sofferenza inserendola in un’armonia superiore, urtano la sua sensibilità. «Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così».
Chi non sappia rinunciare a far della filosofia, può vedere nel Dolore un’eterna maledizione o, come il curato di Bernanos martoriato dal cancro, dire che “tutto è Grazia”. Può, come il Buddha, sistematizzare il Dolore in un’elaborata dottrina. In realtà, più che del Dolore vissuto, noi parliamo del Dolore pensato, ricordato o atteso, della sua ombra che si allunga su di noi e spesso ce lo mostra più grande di quanto non sia. Non è un discorso sul mistero del Dolore ma un esame delle nostre personali reazioni.
La nostra relazione col Dolore si riassume in fondo in due elementari risposte: il Conflitto e la Fuga. Nella loro dimensione biologica, corrispondono alla reazione di un animale minacciato: attaccare o scappare. Se entrambe le vie sono precluse si crea in noi uno stato di impotente paralisi o di rassegnata accettazione. La scelta non dipende tanto da un esame obiettivo della situazione quanto da un’attitudine del temperamento e da una serie di condizionamenti culturali e ambientali. Il prevalere in noi dei meccanismi del Conflitto o della Fuga determina il nostro carattere, un atteggiamento esistenziale di fondo, e incide drammaticamente sul nostro destino.
Il paradigma del Conflitto è di fatto il pilastro portante della nostra civiltà. La retorica ufficiale nasconde a stento la comune opinione secondo cui il debole deve soccombere al forte per necessità naturale. Il Conflitto è dunque culto della Forza, in tutte le sue manifestazioni. La sua virtù è il coraggio, il suo scopo è il dominio. Le ideologie politiche o economiche, le nostre realtà sociali, hanno tutte radici nel Conflitto. Anche il nostro sentimento religioso è segnato dal conflitto con un Padre. La scienza vede forze in conflitto, l’evoluzione è conflitto, la medicina è conflitto. La nostra tecnologia è in conflitto con la natura, l’uomo è in conflitto col mondo e con sé stesso.
L’indole violenta della nostra società copre la sua cattiva coscienza con estetismi politici e morali, i miti della democrazia, della solidarietà ecc. Ma chi rimuovesse questo strato d’ipocrisia, sotto vedrebbe le logiche dello sfruttamento e del sopruso, le censure e le manipolazioni del pensiero, le divaricazioni sempre più profonde tra schiavi e padroni. Vedrebbe un sistema che anche quando si definisce liberale usa sistemi totalitari e repressivi; umanista, razionale e pacifista a parole, disumano, folle e omicida nei fatti.
A questa reazione aggressiva e violenta, che vorrebbe distruggere le dolorosi restrizioni del reale, fa da contraltare il paradigma della Fuga. Culto dell’Evasione, la cui virtù è la prudenza, l’obiettivo la libertà. Psicologicamente tende alla rimozione e all’illusione, intellettualmente all’astrazione e al metafisico. Può presentarsi in forme rarefatte, come sublime distacco dal mondo, ripiego in forme idealistiche o ascetiche, “fuga dell’Uno verso l’Uno”, immersione salvifica nei libri, nell’immaginario o, più banalmente, fuga dalla città verso la ‘natura’, dal rumore verso il silenzio, ricerca di diversivi e distrazioni, fuga dagli altri e da sé stessi.
Oggi il fantasma della Fuga naviga sulla Rete, si imbottisce di farmaci, coltiva utopie sociali. Nessuno esce più dalla caverna platonica, anzi ognuno si adagia tra le sue ombre familiari e rassicuranti. L’evasione collettiva prende le infinite forme di un Oltre analgesico e ansiolitico, escissione di differenze razziali e culturali, ablazione dei contrasti e delle discriminazioni, luogo dove evacuare il senso delle identità storiche e religiose, abolire le antitesi, negare i limiti naturali. La sessualità stessa, ultima roccaforte del reale, si trasforma in nebulosità policrome e indefinibili. Il linguaggio di questa Fuga è l’eufemismo, timore di dare alle cose il loro giusto nome. La sua ideologia è un relativismo etico e intellettuale, che come un acido tenta di corrodere gli aspetti duri e irriducibili del reale, di render la vita una gelatina per stomaci deboli.
Questi due paradigmi possono apparire lontani uno dall’altro, ma sono in realtà le due facce di una stessa medaglia, son fusi tra loro in una radicale e continua tensione. Come in una sorta di polarità Yin e Yang, la Fuga contiene in sé i germi del Conflitto e viceversa. Non posso uscire dai loro meccanismi senza entrare in conflitto con loro o fuggirli, cadendo così in un circolo vizioso. Il punto è che né l’una né l’altra via possono liberarmi dal Dolore. Spesso lo inaspriscono, o ne inibiscono solo i sintomi superficiali, come i comuni farmaci. Sembra quindi non esservi speranza.
La ragione di ciò è che, nonostante tutta la sua scienza e le sue stupefacenti magie tecnologiche, l’uomo di oggi è ancora schiavo di due terribili padroni: la Fame e la Paura. Due forze telluriche, sotterranee e indomabili, lo legano a un destino di violenza e di dolore. Dagli angoli di questa società di acciaio e cemento non sarà una tigre a balzare su di noi e a divorarci. Sarà un cancro inesorabile, un virus, il terrorismo, il cambiamento climatico. E se anche i magazzini traboccano di cibo, molti patiranno la fame e altri sentiranno l’incombere di nuove carestie, che chiameranno crisi economica, disoccupazione ecc.
La mente dell’uomo è infatti uno stomaco insaziabile. Nella società del benessere, la Fame diventa avidità di sensazioni ed emozioni. La Paura si fa invece delirio di sicurezza, pretesa di garanzia contro ogni rischio; oppure ossessione igienico-sanitaria, sogno di una società assistenziale e previdenziale. Il normale appetito di rapporti umani si trasforma in voracità di contatti, ricerca di continue conferme narcisistiche. Perciò viviamo in una costante connessione col mondo che è sconnessione da noi stessi, semplice esibizione di sé sui social, dove l’angoscia della nostra solitudine ci spinge ad accumulare amici e ammiratori fittizi. Gli ideali, i sogni, gli amori, diventano figli della Fame e della Paura, prole numerosa e tormentata da una continua indigenza.
Non per una necessità biologica ma per una Fame perversa noi divoriamo miliardi di animali, li segreghiamo, li torturiamo. E poi ci divoriamo tra noi, in guerre, lotte di classe, conflitti di Mercato, speculazioni finanziarie, intrappolati in una maligna catena alimentare. Divoriamo conoscenze, viaggi ed esperienze, fino alla nausea. Infine rivolgiamo la nostra Fame all’interno e divoriamo noi stessi. E se talvolta esitiamo a soddisfare la rapacità della nostra Fame è solo perché la Paura ci inibisce.
Ricordo quando si diffuse la notizia della cosiddetta ‘mucca pazza’, rivelando la follia di un sistema che nutriva animali vegetariani con i resti della macellazione. Il consumo di carne bovina diminuì del 50%. Nessuna campagna per il vegetarismo, appellandosi alla pietà, avrebbe potuto ottenere un simile risultato, neppure in trecento anni. Ma finita l’emergenza, i consumi ritornarono sui livelli precedenti, i macelli a lavorare a pieno ritmo, senza alcun rispetto della Vita.
L’uomo medio, questa astrazione così drammatica e concreta, non agisce infatti sulla base di valori etici ma spinto dai demoni della Paura e dalla Fame. Quando ne è posseduto, ogni richiamo alla sua Umanità cade nel vuoto. Dietro gli alibi della sua moralità nasconde pulsioni incurabilmente egoistiche. Non rinuncia alla sua bistecca se gli mostrate come uno sventurato vitello viene torturato e ucciso. Ma se gli dite che mangiar carne può favorire il cancro o l’infarto, forse la Paura lo farà esitare.
La Fame e la Paura non hanno alcun interesse per la verità o la giustizia. L’inganno -o l’auto-inganno- e il sopruso sono strumenti di cui si servono abitualmente. Non inclinano alla saggezza ma possono aguzzare l’ingegno o deprimerlo, rendere scaltri o folli. Di questi tempi, ad esempio, la Paura ha provocato nell’uomo un’eclissi totale dell’intelletto. Lo ha chiuso in questa idea aberrante dell’homo homini virus, che riduce il Conflitto e la Fuga a trame psicotiche. E la Fame non chiama più ‘guerre e ruberie’ quelle violenze che da sempre scatena, ma ‘Piano Pandemico’. Sembriamo condannati a una deprimente stupidità, a una radicale incomprensione della vita.
Ogni tanto lo Spirito ci ricorda che nel fondo del nostro essere v’è un cielo che sovrasta i deserti della Fame e della Paura. Ci dice che si può uscire dalle logiche dell’avidità e dell’angoscia, e costruire un Ordine dell’Amore. E se si può, si deve. Ma noi non lo ascoltiamo. Se lo facessimo, vedremmo finalmente le vittime della nostra violenza –e noi stessi- con occhi aperti alla pietà.
Dopo tante rivoluzioni politiche e militari, scientifiche e industriali, è tempo di restaurare una coscienza pienamente umana. Non si tratta di conciliare il Dolore del mondo con l’idea di un Disegno metafisico o di una Giustizia divina. Queste teodicee sono in fondo una Fuga di fronte all’assurdità e all’orrore del Male. Non posso rispondere con sillogismi a un universo che soffre. Ma posso, come lo starec Zosima, inchinarmi al Dolore, averne compassione, curarlo.
Se esiste una terza via, oltre il Conflitto e la Fuga, è quella di sciogliere pazientemente le nodosità e le resistenze dell’anima, le sue tenaci aderenze alle Fame e alla Paura. Questo apprendistato lento e faticoso non evita la sofferenza dei bambini – o di ogni altra creatura. Non ci salva dal Dolore e neppure ci conforta con la speranza di un Paradiso per le vittime e di un Inferno per gli aguzzini. Non offre teorie consolanti e altre vie di Fuga. Semplicemente, insegna ad accettare la Vita per quello che è: un Abisso inaccessibile alla ragione. E ci chiede di specchiarci in questo Abisso.
La nostra anima può trovar pace solo facendo ritorno a un misterioso luogo d’origine. Ma non è possibile raggiungerlo seguendo le vie del Conflitto e della Fuga. Forse il Dolore serve a questo, a ricondurci in questa profondità del cuore, perché la nostra coscienza ordinaria non saprebbe mai arrivarci. Non so dire come questo sia possibile. Anch’io, come Ivàn Karamàzov «sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così». Forse l’uomo non può capire, solo illudersi d’aver capito. Ma questa cimice ha ricevuto dallo Spirito un dono che può accogliere o rifiutare: non solo sa soffrire del proprio Dolore ma anche del Dolore degli altri. Ed è questo che la rende umana.
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