In una scena del Lancillotto o il cavaliere della carretta di Chrétien de Troyes (1), il cavaliere si trova ad affrontare una situazione che, all’interno della sua coscienza, rappresenta un conflitto di valori. Abbattuto e disarmato un nemico in battaglia, una dama, assetata di sangue, chiede a Lancillotto la testa del nemico steso a terra e implorante pietà. Qui subentra un possente conflitto fra la lealtà, che gli impedisce di colpire un uomo indifeso e disarmato, e la generosità, tipica dell’amor cortese, di esaudire le richieste di una dama:
“Ora il cavaliere è tanto imbarazzato che indugia per riflettere: farà dono della testa a colei che lo esorta a tagliarla, oppure terrà l’avversario tanto caro da avere pietà di lui? Vorrebbe accordare all’uno e all’altra quanto richiedono; generosità e pietà gli domandano di esaudire entrambi, poiché egli è un cavaliere generoso e caritatevole. Se la damigella porterà con sé la testa, dunque pietà sarà vinta e morta; e se ella non l’avrà in suo potere, allora sarà sconfitta generosità”.
Pare che nella coscienza di Lancillotto si delinei quella che è una vera e propria gerarchia di valori, ciascuno appunto ad un livello diverso dall’altro. Poco dopo, in terza persona nel romanzo, quasi che fosse la stessa coscienza di Lancillotto a parlare, si dice che:
“Al cavaliere non accadde mai di rifiutare di fare grazia una volta a un vinto ridotto a chiedergli pietà, si fosse anche trattato del suo peggiore nemico, senza tuttavia voler rinnovare tale gesto di clemenza. Non la rifiuterà dunque a costui che gliela implora, dal momento che tale è il suo costume”.
Così Lancillotto trova una situazione astuta per non venire meno ad ambedue gli imperativi morali che lo attanagliano: fa rivestire e rialzare l’avversario. Lancillotto infatti lo arma di nuovo e gli offre una nuova battaglia: se anche questa seconda volta lo vincerà, avrà lottato contro un uomo armato senza venir meno alla sua lealtà. Questo passaggio del romanzo è molto singolare e significativo riguardo il ruolo della Caritas nel cavalierato medioevale, un ruolo disseminato nella letteratura bretone e carolingia in gran quantità ed evidenza. La conformazione morale dell’eroe tipico della letteratura cavalleresca medioevale è dipinta, da molti autori e in molte regioni dell’Europa, come il risultato di un processo di raffinamento e perfezionamento interiore che ha come epilogo, come sommità, proprio alcuni valori assoluti, dei cardini di tutto il suo impianto etico, fra questi appunto il divieto di colpire chi non può difendersi da sé medesimo e di difendere i deboli, le donne, gli anziani, gli infermi e così via.
Nel Perceval, o il racconto del Graal, l’eroe del racconto, che riuscirà infine a vedere il Santo Graal, compirà un apprendistato presso Gorneman. Questi infine lo nominerà cavaliere consegnandogli la spada e il vestiario che sono “L’ordine più alto che Dio abbia creato al mondo: l’ordine della cavalleria”. Nel consegnargli la spada e nominandolo formalmente un cavaliere, Gorneman, suo maestro, elenca a Perceval quali sono i suoi doveri morali nel portare la spada e nel servire l’ordine della cavalleria:
“Fratello, se combatterete con un cavaliere ricordatevi che, quando l’avversario è battuto e non può difendersi né resistere e chiede grazia, dovete, vi prego, averne misericordia e non ucciderlo. Non parlate troppo volentieri. Chi parla troppo pronuncia parole che potrebbero tornargli a follia. Chi troppo parla fa peccato, dice il saggio. Per questo, mio caro amico, ve ne sconsiglio. Vi prego anche: se vi accadesse di trovare in pericolo per mancanza di aiuto uomo o donna, orfano o dama, soccorreteli se potete. Farete bene. E infine ecco altra cosa che non bisogna dimenticare: andate spesso al monastero e pregate il Creatore di tutte le cose che abbia misericordia della vostra anima”.
Questo dice il Maestro di Perceval al discepolo consegnandogli la spada, è da notare come la portata centrale del suo dovere consista nel difendere con la sua spada chiunque, uomo o donna, se sono in pericolo e senza aiuto, senza alcun tipo di distinzione, in ciò consiste il suo massimo valore morale, usare quella Forza che deriva dalla spada per difendere chi quella medesima Forza non possiede, se venisse meno questo dovere morale assoluto cesserebbe anche il suo ruolo di cavaliere.
Il codice d’onore che prevedeva di non colpire chi è disarmato non ha origine nella cavalleria medievale, pur essendone stata uno degli esempi più mirabili della letteratura, ma si sostanzia come un fulcro perenne che travalica i tempi e i luoghi. Nell’Iliade di Omero viene narrato infatti un episodio che data la sua intensità è ricordato e narrato ai posteri come una delle scene più commoventi della storia delle battaglie. Uno dei principali eroi Achei durante la guerra di Troia fu Diomede. Egli fu uno dei più grandi guerrieri della letteratura greca dal momento che si distinse per il suo valore e coraggio inauditi. In battaglia contro Enea Diomede riuscì a ferire al ventre lo stesso Ares, Dio della guerra per eccellenza, costringendolo a fuggire dalla scena dello scontro (2). Insomma un combattente che è riuscito a sconfiggere perfino il Dio della guerra eppure quando Diomede incontrò in battaglia Glauco, suo avversario alleato dei troiani, dopo avergli chiesto il suo nome gettò a terra la spada e si rifiutò di colpirlo e Glauco, parimenti, non approfittò minimamente del fatto che si trovasse disarmato, ma anzi, anch’egli si rifiutò di combattere e si strinsero in amicizia.
Che accadde dunque? Diomede non appena si rese conto, sentito il nome di Glauco, che l’uomo di fronte a lui era legato alla sua famiglia da un antico legame di amicizia e ospitalità, nonostante fosse suo avversario in guerra, si rifiutò di combattere con lui. I due si scambiarono le armi e si strinsero la mano. Sorge da chiedersi ove sono oggi questi Uomini? Dove sono oggi la lealtà e l’onore? Chi fra di noi ancora può chiamarsi Diomede? Chi si rifiuterebbe di colpire un indifeso? Questo sacrosanto Principio di difendere i deboli, di non colpire gli indifesi, è ormai un ricordo lontano che però sancisce un linguaggio universale tramato nelle epoche e nelle civiltà:
“Non incrociamo le lance tra noi, anche se siamo in battaglia; sono molti i Troiani e gli illustri alleati che io posso uccidere se un Dio me li manda davanti o se li raggiungo io stesso; e molti sono gli Achei che tu puoi abbattere. Scambiamoci invece le armi perché sappiano anche costoro che siamo ospiti per tradizione antica e questo è il nostro vanto.- Dopo aver così parlato balzarono entrambi dai carri, si strinsero la mano e si giurarono fedeltà” (3).
L’Eroe Ercole, il greco Eracle, fu fra tutti quello che incarnò le virtù eroiche del coraggio e insieme della carità, valori che, tutt’altro che essere in conflitto fra loro, si completavano fra loro andando a definire l’uomo che, innalzato e forte, si poneva al servizio degli indifesi. Eracle ad esempio liberò la principessa Esione, incatenata dal padre Laomedonte su una rupe completamente nuda e offerta in pasto a un drago. Ma non solo, Eracle libera anche Prometeo, incatenato dagli Dei nel Caucaso per aver donato il Fuoco agli uomini. Trafisse infatti con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e liberò quest’ultimo spezzando le sue catene. In una delle sue celebri fatiche inoltre, quella inerente alla cattura dell’infernale Cerbero, il mostruoso cane a tre teste che viveva nell’Ade, Eracle incontrò Teseo legato per punizione dal Dio Ade per essere sceso nel regno dei morti, anche in questo caso Eracle libera lo sventurato dai suoi lacci.
Da ricordare che lo stesso Eroe Teseo viene presentato dalla Tragedia Greca come un sovrano a sua volta generoso, ospitale e magnanimo, che accorda la sua protezione ai più deboli e ai disperati (4). In sostanza Eracle è un eroe che spezza le catene e libera gli esseri indifesi dalle loro pene e questa Scelta, di mettere al Servizio degli altri la sua Forza, ha origine nella sua primissima infanzia quando, ancora giovane e mentre faceva il pastore sul monte Citerone, incontrò due donne sul suo cammino, una vestita in modo solenne, che rappresentava il piacere, l’altra umile e modesta, che rappresentava il Dovere. Ambedue lo invitarono con fare seducente, Eracle scelse il Dovere, e da questa Scelta non tornò mai più indietro, anzi, quell’episodio cambiò la sua vita, poco dopo infatti iniziò a prodigarsi per il bene altrui, sconfiggendo banditi e ladri che affliggevano la sua terra e ponendosi al servizio dei più deboli (5).
I romani identificarono l’eroe Eracle al Dio Thor della mitologia nordica, figlio dello stesso Odino. Thor è il Dio che manda la pioggia fecondatrice, che protegge la casa, la proprietà e la nazione. Egli è il più forte di tutti: “padre della forza e della potenza”, usati in difesa dei deboli e congiunti a una paziente bontà (6).
Come si vede da questo piccolo excursus storico nel mondo dei Miti e della letteratura cavalleresca il tipo di uomo eroico, il guerriero puro e votato all’Assoluto, era quello che poneva la sua forza al servizio degli indifesi e dei deboli e altrimenti non poteva essere per un intrinseco principio metafisico che vuole che ciò che ascende deve poi discendere. Il Sole non trattiene per sé stesso alcun raggio della sua Luce ma tutto sé stesso viene donato alle creature che illumina. Il Sole, come l’Eroe asceso al cielo, compie dentro di sé un processo di kenosis ovvero sia uno svuotarsi di sé per ciò che è fuori di sé, un auto-svuotarsi per donarsi agli altri (Il greco κένωσις, kénōsis dall’aggettivo κενός, kenós, che significa “vuoto”).
Questo esser fuori da sé, o ex-stasi (έκσταση ovvero “essere fuori”) è molto vicino per tema e analogia al concetto orientale buddista di Śūnyatā, ovvero sia la dottrina della vacuità che per il monaco Buddista è “l’essenza della compassione” (Nāgārjuna 150 d.C. circa – 250 d.C). Si vorrà dire di più, che per il buddhismo Mahāyāna il principio della compassione, ovvero sia la capacità di percepire la sofferenza delle creature e il desiderio di lenire questa stessa sofferenza, è il pilastro stesso della saggezza e della levatura spirituale. Non vi è altro senso nella Forza e nel Valore che nel porsi al servizio di chi non possiede questa medesima forza; qualsiasi altro tentativo di usare la forza in direzione contraria a questa non può che sfociare nell’abominio.
Note:
1 – Chrétien de Troyes; I romanzi cortesi – Oscar Mondadori 1983;
2 – Omero, Iliade Libro V, 792-845;
3 – Ivi, Canto VI, vv. 215-236;
4 – Edipo a Colono di Sofocle; Eracle furente e Le supplici di Euripide;
5 – Prodico di Ceo; “Eracle al bivio” Fonte: Senofonte, Memorabilia, II 1, 21-34, da: I Presocratici, Milano, Bompiani, pp.1681;
6 – Bruno Vignola – Enciclopedia Italiana (1937).
Emanuele Franz
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