di Michele Rallo
In principio era il latino, lingua dell’Impero Romano e poi, nel Medio Evo, lingua dotta e – nella sua versione “volgare” – lingua franca di tutti i popoli europei e africani ed asiatici che dell’Impero Romano avevano fatto parte.
In seguito, parallelamente al consolidarsi di diverse lingue “volgari” (cioè parlate dal volgo, dal popolo), il latino andava perdendo gradualmente il ruolo di lingua universale. Le lingue “parlate” diventavano – più o meno rapidamente – anche le lingue “scritte” dei popoli e, attraverso gli strumenti letterari (come da noi la “Divina Commedia”), si affermavano come lingue “nazionali”. Rimaneva, comunque, l’esigenza di una lingua universale, di una lingua – cioè – che potesse essere usata nei rapporti diplomatici da tutte le nazioni e che fosse veicolo di cultura e strumento di comunicazione nei traffici internazionali.
Questa lingua avrebbe potuto essere la italiana, erede diretta della latina.
Ma il nostro ritardo nel raggiungimento dell’unità nazionale (ottenuta solo a metà ‘800) e poi la ridottissima espansione coloniale ci ponevano all’ultimo posto nella graduatoria delle nazioni neolatine: dopo la Francia, dopo la Spagna, dopo – addirittura – il piccolo Portogallo che poteva vantare un immenso impero coloniale, esteso dal Brasile all’Africa Australe.
La nuova lingua franca dei rapporti internazionali diventava dunque la francese: per secoli saranno redatti in francese sia i trattati diplomatici che gli accordi commerciali internazionali; e, per secoli, chiunque aspirasse a far parte della classe dirigente (politica, culturale, imprenditoriale) di qualunque nazione appartenente al “consorzio dei paesi civili” doveva necessariamente conoscere “il gallico idioma”. A noi italiani la cosa andava abbastanza bene: il francese era una lingua affine alla nostra, con una grammatica simile, con tanti vocaboli che avevano una comune radice di derivazione latina, ed era – per gli studenti italiani – di facile apprendimento; contrariamente all’inglese ed alle altre lingue del ceppo germanico, con le loro grammatiche aliene, con i loro vocabolari incomprensibili, con i loro suoni aspirati e gutturali.
La primazia della lingua francese, però, era nient’affatto gradita dall’altra superpotenza europea, la Gran Bretagna. Non soltanto quell’idioma appariva ostico agli inglesi (per motivi speculari a quelli che lo rendevano familiare a italiani, spagnoli e portoghesi), ma tutto intero il “sistema” britannico soffriva per il primato linguistico di Parigi: per ragioni di prestigio, certamente; ma anche per ragioni pratiche, per esigenze commerciali, per aspirazioni culturali che avrebbero avuto evidenti ricadute in àmbito politico.
II momento della riscossa per Londra giungeva con la prima guerra mondiale e con l’ ufficializzazione dell’alleanza di ferro con un lontano paese di lingua inglese: gli Stati Uniti d’America. Prendeva forma un blocco intercontinentale di lingua e di cultura anglosassone, formato dall’Impero Britannico con tutte le sue colonie e con i suoi grandi Dominionssemi autonomi (Canada, Australia, Sud Africa, eccetera) e, appunto, dagli Stati Uniti. Era quella che il generale Smuts – Ministro della Guerra sudafricano – chiamava “la federazione britannica delle nazioni” e che considerava estranea al consorzio europeo: «Tenete presenze che, dopo lutto. l’Europa non è casi grande e non continuerà ad apparir tale in avvenire… – affermava Smuts – Non è l’Europa soltanto che dobbiamo prendere in considerazione, ma anche l’avvenire di quella grande confederazione di Stati alla quale noi tutti apparteniamo.»
Ma era con la Conferenza della Pace (aperta a Parigi il 18 gennaio 1919) che il blocco anglofono portava l’attacco decisivo alla lingua francese. Il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson – non la conosceva. Probabilmente, in qualsiasi paese europeo uno come lui non sarebbe mai diventato Capo di Stato o di Governo; e, se ciò fosse accaduto, si sarebbe precipitato a prendere lezioni di francese. Nel paese dei cowboy, invece, l’arroganza imperava e il signor Wilson non si preoccupava di presentarsi ad un alto consesso internazionale senza conoscere la lingua parlata dai rappresentanti di tutte le altre nazioni (Gran Bretagna compresa). O, forse, era lutto calcolato.
In ogni caso, accampando la non conoscenza del francese da parte di Wilson (e non curandosi della non conoscenza dell’inglese da parte del Primo Ministro italiano), gli anglosassoni imponevano l’inglese come lingua della Conferenza. E questo` malgrado la Conferenza si svolgesse a Parigi e malgrado il francese fosse – come abbiamo visto – la lingua ufficiale della diplomazia mondiale. Cosi, mentre affermavano l’ingle
se come nuova lingua delle relazioni internazionali. gli anglo-americani iniziavano la colonizzazione culturale dell’Europa. La Francia non sembrava accorgersi di questa vergognosa manovra di spoliazione. Il Primo Ministro francese Clemenceau preferiva ostacolare le legittime aspirazioni italiane (per Fiume, per il Montenegro, per una posizione di prestigio nell’Europa Orientale), non rendendosi conto che – cosi facendo – candidava Parigi al ruolo di cameriera dell’Inghilterra (come dirà Mussolini).
I frutti di quel nefasto gennaio |919 sono sotto gli occhi di tutti: la lingua inglese non ha soltanto soppiantato la francese come strumento di comunicazione diplomatica, scientifica e commerciale, ma è anche diventata veicolo di penetrazione culturale per gli Stati Uniti verso tutti i paesi del mondo e. segnatamente, verse i paesi europei.
Naturalmente. la penetrazione culturale è automaticamente uno strumento formidabile di penetrazione (e talora di colonizzazione) politica. La lingua è infatti veicolo di cultura scientifica, ma anche – e forse soprattutto – di cultura spicciola, popolare. La diffusione della lingua significa cinema, musica, letteratura; significa proporre l’immagine di un modello culturale e politico da far acquisire come “positivo” dalle popolazioni che si vogliono egemonizzare. Ecco, così, che accanto alla musica rock e alla festa di Halloween, i popoli europei hanno acquisito anche la mentalità dell` «arrivano i nostri», la convinzione che gli americani siano sempre i «buoni» della situazione, i «liberatori» impegnati ad esportare la democrazia – come ieri in Europa – in Vietnam, in Nicaragua, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria e così via.
Al di là comunque. Degli aspetti politici (che potranno successivamente essere oggetto di altra disamina), gli effetti pratici di una tale colonizzazione culturale sono evidenti. Si va dai nomi propri rielaborati in chiave anglica (Tonio diventa Tony, Maria diventa Mary, eccetera) ai titoli dei film che oramai ci vengono proposti direttamente in inglese: Pretty Woman (Bella Donna), Ghost(Fantasma), Star Trek, (Viaggio Stellare), Predator (Predatore) e via discorrendo.
E la pubblicità televisiva? Una volta si accontentavano di sovrapporre qua e là una frase in inglese, o di americanizzare le sigle: by Giorgio Armani per esempio. Adesso sono arrivati al punto di proporci George Clooney in uno spot tutto in inglese con sottotitoli in italiano. Avete capito? A noi, a casa nostra, sono riservati i sottotitoli: come se fossimo una tribù indiana in via di estinzione. Forse è questo il futuro che vogliono riservare alia nostra lingua? Da erede del latino, da lingua di Dante e di Petrarca a dialetto da riserva indiana?
Perché non reagiamo?
Perché non iniziamo. per esempio, a non comprare i prodotti che sono pubblicizzati in inglese?
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