7 Ottobre 2024
Controstoria

La crisi degli Stati e l’insorgenza nazionalitaria. Parte II ∼ Il caso Spagna – Roberto Pecchioli

    

1. Spagna invertebrata

La disgregazione progressiva della Spagna è la punta di lancia delle insorgenze nazionalitarie favorite dal processo di globalizzazione e dalle forze transnazionali interessate al tramonto definitivo dei grandi Stati, che non definiamo nazionali per le ragioni esposte nella prima parte del presente lavoro. La domanda se il paese iberico resisterà come Stato unitario alla seconda decade del terzo millennio non è affatto peregrina, alla luce di diversi separatismi, di una visibile e per certi versi drammatica decomposizione del tessuto unitario, e, da ultimo, dalla sfida della seconda regione per popolazione, prima per dinamismo economico, la Catalogna, insofferente da secoli, che ha programmato per il 1 ottobre prossimo un referendum per l’indipendenza della storico Principato di cui capitale è Barcellona.

Non meno preoccupante resta il clima nel Paese Basco, pur se tacciono da alcuni anni le armi dell’ETA – Euzkadi Ta Askatasuna, Paese Basco e Libertà- il gruppo separatista comunista che ha causato, nel corso di decenni, almeno un migliaio di morti e che gode di un consenso popolare diffuso, ancorché non maggioritario. Poi c’è il caso della Galizia atlantica, terra di brume ed emigrazione, dove il contagio si è propagato nel recupero della vecchia lingua locale, variante del portoghese, della Navarra, la cui identità è divisa a metà tra Castiglia e mondo basco. E poiché le epidemie si sviluppano progressivamente, sintomi di malessere antispagnolo si diffondono nella Comunità di Valencia, la cui parlata locale è simile al catalano e persino nelle isole Baleari, dove è sorto un improbabile nazionalismo maiorchino che esprime il sindaco di Palma de Mallorca, il cui primo atto è stato quello di eliminare la bandiera spagnola, la roja y gualda, dal palazzo municipale.

Umori negativi si levano dalle stesse Asturie, culla della nazione, da cui partì, con il Re Pelagio, la Reconquista medievale contro i Mori nel remoto 722 con la vittoria di Covadonga. In genere, ogni sentimento o rivendicazione anti unitaria in Spagna parte da rivendicazioni linguistiche. La lingua castigliana, diventata spagnola, non viene più accettata come idioma comune, tanto che persino un dialetto usato da poche famiglie rurali, come il balbe asturiano, aspira a diventare lingua ufficiale e sostituire il castigliano.

Solo il separatismo basco mantiene forti connotati etnici. Si può dire che il nazionalismo basco abbia radici apertamente razziali e razziste, sotto l’influenza dei fratelli Arana, in particolare Sabino, che teorizzò, nella seconda metà dell’Ottocento positivista, la superiorità della “razza basca”, con argomenti che oggi, in qualunque realtà diversa dalla Spagna, verrebbero respinti con sdegno come razzismo biologico. Lo stesso Arana studìò profondamente la lingua basca, l’euskera, specie nella variante della Biscaglia, la provincia di Bilbao, inventò il nome Euzkadi per indicare la regione storica abitata (anche) da popolazioni basche e ne disegnò la bandiera, chiamata ikurrina.

Il nazionalismo catalano ha invece radici economiche, relative allo scarso interesse storico della Spagna proiettata verso le Americhe per il Mediterraneo e l’Europa, cui è legata la forte classe mercantile catalana, nonché l’enfatizzazione della lingua, difesa con ostinazione da secoli, soprattutto da esponenti religiosi e dalla classe alta della città di Barcellona. Il catalano, simile al franco-provenzale, nella sua variante valenzana e maiorchina, ha una tradizione letteraria più antica del castigliano. In catalano scrisse nel Duecento Raimondo Lullo (Raimòn Llull) il grande teologo, letterato, scienziato e filosofo, prototipo dell’erudito medievale. Dopo l’unione dei regni, nel 1469, le rivolte in Catalogna sono state un elemento ciclico della storia spagnola. Tuttavia, mai era stata messa in discussione in maniera tanto radicale l’appartenenza della regione, ridefinita nazione, allo Stato spagnolo.

Localismo più globalizzazione dappertutto significa “glocalizzazione”, ma soprattutto, nell’antico regno di Spagna, significa disarticolazione progressiva delle strutture unitarie e dello spirito civile della nazione. Il primo a comprenderlo, già nel 1922, fu il grande sociologo e pensatore José Ortega y Gasset (1883-1955), l’autore del capitale saggio La ribellione delle masse. Nell’altrettanto fondamentale Spagna invertebrata, un classico del pensiero sociologico e metapolitico, egli si propose di analizzare la crisi politica e sociale della Spagna del suo tempo. Adottando il metodo della ragione storica, studiò il processo generale di integrazione e decomposizione delle nazioni, fornendo altresì un’esaustiva analisi dei fenomeni caratteristici della vicenda del suo Paese. Secondo Ortega, la disarticolazione della Spagna come nazione si radica nella crisi storica del suo progetto di vita in comune. “E’ la Spagna stessa il primo problema di qualunque politica”, concluse.  “L’ azione diretta di determinati gruppi sociali, i regionalismi e i separatismi sono il riflesso di un processo di disintegrazione che avanza in rigoroso ordine dalla periferia al centro, in maniera che la perdita degli ultimi possedimenti coloniali d’oltremare pare il segnale per l’inizio di una dispersione interpeninsulare”.

Particolarmente illuminante – ed assolutamente contemporanea per preveggenza e lucidità – è la seconda parte del testo, intitolata L’assenza dei migliori, perfetta sintesi del pensiero orteghiano, in cui il pensatore madrileno reinterpreta la storia spagnola in funzione della distinzione massa/minoranza. Qui si coniugano diagnosi politica e reinterpretazione storica: la Spagna è, appunto, “invertebrata” in quanto storicamente carente di una élite dirigente capace di assumere compiti davvero nazionali e di riconoscere le responsabilità, le sfide e le vere poste in palio. La sua convinzione è che si tratti di un difetto costitutivo della razza spagnola, forse il vero genio negativo del popolo. Sulle tracce del grande storico tedesco Mommsen, la genesi di ogni nazione è spiegata come “un vasto sistema di incorporazione”.

Nascita della nazione e contestuale sorgere dello Stato, in tali fortunati casi storici, riescono a porre in secondo piano il fattore culturale, etnico e linguistico. Secondo Ortega, l’agente totalizzatore della Spagna fu la Castiglia, il cui rango privilegiato le impone una missione, quella di produrre “un’energia centrale che obbliga le comunità incorporate a vivere come parti di un tutto e non come tutti a parte”. Non aver formato un ceto dirigente “nazionale” fu la colpa storica della monarchia, in particolare della Castiglia che, in alleanza con l’Andalusia, si è comportata più spesso da padrona che da madre e tutrice della Spagna. Questo fu anche il comportamento tipico della nobiltà spagnola, che non seppe mai trasformarsi in una vera aristocrazia. Più affamata di oro, titoli e onori che interessata a costruire e vertebrare la nazione, ha largamente contribuito ad alimentare la cosiddetta “leggenda nera” di matrice franco inglese che ha bollato il suo colonialismo. La straordinaria avventura americana del popolo iberico gli ha fatto trascurare la dimensione europea e quella mediterranea in cui sono radicate storicamente e geograficamente la Catalogna ed il Levante.

Un duro colpo all’idea di Spagna unita e plurale venne, dopo la Rivoluzione francese, con la diffusione delle idee liberali e l’uguaglianza astratta estranea al carattere iberico. Nel secolo XX la crisi proseguì, dopo la fine dell’impero nazionale, con il susseguirsi di crisi e rivolte, acuite dalla povertà di troppi spagnoli; su tutte la tragedia sanguinosa della guerra civile del 1936/1939. La monarchia tradizionale spagnola aveva riconosciuto la natura plurale dei popoli della penisola sui quali regnava. Così, restò in vigore per secoli il sistema dei fueros, ovvero le autonomie consuetudinarie in terra basca, navarra e catalana. I re giuravano fedeltà ai fueros recandosi sul posto (famosa è la tradizione dell’albero di Guernica, città basca bombardata durante la guerra civile dall’aviazione tedesca che ispirò un quadro di Pablo Picasso celebre quanto equivoco), in cui l’unità dello Stato non veniva intaccata, anzi rinsaldava periodicamente l’unità spirituale delle genti di Spagna, o delle Spagne, come diceva un grande cattolico tradizionale spagnolo del Novecento, Francisco Elias de Tejada.

La fedeltà alla monarchia dei baschi fu così grande da determinare, contro le idee liberali della regina Isabella II e la rottura delle regole dinastiche, due lunghe guerre civili che segnarono l’Ottocento, dette carliste dal nome del pretendente legittimo al trono di Spagna. Fu l’ultimo grande segno di fedeltà all’idea monarchica dei baschi cattolici e tradizionalisti, che si spostarono poi in massa, a causa del trionfo del liberalismo, su posizioni autonomiste e separatiste, le stesse che hanno attraversato ed insanguinato la Spagna durante tre quarti del Novecento. Dopo la crisi del 1927, la destituzione del re Alfonso XIII nel 1931, la repubblica fu entusiasticamente sostenuta da baschi e catalani, in cambio di statuti d’autonomia molto ampi.

Poi arrivò la tremenda prova della guerra civile, la rivolta della Spagna nazionale e cattolica contro una repubblica che si tingeva sempre più del rosso del bolscevismo, oltre a mostrare i caratteri di un anticattolicesimo radicale, sanguinario ed antispagnolo. La vittoria arrise al campo nazionale guidato da Francisco Franco, ma un milione di morti ed una divisione profondissima non potevano essere dimenticati in fretta. Il solco fu enorme anche dal punto di vista territoriale, con il Nord industriale, minerario e specialmente le province basche e la Catalogna, schierato compattamente per la repubblica e incline alla secessione. Pure, la nazione rialzò la testa anche economicamente, con l’aiuto del denaro tedesco e per l’accortezza di Franco che chiamò al governo le migliori energie, tratte soprattutto dall’ Opus Dei, l’organizzazione religiosa fondata da José Marìa Escrivà de Balaguer, sacerdote aragonese elevato poi all’onore degli altari.

Il generalissimo Franco, contando sull’appoggio delle uniche due forti borghesie del paese, quella mercantile ed industriale della Catalogna e quella finanziaria e mineraria della Biscaglia basca, governò per quasi 40 anni, creando un discreto sistema industriale, dando reddito all’agricoltura attraverso grandi opere di irrigazione , accettando caute aperture nel turismo e più largamente nel commercio, ma non seppe capire che l’asfissiante uniformità “spagnolista”, come dicono nella penisola, non solo mortificava una parte importante del territorio, ma impediva di chiudere definitivamente la tragica pagina della guerra civile. Saltata una generazione della casata di Borbone, per recuperare la plurisecolare istituzione monarchica richiamò in Patria il giovane principe Juan Carlos, figlio dell’esiliato Juan, che sarebbe dovuto succedere al deposto Alfonso XIII.

Alla morte del Caudillo, Juan Carlos, incoronato Re, avviò un rapido programma di democratizzazione, suggellato dalla Costituzione del 1982, che, nel bene, ma anche nel male, segna la Spagna contemporanea. Votata dall’intero arco parlamentare, tranne da piccole minoranze tra le quali spiccarono i partiti nazionalisti baschi ed i repubblicani catalani ( ma gli altri movimenti catalanisti furono favorevoli) , la Carta cambiò nel profondo la storia del paese, accompagnandolo in una transizione che ebbe capi politici di talento, come il socialista Felipe Gonzàlez, allevato dalla socialdemocrazia tedesca, e l’ex franchista Adolfo Suàrez, che promossero uno sviluppo turistico, industriale, civile ed infrastrutturale divenuto impressionante. Il leader probabilmente più abile e spregiudicato fu però il catalano Jordi Pujol, che tenne in mano il governo regionale per un quarto di secolo e, con una politica astuta e senza scrupoli, guadagnò alla sua terra la maggior parte delle competenze dello Stato e grandi investimenti pubblici. Sostenne da Barcellona, sempre dall’esterno ed esclusivamente in chiave regionale, governi nazionali di segno opposto, mantenendo con spregiudicato cinismo una relazione personale con Juan Carlos che fu sempre orientata agli interessi della Catalogna ed all’arretramento della Spagna.

Purtroppo per l’antica nazione dei Re Cattolici, di Cervantes, di santi come Ignazio, Domenico, Teresa d’Avila e del pittore forse più grande del mondo, Diego Velàzquez, ma soprattutto per l’idea di Stato e di nazione, la costituzione e la sua applicazione para federalista disarticolò ulteriormente la vecchia Spagna invertebrata, svuotando le istituzioni comuni e creando i presupposti per le crisi successive, di cui oggi si vedono e paventano gli effetti. Nata per chiudere con una dittatura più nazionalista che patriottica e inglobare nella nuova Spagna le molte realtà che erano rimaste all’opposizione politica o territoriale dagli anni Trenta, la Carta ha fallito clamorosamente il tentativo di operare l’unificazione del paese per via istituzionale. In questo senso, la costituzione spagnola è una clamorosa sconfessione del “patriottismo costituzionale” promosso dal progressismo borghese.

Il primo “buco” della costituzione del 1982 è di non aver affermato la Spagna come Stato unitario, ma neppure federale. Il risultato è un sistema territoriale in cui non esistono le regioni, ma, pudicamente e astrattamente le “comunità autonome”. Ad alcune è stato concesso uno statuto più ampio (Paesi Baschi, Catalogna, Isole Canarie), ad altre è stato negato; da qualche parte le competenze statali sono passate alla comunità autonoma, altrove no, scatenando una corsa che non solo ha svuotato le istituzioni centrali, ma ha provocato gelosie, contenziosi giudiziari, la gara infinita a chi si riuscisse ad appropriarsi prima e più degli altri i poteri devoluti. La Castiglia, centro gravitazionale della nazione, venne divisa in cinque pezzi, con l’evidente scopo di indebolirne il ruolo assiale. La storia spagnola conosceva la partizione tra Nuova e Vecchia Castiglia, rispettivamente a sud e nord della capitale Madrid. La nuova divisione ha prodotto l’autonomia della città di Madrid e della sua cintura, ha unito a Sud la Mancia a quel che restava della Nuova Castiglia, a nord ha creato una regione enorme – oltre 90 mila chilometri quadrati, ma spopolata, unendo contro la storia la Vecchia Castiglia, privata del suo sbocco al mare, Santander, con le storiche province del Leòn, gravitanti sulla città universitaria di Salamanca. In più ha costituito la minuscola regione vinicola della Rioja e la Cantabria, ovvero la provincia di Santander.

Fatto a pezzi il centro della nazione, ha cancellato lo storico nome di Levante alla vasta regione valenzana, ribattezzata Comunidad Valenciana, per troncarne il rapporto geografico e storico con il centro del paese. Così ridisegnate, le diciassette comunità autonome si sono impegnate da subito per sottrarre potere e denaro a Madrid. Contemporaneamente, iniziavano interminabili battaglie soprattutto per l’acqua, un bene prezioso che in due terzi della Spagna scarseggia. Il problema era stato faticosamente risolto dal governo autoritario, che portò l’acqua dovunque, ma al prezzo di desertificare aree intere della Spagna interna, specialmente nell’arida Aragona e nelle Castiglie. Senza l’acqua aragonese, centinaia di migliaia di barcellonesi, indipendentisti compresi, soffrirebbero la sete. Nelle zone della captazione idrica, borghi e paesi si sono svuotati, moltissimi non esistono più. Ovviamente, la contropartita è un’agricoltura più ricca, specialmente nel Levante valenzano e negli immensi pianori coltivati a vite e olivo. Un sistema spezzettato, privo di centro e di regole certe e solide istituzioni di garanzia ha bloccato il Paese e ne favorisce il progressivo sbriciolamento sino alla balcanizzazione.

2. Spagna, una nazione malata dall’incerto futuro.

La Spagna post franchista, caso forse unico al mondo, ha un inno nazionale esclusivamente musicale, probabilmente per timore del testo in lingua castigliana o perché non vi affiorasse un patriottismo respinto, screditato, bollato come fascismo con un accanimento superiore a quello dell’Italia post bellica. Quella musichetta di modesta qualità è oggetto di bordate di fischi allorché viene suonata in manifestazioni sportive in cui sono impegnate squadre basche o il Barcellona, il cui capitano di qualche anno fa, Pep Guardiola, è diventato il testimonial del referendum del 1 ottobre. L’autonomia non ha risolto per nulla il cancro del terrorismo basco, anzi è stato utilizzato dai nazionalisti cosiddetti moderati per ricattare il governo. In realtà, l’ETA ha deposto le armi (che possiede ancora in quantità) per l’esaurimento dei suoi referenti esteri – ambienti arabi, settori dei servizi segreti di stati comunisti – e per la collaborazione tra Spagna e Francia preoccupata per il possibile contagio nel paese basco francese ben più che per conversione pacifista. Peraltro, continua ad avere un forte braccio politico nel partito Bildu, erede di Batasuna posto al bando.

I baschi nazionalisti hanno riesumato l’arcaica lingua basca, pretendendo due canali televisivi pubblici pagati dal denaro del popolo spagnolo, controllate strettamente dal governo locale. Hanno conquistato un sistema scolastico regionalizzato nel quale vengono privilegiate le ikastolas, ossia le scuole con lingua di insegnamento basco. Un localismo anacronistico e per certi aspetti ridicolo, che consente la diffusione di sentimenti antispagnoli e una interpretazione faziosa e furiosamente localista della storia. La guerra sporca contro l’Eta, peraltro, ha spesso permesso al vittimismo della destra basca di ottenere concessioni sempre nuove.

La Spagna ha spesso utilizzato, per regolare i conti con l’Eta una guerra sporca, utilizzando personaggi dell’eversione internazionale, coperti malamente dai governi nazionali di destra e sinistra, alimentando nuovi risentimenti anche in settori della popolazione non propensi alla violenza e non indipendentisti. L’interminabile stagione della violenza etarra ha determinato un grave impoverimento della regione, una volta assai prospera per industrie, miniere, porti ed entità finanziarie, tanto che Bilbao era la principale Borsa spagnola. Moltissime aziende, anche estere, sono fuggite dal clima di violenza e dall’ “imposta rivoluzionaria”, il pizzo mafioso preteso dall’Eta e dai suoi sgherri politici per non scatenare la violenza ed il sangue. E’ proprio quell’impoverimento che ha spuntato, momentaneamente, le armi dell’indipendentismo locale, che sembra in una fase di riflessione.

Un altro immenso errore è stato quello di consentire che in alcune regioni fosse costituita una polizia regionale armata. Passi per le Isole Canarie, tanto lontane dalla madrepatria, da cui le separa l’oceano atlantico, un fuso orario e la condizione di territorio fiscalmente esterno all’ Unione Europea, ma permettere la nascita della Polizia Forale della minuscola Navarra fu francamente ridicolo. Più pericolosa l’esistenza della Ertzaintza basca e dei Mossos de Esquadra catalani.

La stessa denominazione avrebbe dovuto insospettire i governanti spagnoli, e soprattutto la monarchia, il cui unico compito residuo è garantire la coesione nazionale. Ertzaintza significa guardia del popolo, e richiama un corpo armato fondato durante la guerra civile nel campo repubblicano. I Mossos de Esquadra, ragazzi di squadra, portano il nome di reparti costituiti durante la violenta insurrezione catalana del 1714/15. Intanto, migliaia di poliziotti, di armi e di blindati sono controllati non dallo Stato o da istituzioni territoriali leali, ma da professionisti della rivolta antinazionale. Il nuovo comandante della polizia catalana, Pere Soler, un politico ultra radicale, è noto per gli insulti contro la Spagna scagliati attraverso dichiarazioni pubbliche e “cinguettii” su Twitter. Nel più educato, afferma che gli spagnoli gli fanno pena, ma una penosa ispanofobia, che in Italia cadrebbe nei rigori della legge Mancino, è preda di parti importanti della società catalana.

In Catalogna, ed è il fatto più sconcertante della vicenda politica spagnola degli ultimi decenni, i governi centrali hanno accettato di devolvere alla Generalitat di Barcelona l’intero sistema scolastico ed educativo. Dodicimila docenti hanno dovuto fare le valigie in quanto incapaci, ovviamente, di insegnare non il catalano, ma in catalano. Sì, perché nella democratica, libera e progressista Catalogna dei diritti non è diritto dei ragazzi e dei loro genitori che l’insegnamento avvenga nella lingua nazionale, che, costituzionalmente, è ancora lo spagnolo castigliano. Va detto che circa la metà dei residenti è di madrelingua spagnola e non catalana! La cosiddetta “immersione linguistica”, nella regione ed in parte nelle Isole Baleari, come viene chiamata la preferenza per la lingua locale, coinvolge segnali stradali, istituzioni e persino insegne commerciali, con i titolari pagati per cambiare le scritte dallo spagnolo al catalano, multati se non lo fanno.

Ciò che venne giustamente imputato ai governi spagnoli del passato in materia di disprezzo per le specificità locali, i mini nazionalisti lo mettono in pratica ogni giorno impunemente in piena democrazia, nel silenzio delle istituzioni e di quel re che dovrebbe rappresentare l’unità nazionale. La scuola controllata dai separatisti è lo strumento privilegiato di una propaganda martellante ed ultratrentennale, infarcita di menzogne e di una impressionante xenofobia anti ispanica, spesso fomite di autentico odio, oltreché di aperto disprezzo per la lingua comune. Addirittura, il governo non riesce a completare l’organico della Polizia Nazionale e della Guardia Civile, in Catalogna, per il rifiuto al trasferimento di chi non può assicurare ai suoi figli l’istruzione in un idioma da loro compreso, che, per inciso, è una della più importanti lingue veicolari del pianeta.

Il fatto è che, oltre ai ricatti politici dei partiti separatisti, che socialisti e popolari hanno sempre subito senza fiatare, nessuno dei due grandi partiti spagnoli ha un respiro ed una visione nazionale. I popolari sono deboli in terra basca ed in Catalogna per la concorrenza dei movimenti localisti orientati a destra; inoltre sono preda di una sindrome di timore del passato che impedisce loro di prendere decisamente le difese dell’unità nazionale e dei cittadini di lingua e sentimenti spagnoli delle regioni in fiamme. Spagnolista è termine pronunciato come un insulto, anche se gli indipendentisti non sono maggioranza, e la guerra delle parole, unita alla variante autonomista del politicamente corretto fa sì che in Catalogna e nelle province basche la parola Spagna sia diventata impronunciabile, sostituita da “Stato spagnolo” o, genericamente, da “Stato”. I socialisti, saldi e leali in Euzkadi, non esistono in Catalogna, giacché il socialismo locale è soltanto federato con il PSOE e si chiama, significativamente, Partit del Socialistes de Catalunya. La sua denominazione non è bilingue, ma solo in catalano.

Durante il quarantennio democratico, tra l’altro, la disoccupazione è rimasta altissima, con punte che hanno raggiunto il 25 per cento. Ciò non ha impedito un’immigrazione ancora più massiccia che in Italia, in Catalogna largamente favorita dal governo locale nelle sue componenti est europee, nordafricane e di lingua non spagnola (il legame con l’Iberoamerica è sempre vivo) in funzione antinazionale. Agli immigrati si spera di insegnare il catalano, ma non lo spagnolo, che però risorge in quanto lingua veicolare di livello mondiale, nonché prima lingua di circa la metà degli oltre 7 milioni di abitanti della regione. Il nazionalismo ideologico tende sempre ad escludere perfino quando finge di integrare!

La data del 1 ottobre 2017 segnerà in ogni caso la storia più che millenaria della Spagna. La Generalitat di Catalogna, dominata da una setta di separatisti furiosi, ha proclamato il referendum sull’indipendenza con una domanda, cui sembra obbligatorio rispondere sì, volta alla fondazione di uno Stato repubblicano indipendente dentro l’Unione Europea. Il governo nazionale ha già chiesto ed ottenuto dal Tribunale Costituzionale spagnolo il divieto di svolgimento. E’ evidentemente incostituzionale un atto non concordato con cui si pretende separare una parte di Spagna, abbattendo altresì la cornice monarchica del Regno. Sotto il profilo immediato, è verosimile che la consultazione non si terrà; questa sembra l’assicurazione data dal primo ministro Rajoy al re Felipe VI. Un processo probabilmente irreversibile è tuttavia stato avviato.

Nelle settimane a venire, decisivo sarà il ruolo “costituzionale” dei partiti di opposizione, come il socialista e i liberali progressisti di Ciudadanos, molto radicati in Catalogna, dove rappresentano un bastione “unionista”. Più incerta la posizione di Podemos, il movimento che alcuni paragonano a Cinque Stelle. Prigioniero delle parole d’ordine della sinistra radicale degli anni 70 e 80, è indifferente alla questione nazionale, ma ha rotto con i suoi esponenti catalani, che appoggiano il referendum pur non schierandosi per l’indipendenza. La posizione della Chiesa cattolica è variegata. Diversi vescovi sono apertamente indipendentisti, altri hanno una posizione più sfumata, simile a quella, favorevole all’unità spagnola, della Conferenza episcopale. Il punto è: reggerà la fragile alleanza anti secessionista? La risposta è un rotondo no. I socialisti hanno già annunciato di volere una riforma costituzionale in senso federalista, il cui esito sarebbe probabilmente una toppa, una fragile tregua dopo la quale le rivendicazioni ripartirebbero più forti, coinvolgendo certamente il mondo basco, ora alla finestra, settori della Galizia e, in chiave pancatalanista, persino le Isole Baleari.

Ovviamente i due altri grandi problemi del Paese rimangono irrisolti, minando la società e costituendo terreno fertile per nuove divisioni: parliamo dell’economia e dell’immigrazione. La Spagna, con 46 milioni di abitanti, ha almeno 4,5 milioni di disoccupati. Il numero è in calo, ma si tratta in genere di impieghi stagionali legati al turismo. In Catalogna, intanto, i più radicali tra gli indipendentisti (è sconcertante che in Spagna il nazionalismo localista attecchisca soprattutto a sinistra!) hanno iniziato una pesante campagna contro i turisti stranieri, mentre lo sciopero di lunga durata dell’aeroporto barcellonese di El Prat scatena sospetti di complotto e nuove ondate di intolleranza antispagnola. Quanto all’immigrazione, impressionante per numero, tenendo conto dei limiti economici del paese, ha i suoi punti caldi nelle due enclavi spagnole in Nordafrica, ultimi residui di un impero che toccò quattro continenti. Le città ex coloniali di Ceuta e Melilla hanno posto tra sé e l’Africa che li circonda muri elettrificati alti sei metri, poliziotti e militari in assetto di guerra, ma la pressione è terribile, quotidiana, e scatena dibattiti nell’opinione pubblica non dissimili da quelli italiani.

La storia non si fermerà; ancora una volta, dopo aver appiccato l’incendio, la borghesia catalana si metterà la mano sul portafogli e appoggerà la permanenza della regione nel Regno di Spagna, non senza brigare per ottenere appoggi a livello europeo – si è schierata però la sola Slovenia – e strizzare l’occhio alla benevolenza degli Stati Uniti. Il fatto è che in Spagna le fughe in avanti (o all’indietro…) sono state troppe. Pujol ed il suo partito, ora in rotta, girondini travolti da giacobini sempre più estremi, avevano ballato sulla corda con straordinaria visione tattica per oltre 30 anni. Da un lato, la Spagna restava il mercato privilegiato per le merci catalane e per le banche di Barcellona, gli immigrati andalusi e galiziani venivano accolti a centinaia di migliaia per mandare avanti l’economia, ma poi si alimentava, con la scuola ultranazionalista e la televisione pubblica locale TV3, da cui è bandito l’uso della lingua spagnola, un sentimento di rancore e di rivendicazione continua, si rifiutava la storia comune e si diffondeva una visione in cui la Spagna era presentata come il secolare oppressore violento.

Tutto questo è il brodo di coltura del 1 ottobre ed il segno di una disgregazione nazionale che non ha trovato veri oppositori. Non la monarchia che con Juan Carlos ha soprattutto fatto il pesce in barile, e che, secondo alcuni, è oggi ben più ricca di quando, 42 anni fa, riprese il trono per volontà di Francisco Franco, non i grandi partiti nazionali, inclini al compromesso, in preda al timore di essere considerati troppo spagnoli, anzi spagnolisti, secondo il lessico locale, non le istituzioni “invertebrate” o le classi dirigenti. Anche la società civile ha disertato la battaglia, contentandosi di appelli alla concordia ed alla moderazione. Non diversamente il clero, che nei Paesi Baschi, in talora supportato o giustificato le forme più ripugnanti e violente del nazionalismo basco, come il controverso vescovo emerito di San Sebastiàn, José Marìa Setién. Per questo, la Spagna invertebrata è il laboratorio perfetto per il mondialismo nemico degli Stati. Tante piccole realtà autonome incapaci di vera indipendenza fanno la fortuna delle cupole oligarchiche. Non è un caso che, sotto la presidenza Obama, l’ambasciatore americano abbia partecipato a convegni del nazionalismo catalano. Poiché però quei signori vanno dove li porta non il cuore, ma il tornaconto, è probabile una frenata, magari orientata a rincorse successive.

Il clima si fa pesante. Da un lato, lo Stato ed il governo schierano per ora soprattutto l’apparato delle leggi e allertano i funzionari pubblici, rafforzano cautamente polizia e Guardia Civile. Dall’altro la tensione sale, mentre tutti i sondaggi confermano una lenta avanzata dei contrari alla secessione, ma anche una continua radicalizzazione degli indipendentisti, tra i quali si segnala l’alta percentuale di giovanissimi imboniti dalla martellante propaganda antinazionale della scuola e dei mezzi di comunicazione controllati dal governo regionale. Si è però apertamente schierato per l’unione uno dei grandi quotidiani di Barcellona, El Periòdico, di lingua spagnola ed orientato a sinistra, mentre mantiene un basso profilo l’organo storico della borghesia locale, La Vanguardia. La disputa è accanita persino su quelli che appaiono dettagli, ovvero l’acquisto delle urne – vietato in quanto malversazione di denaro pubblico per un atto illegale, secondo il Governo – e l’utilizzo della pubblica anagrafe. Il voto per posta, “por correo “, nel linguaggio sovreccitato dei nazionalisti sarà possibile, ma non “por Correos” ovvero non attraverso l’ente postale nazionale spagnolo.

In tutto ciò, quello che colpisce l’osservatore è che una parte non piccola della popolazione sembra indifferente o neutra e che l’onda nazionalista, fortissima nelle istituzioni, nei milieux intellettuali e nella propaganda, non è altrettanto potente nell’opinione pubblica. Tanto in Catalogna che nei Paesi Baschi, è sociologicamente accertato che il rapporto tra le parti è di equilibrio. I secessionisti sono forti, ma non godono di un consenso travolgente, gli unionisti ed i moderati sono molti, ma silenziosi. Comunque vada, ed è opinione di chi scrive che la consultazione non si svolgerà, ma verrà mantenuta come arma di propaganda e di pressione in qualche forma escogitata dall’universo indipendentista e dalla Generalitat, né l’esercito interverrà o darà segni di schierare truppe nella regione. Troppo alto il rischio di scontri pesanti, troppo forti le pressioni internazionali, e comunque la grande maggioranza degli spagnoli, in Catalogna e fuori, non lo accetterebbe.

Tuttavia, lo scontro finale sarà solo rinviato. Probabile sarà l’occupazione di qualche edificio pubblico, oltre a manifestazioni dure o persino violente. Poi ci saranno nuove trattative, canali di dialogo saranno riaperti, probabilmente la Spagna si trasformerà in uno Stato federale, si definirà plurinazionale e cercherà di tirare avanti alla meglio per un altro po’. Chi ha seminato vento, raccoglierà altra tempesta. Dopo aver ottenuto, giustamente, i riconoscimenti della peculiarità catalana e basca rispetto al resto del Paese, mestatori di vario tipo, con il sostegno nascosto di settori dei poteri transnazionali, premono sulla Spagna affinché accetti di dissolversi. Contemporaneamente, nel resto della penisola cresce il contro movimento del rancore anti catalano, che fa il paio con un analogo sentimento nei confronti dei baschi: una condizione di disfacimento civile che non promette nulla di buono per il futuro di una vecchia, prestigiosa nazione e proietta ombre scure sulla sopravvivenza dell’istituto monarchico, destinato a crollare con esiti infausti se non saprà garantire la sostanziale tenuta dell’unità nazionale, unica ragione della sua esistenza.

Sarebbe non solo una tragedia di quel popolo, che il carattere ispanico non risolverebbe senza spargimento di sangue, ma il sinistro segnale di implosione per l’Europa stessa, se non saprà frenare un processo centrifugo che si propagherà con modalità distinte quasi ovunque. La fine degli Stati nazionali sarebbe l’avvio di un sistema in cui ad un nuovo localismo etnocentrico gretto e provinciale si sovrapporrà inevitabilmente come dominus il superstato tecnocratico sognato dagli oligarchi. Persino uno Jurgen Habermas ha scritto pagine illuminanti in difesa degli Stati. Per questo speriamo in una rinascita, anzi in una nuova Reconquista spagnola, che ritrovi le ragioni permanenti dell’unità e della convivenza dei popoli iberici, le cui diversità troppo enfatizzate non sono etniche o razziali e neppure confessionali.

Si può, si deve essere spagnoli, come è sempre stato, senza cessare di amare la patria piccola, catalana, basca, castigliana, galiziana o andalusa. Il resto è la penosa anarchia invertebrata del declino nazionale e morale della patria di Don Chisciotte, il Cavaliere dalla Triste Figura.

ROBERTO PECCHIOLI

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