Dicono che occorre contestualizzare il massacro delle foibe, giustificandolo come una ‘reazione’ agli abusi e alle violenze dell’Italia fascista nei territori slavi.
Ma lo dicono oggi, costretti a discolparsi per un crimine, dopo averlo cancellato dai libri di storia e dopo aver taciuto per oltre 74 anni. Lo dicono oggi, fingendo di dimenticare quanto hanno raccontato dal dopoguerra a oggi. Ecco L’Unità del 30 novembre 1946: “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.”.
Oggi chiedono di contestualizzare quella vergogna. Troppo comodo, troppo ipocrita.
Parlano di reazione alle violenze subite in vent’anni dal fascismo. Con l’identica logica, potremmo giustificare quelle presunte violenze fasciste come la reazione alle brutalità compiute dagli slavi verso gli italiani nei decenni precedenti.
Infatti, non raccontano che le violenze sulla frontiera orientale sono avvenute ben prima del fascismo, che il nazionalismo slavo anti italiano era già molto forte nell’800. Già nel corso del diciannovesimo secolo le terre del confine orientale videro l’insorgere del nazionalismo panslavista con attacchi e intimidazioni alla locale comunità italiana, assecondati e incoraggiati dalle autorità austriache impegnate a reprimere l’irredentismo filoitaliano. La slavizzazione e la de italianizzazione di terre da sempre italiane, da parte delle autorità asburgiche, inizia per decreto imperial regio dopo la battaglia navale di Lissa del 1866. In Dalmazia come nel Trentino e nella Venezia Giulia tutto ciò che era italiano venne avversato dagli austriaci. Non potendo tedeschizzare quelle terre perché troppo lontane dall’Austria, venne favorita la cultura slava a danno di quella italiana. Nelle varie città dalmate a mano a mano l’amministrazione da italiana passò a croata e, nel breve volgere di pochi anni, gli italiani furono cacciati dalle proprie attività economiche, vennero chiuse le scuole italiane e aperte quelle croate. Tutto questo avvenne in un clima di continue vessazioni da parte degli slavi i quali, a mano a mano che conquistavano il potere, procedevano alla sistematica eliminazione non solo della lingua italiana (nel 1909 la lingua italiana venne vietata in tutti gli edifici pubblici ed i dalmati italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali), ma delle stesse vestigia della storia e della civiltà latina di quelle terre.
Dal 1903 al 1913 oltre 40 mila italiani vennero cacciati da Trieste. Nel periodo tra le due guerre mondiali altre decine di migliaia di italiani furono costretti a rifugiarsi in Italia a causa dell’attività dei gruppi estremisti slavi anti italiani. L’esodo dei dalmati dal 1918 al 1921 – che pochi ricordano – fu perciò la prima grande pulizia etnica effettuata in quelle terre, a dimostrazione che la persecuzione degli italiani è datata molto prima dell’avvento del fascismo e non è affatto una conseguenza delle, peraltro inesistenti, violenze perpetrate da quel regime in quelle terre.
Invece, la comunità italiana rimasta in Dalmazia subì violenze e rappresaglie tali da rendere necessaria un’apposita convenzione tra il Regno d’Italia e quello iugoslavo per cercare di tutelare quella che era diventata la nostra minoranza etnica.
Eppure il progetto slavo di genocidio e di annessione di quelle terre è uno dei fatti che i giustificazionisti delle foibe cercano maggiormente di trascurare, perché coinvolge la complicità dei comunisti italiani in quella operazione cinicamente pianificata e messa in atto nei confronti non solo di “fascisti italiani”, ma anche civili italiani, slavi collaborazionisti o presunti tali e perfino antifascisti non comunisti, come attestano senza possibilità di smentita i recenti ritrovamenti in Slovenia di oltre 300 fosse comuni ospitanti i resti di migliaia tra croati e sloveni.
Del resto, proprio l’indiscusso caporione comunista Palmiro Togliatti, il 19 ottobre del 1944 al PCI triestino, ebbe a dire: “L’occupazione del territorio da parte jugoslava è un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i modi favorire… Noi non possiamo impegnare ora una discussione sul modo come sarà risolto domani il problema di Trieste, perché questa discussione può oggi soltanto servire a creare discordi tra il popolo italiano e i popoli slavi”.
E tutt’oggi in varie città italiane hanno impudentemente manifestato gruppi che difendono ed elogiano la memoria di Tito, il dittatore comunista i cui scherani hanno fatto del massacro degli italiani un proprio vanto.
Ebbene chi sono quelli che si spendono in quest’opera di mistificazione, negazione e giustificazione dei crimini del comunismo?
Tra i più attivi sono gli associati all’ANPI, un’associazione di ex partigiani comunisti che, da anni, monopolizza la scena politica, distinguendosi nell’accaparramento di denari pubblici e nella continua seminazione di odio, nella distorsione della memoria e nell’indottrinamento dei giovani inconsapevoli.
Alla data del 5 aprile del 1945, l’ANPI comprendeva unitariamente tutti i partigiani italiani ed era retta da un consiglio formato da rappresentanti delle varie formazioni che avevano operato in tempo di guerra.
Già nel primo Congresso nazionale, indetto a Roma nel 1947, fra le varie componenti emersero divergenze che comportarono la fuoriuscita prima dei cattolici e degli autonomi e, successivamente, delle componenti azioniste. Come accade in maniera analoga ai sindacati, UIL e CISL staccatisi dalla CGIL, ugualmente avvenne tra gli ex partigiani per divergenze sulla politica internazionale e interna.
L’ANPI, pertanto, non rappresenta i partigiani italiani, ma solo quelli comunisti e ne perpetua la giustificazione dei crimini commessi durante la guerra civile. Per questo, ci auguriamo che tutti gli enti locali e le amministrazioni di destra mettano in atto iniziative che, una volta per sempre, ne marginalizzino le iniziative, ne interdicano l’arroganza, le neghino spazi e, soprattutto, sovvenzioni pubbliche.
Per il momento, però, con la complicità del regime l’ANPI indottrina le scuole, ostacola arbitrariamente gli avversari, mette alla gogna chi non si piega alla sua tracotanza.
Matteo Simonetti, docente di storia e filosofia al liceo Leonardo Da Vinci di Civitanova Marche, il 28 novembre ‘19 aveva criticato un “evento” dell’ANPI nella sua scuola dedicato alla presentazione di un libro partigiano su “i processi ai fascisti e collaborazionisti”, definendolo “un comizio senza contraddittorio”.
Davanti a tematiche così delicate, è fondamentale garantire “una pluralità di opinioni e fonti, in linea con un vero approccio storiografico”. Il docente infatti aveva affermato che “il valore di una democrazia sta proprio nel garantire la libera espressione del proprio pensiero, trascendendo ogni forma di componente politica”.
I relatori dell’ANPI hanno ribattuto: “In una democrazia non tutte le opinioni possono essere accettate”; “Quando si parla di Resistenza non occorre una controparte”; “Lei è un fascista”; “Nazista!”. Inutili le difese degli studenti.
Risultato: il professore è stato sospeso dall’insegnamento per un mese, con stipendio dimezzato. Su esposto dell’ANPI alla direzione scolastica.
A fronte di queste vicende, la situazione si fa ogni giorno più intollerabile.
Dopo anni di predominio incontrastato, costretti per la prima volta a doversi confrontare con la verità e a dover rendere conto delle loro azioni, i custodi della memoria bugiarda di questo regime perdono la testa, schiumano rabbia, stringono le maglie della repressione, ricorrono alla censura, schierano i cani da guardia nelle piazze, fanno appello alla magistratura complice, per imbrigliare il dissenso e il giudizio della storia con la tenaglia del politicamente corretto e della legge Mancino.
Agitano lo spettro dell’odio, enfatizzando volgarmente episodi di vandalismo ordinario, scritte sui muri o su internet, peraltro comuni a tutte le parti politiche, per ammantarsi di vittimismo e, intanto, portare avanti i loro sordidi progetti di devastazione sociale. Vedono ovunque un contagio nazista e razzista, per poter criminalizzare i loro avversari ed esorcizzare il crescente astio del popolo.
Durante la terribile peste del 1630, fu intentato a Milano un processo contro due presunti untori, ritenuti responsabili del contagio pestilenziale in seguito ad un’accusa, infondata, da parte di una donna del popolo, Caterina Rosa, che decretò sia la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, giustiziati con il supplizio della ruota, sia la distruzione della casa-bottega di quest’ultimo. Come monito venne eretta sulle macerie dell’abitazione del Mora la “colonna infame”, che dette il nome alla vicenda narrata in seguito dal Manzoni nel 1840.
Quei giudici oggi avrebbero la tessera dell’ANPI. All’epoca, ne anticiparono solo le attitudini e i comportamenti.
Enrico Marino
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