Con sarcasmo e acidità molto british, Winston Churchill pare abbia affermato che “gli italiani perdono guerre come fossero partite di calcio e partite di calcio come fossero guerre”. Una constatazione di certo malevola, ma non del tutto inesatta.
Certo più adatta solo a certi italiani e, sicuramente, inappropriata per quelli che a Churchill si opposero con coraggio e determinazione fino alla fine, ponendo l’Onore e la difesa della Patria ben al di sopra delle loro stesse vite.
E’ un fatto, comunque, che lo sport e le affermazioni sportive hanno rappresentato spesso in Italia una valvola di sfogo per le tensioni sociali, come accadde nel 1948 allorché, sulle Alpi francesi, le imprese ciclistiche di Gino Bartali permisero al Paese di uscire gradualmente da una situazione drammatica e tornare alla normalità, dopo scontri di piazza e minacce di guerra civile per l’attentato a Togliatti. L’Italia era a un passo dal baratro, e Bartali la salvò pedalando. E, senza dubbio, nell’immaginario collettivo dell’epoca la sua vittoria al Tour de France ha rappresentato l’ancora di salvezza per un popolo ormai vicino a una drammatica deriva.
Per quanto detto, oggi l’eliminazione (dopo 60 anni) della Nazionale dai mondiali di calcio che si svolgeranno nel 2018 a Mosca rappresenta, invece, un boccone particolarmente amaro e difficile da inghiottire per gli italiani.
La qualificazione e la partecipazione della nostra squadra al campionato mondiale, proprio per la simpatia e l’attaccamento che la Nazionale di calcio riscuote tra la gente, avrebbe determinato una diffusa scarica di nazionalismo (seppure sportivo) e costituito per molti un elemento di distrazione dalle asprezze del vivere quotidiano.
Un evento, perciò, coinvolgente e anche un volano economico per molte attività.
Tutti elementi che potevano aiutare un Paese in condizioni difficili a farsi carico dei propri problemi e a guardare al futuro con un pò di ottimismo (o superficialità) in più.
Questa volta, invece, tutto questo non avverrà e il grigiore del quadro nazionale non sarà neppure sfumato dalle sospirate affermazioni dell’undici azzurro. Caduta anche l’illusione di contare ancora qualcosa, almeno nel calcio, questa volta non ci sarà nessuna scusa. Nessuna infatuazione potrà addolcire la quotidiana presa d’atto degli italiani della realtà e dei problemi che li affliggono. Anzi, la debacle della nostra squadra ha già richiamato in molti commenti un qualche parallelismo con la realtà nazionale, con un Paese non privo di qualche eccellenza e, tutto sommato, ancora collocabile fra i primi nel mondo, seppure non in posizioni di vertice, ma gestito pessimamente e condannato così a subire cocenti umiliazioni.
Una constatazione che può attagliarsi anche alla nostra vicenda calcistica che, pur nell’assoluta ignoranza tecnica di chi scrive, può tuttavia essere corroborata dall’andamento della gara, dalla prova fornita dalla nostra squadra, dalla mediocrità degli avversari che ci hanno battuti ma che, presi individualmente, di certo non ci sono superiori in nulla. Solo il gioco di squadra e l’impostazione data alla compagine svedese le hanno fornito la chiave per prevalere in un confronto che i nostri hanno affrontato condizionati da evidenti errori tecnici e limiti strategici.
In molteplici occasioni s’è avuta l’impressione di una formazione priva di una definita identità, senza uno schema chiaro, messa insieme malamente, costruita su un’idea sbagliata e con elementi del tutto fuori ruolo. Un po’ come un Paese che pure annovera alcune potenzialità, ma è imbrigliato da pastoie ideologiche, da una colpevole noncuranza, da una diffusa irresponsabilità, da inefficienze direzionali e amministrative e da gravi responsabilità politiche.
Con la differenza che un c.t. della nazionale che sbaglia si cambia, mentre nel Paese ci sono governi imposti dall’alto, che si susseguono per anni senza alcuna legittimazione democratica e senza che nessuno riesca a votare per cambiarli.
Ci vorrà tempo per esaminare le ragioni di questo tracollo calcistico, ma fin d’ora appare evidente come la sua origine vada ricercata nella concorrenza di più cause e come, metaforicamente, l’Italia del pallone, che sta vivendo il suo capolinea, stia anche mostrando quale sarà il suo destino all’Italia in tutte le sue forme.
Non sarà facile risalire e non a caso, all’indomani della sconfitta, ognuno ha proposto una soluzione diversa dall’altra; s’è accesa immediatamente una contrapposizione anche tra coloro che hanno individuato nella presenza di troppi stranieri la causa del nostro declino e gli altri favorevoli, invece, alle porte aperte. E non a caso la sciatta politica ha fatto anche qui la sua strampalata irruzione, attraverso la balorda dichiarazione del solito Fassino che ha indicato nello “ius soli” uno strumento di rinnovamento e rilancio anche per il calcio italiano. Seppure consapevoli dei limiti umani dei democratici, non si finisce mai di restare basiti di fronte alle loro ricorrenti e varie manifestazioni di mediocrità.
Tuttavia, anche in questo quadro deprimente, una nota positiva l’ha fornita nel dopo partita Buffon, che per anni è stato il simbolo della Nazionale e che con la sua commozione, con le sue parole e con la sua assunzione di responsabilità ha dato prova di un sincero attaccamento al destino della squadra.
In questo, per la verità, sorretto dal corale atteggiamento di tutti i giocatori che hanno dato l’impressione di aver dato tutto il possibile, senza risparmiarsi. A dimostrazione che la delusione è stata cocente tanto quanto l’impegno profuso e che l’attaccamento ai colori era fortemente sentito da tutti.
Chi fallisce, ma dopo essersi impegnato, va comunque compreso. Chi si amareggia per non aver portato in alto le fortune – sia pure solo calcistiche – del proprio Paese, merita in ogni caso rispetto.
Nello sport, a volte anche nel calcio, certi ardori generosi e certi slanci ideali ancora si colgono.
Ma avete mai visto piangere un Prodi, un Monti o un Renzi?
Enrico Marino