La “fantasia del complotto”, innanzitutto come genere pseudoletterario, non mi ha mai convinto. Anzi spesso me ne sono tenuto discosto per nausea naturale e per insofferenza degli esiti da riconoscimento. (…Quegli esiti sarebbero stati insopportabili non solo per carenza – contro spesso le apparenze – di visione generale – direi filosofica – del problema, quanto per l’ineliminabile ed insoffribile maniacalità di molti complottisti, ovviamente sovente in parallelo – funzionale – ad altrettanti ed altrimenti bene o male motivati, debunker). Oltre la giovinezza, però, in base alle mie multiformi esperienze militari ed a qualche studio intensivo per vocazione, ho creduto di comprendere al proposito ciò che non sempre poi è facilmente comunicabile. La realtà, fuorché in casi del tutto straordinari, sempre possibili, supera la fantasia, anche la più fruttuosa.
Credo che ciò avvenga, perché sotto la spinta della realtà da sempre l’uomo si è trovato a vivere in ambienti conflittuali, esterni ed interni, ove predominavano sorpresa per le azioni, imprevedibilità per complessità delle evenienze e troppo spesso caos anche per diffusa carenza di giusta informazione… L’apparato visuale, poi, tipicamente predatorio dell’uomo, geneticamente ne conferma lo status di residente superconflittuale. La sorpresa – legata strettamente al terrore – è stata quasi certamente la maestra forzata dell’attenzione sull’azione e sulle sue fattualità, ancor prima che ogni tentativo di rappresentazione preventiva – che è spinta eminente per necessità (nel mondo istintuale predomina la causalità d’azione/reazione) – divenisse immediatamente e progressivamente indispensabile. Quindi ancor ben prima che attitudinale.
Ma oltre all’azione/reazione di necessità immediata la sorpresa, patita e rifuggita, comporta una linea di risposta gravitazionale sempre più complessa. Al di là delle fughe nel vuoto che comportano una dépense assoluta ed un’altrettanto irrisalibile imprevedibilità, seppur spesso vissute come uno “spreco sacro”, vortex attrattivo anch’esso di matrice circolare (altrimenti del tutto inspiegabili molti aspetti del terrore sistemico, della violenza oltre ogni ragione dello stesso furor, del lusso sfrenato, delle tante, apparentemente assurde, manifestazioni dell’umano sacrificio), anche il microcosmo antropico agisce progressivamente sempre più in linea mediata e circolare, così come nelle manifestazioni spiraliformi delle costellazioni del macrocosmo, evitando più spesso di quanto normalmente non si creda la linea di risposta più direttamente prevedibile. Sappiamo bene che discettando di millenni di formazione, al proposito, non possiamo in realtà che muoverci per approssimazioni progressive e maestro di tale logica è stato, ad esempio, Augé quando ha parlato del rapporto tra condizionalità sociali (e di civiltà), potere e repressione – nelle proprie configurazioni -, smontandone la facile consequenzialità meccanica per opera delle strutture sociali dominanti. (1) Riferendosi quindi ad un principio che, sostanzialmente, travalichi (inglobandole e mettendole a servizio) le medesime strutture. L’autorappresentazione del potere è geneticamente violenta e repressiva e, di quest’invarianza sostanziale, si può discuterne efficacemente quasi unicamente per grado e forma. Nella cosiddetta postmodernità, poi, è ormai di molto evidente che le narrazioni ideologiche primarie – come si usa dire ora – (non certo le indagini ideo-logiche sulle narrazioni medesime) sono spaventosamente nude di fronte al problema dell’autorappresentazione costitutiva (e spesso dell’innegabile totale menzogna) del potere medesimo. E queste autorappresentazioni determinano prevalentemente una fantasia circolare. Forse non solo per lo scetticismo spicciolo di bassa lega che per di più ora domina sovrano nel mondo del nihilismo avverato, consentaneo ad anime poco generose anche per crollo dei vasti orizzonti, reali od illusori ed inclini alla maldicenza ed al sospetto, quanto invece proprio per il poco possibile uso di quello scetticismo nobile (in quanto consapevole degli innumerevoli pretesti dell’umano), di cui, come diceva un grande, non ce ne sarà mai abbastanza… (2). E questo ancor più probabilmente perché, essendo caduto verticalmente il rapporto con i miti fondanti è caduta ancor più la verginità iniziale del rapporto con i succedanei storici dei miti stessi.
Noi tendiamo nell’attuale mondo occidentalista – per una ybris che, fuoriuscita dagli idòla tribus di compagine tradizionale è soprattutto sospinta da costruzioni artificiose legate alle devianze di matrice radical-individualista e material-consumatoria tese a interpretare forzosamente solo lungo tali solchi il corpo sociale nella sua complessità organica – a considerare come, appunto, “razionali” le ragioni dell’appartenenza al nostro stesso occidente, così come lo abbiamo costruito nei secoli, tra tante glorie e mille errori ed orrori, maggioritariamente escludendo ogni altra deriva di civiltà, se non per contaminazione subita dai più bassi livelli, sia nel tempo che nello spazio. L’unica razionalità di tutto questo procedere storico, persino nell’ormai innegabile voragine del numero esploso, nelle identità superate dall’omologazione, nella difficoltà crescente del recupero di spazi e tempi vivibili rispetto alle future implosioni, nell’accertamento esistenziale della caduta verticale della forma, consiste in realtà solo nella necessità animica di non contraddire il processo stesso a pena di crollo totale di senso. Crollo terrorizzante, intollerabile… Con tale incombente spettro si rischia sempre di superare quel punto di non ritorno sistemico, anche per scontati ritardi nelle reazioni, che tanti analisti considerano dirimente. Pur non essendo poi questa dinamica affatto originale, perché in ogni strutturazione di civiltà si rinviene una similare necessità d’autoconfermazione. L’insopprimibile sintropia, in superficie ed in profondità, comunque circolare, del centro. Ma l’ingannevole singolarità dell’occidente attuale consiste proprio nell’illusoria presunta centralità razionale, che, ad un’indagine appena più attenta, risulta del tutto artificiosa, essendo assolutamente priva dei tipici correttivi del relativismo metafisico (per origini, criteri, esiti), che sempre stanno dietro (sopra e sotto) ogni sistemazione organica e tradizionale delle cose del vivente, forse ancor prima che dell’umano. Maya in divinis, come in alto così in basso, che avvisi da sempre ogni procedere che non sia del tutto deprivato d’anima. Paradossalmente se (soprattutto riguardo alla natura) avessimo persino un terrore irrazionale maggiore di quello razionale, (ad esempio un mito assurdo, che assurgesse a tabu… come in molte storiche narrazioni antropologiche) potremmo, forse, cavarcela meglio. Ma è difficile ipotizzare che dalla sofistica inverata ed ormai plebea che nega e supera l’universo ancora compatto dell’unicità assoluta dell’Essere si possa sia tornare indietro che andare avanti… Si dovrebbe, appunto, riscoprire – per esperienza nuova e non solo con parole ultimative – come si fa anche troppo spesso in letteratura, (3) la dialettica metafisica della non-dualità.
Così, sia che si sia complottisti che anticomplottisti, si tende a sopravvalutare la risposta, supposta diretta, razionale, non complessivamente deviata o spiraliforme. L’avvitamento nell’ineluttabile è tanto più respinto quanto, sovente, più cogente. E questo avviene più per i servi, si sa, che devono sempre convalidarsi, come gli eroi. Perché si deve dar ragione, di fondo, a quel complessivo procedere storico. E questo non aiuterà mai una disamina possibilmente corretta dei fatti. Ma la realtà dei rapporti sociali vissuta da ciascuno di noi ci rivelerebbe – se fossimo così coraggiosi da accettarlo – la pervasiva, costante, spaventosa, e per niente comica commedia degli equivoci, sia a livello infimo, che a grandi linee. A volte non è solo la densa penetrabilità dei corpi a determinare una resistenza alla logica (l’attingibile spoglia efficacia della perfezione) (4) quanto la sottile fantasia determinata dalle qualità più caratteristiche e proprie dell’umano. Come disse una volta Caillois a proposito del cucchiaio ordinario, quello del supermercato, rispetto alle migliaia di forme – magari anche meravigliose ed evocative – elaborate dai millenni e dalla fantasia dell’uomo: “…E tutti conducono a questo il cui disegno sembra portare a compimento il loro e che, meglio di essi, assolve al suo ruolo…. Questo utensile risibile, alla pari dei gioielli dei musei, mi insegna in quale spoglia efficacia consista la perfezione…”.
Questa consapevolezza metafisica, però, se vogliamo esser del tutto onesti, se da una parte ci dona un metodo più lucido e coraggioso per non sottostare alla vulgata corrente, ci pone su un piano di studio totalmente alternativo (profondamente e non solo superficialmente), ove tutti i bussolotti logici dei discorsi correnti appaiono perlopiù parodie e deviazioni. In tal senso si ribalta anche perfettamente l’odio che ci avvolge come una coltre di polveri sottili ove di qui e di là, di volta in volta, appaiano delle Ilva, urbane e luttuose e forse insuperabili, di sforamento…
Quindi non si deve avere troppo disprezzo o sospetto per l’opera saggia del tempo che riconduce più o meno alla distanza ogni fantasia dell’uomo a contatto obbligato con quel limo carico di potenzialità che costituisce sostanzialmente la vita. E la spoglia efficacia che sembra riportare tutto ad una deriva conseguentemente lineare all’interno di un ciclo e ripetutamente spiraliforme tra i cicli, è quella perfezione che rimane come termine dell’umano otre l‘umano, quindi un limite che possa non essere più tale, nella sacra doppiezza costitutiva, ove si scopra, a fortiori, quanto risibile sia che i tanti rinnegati del terrore, di tutti i tempi, cadano poi facilmente nella retorica dell’ordine. In genere più accomodativa. Insegnamenti che, a nostro parere, non attengono a nessuna materialità grossolana od all’insistita dialettica, ma anzi in crescendo, ad una percezione sottile delle nostre vere, costanti ed eterne, potenzialità organiche.
Potremmo dirci anche che un tempo il mito non raccontava la favola del mondo, essendone costitutivo nella vita di tutti, volenti o nolenti, ben oltre le stesse parole ed immagini, ma la favola del mondo, così com’è oggi, lanciata in una voragine o buco nero cosmico senza paracadute, paradossalmente, è il nuovo mito usuale che informa tutte le nostre vite con l’illusione dell’unicità, la messa in mora del tragico, il parossismo consumista, la propensione alla non assunzione di responsabilità, quando non con l’eccezionalità fasulla di una nascita a caso, di un volgare destino. E questo, non per autorappresentazione fondante o primaria (che pure atterrebbe al tragico/destino), ma per pura combinazione, senza orma metafisica, senza slancio destinale, appiattiti, nel migliore dei casi, s’una governance globalista che distrugge identità colori e fini, ben felici in troppi della cosiddetta fuoriuscita dalla storia… Se poi questo avviene più per alcuni popoli che per altri, questo non è a caso, ma ovviamente per complesse dinamiche d’ammaestramenti fattuali, che nei cicli della vita lasciano segni indelebili e facilmente riconoscibili, se solo si è onesti.
Anche per questo, non si dovrebbe in realtà essere troppo severi con alcuni popoli, che ammaestrati una volta dalle tragiche sconfitte lo sono attualmente dagli occhiuti (ma non meno disperanti) mercati, quando non dall’innegabile ed arrogante dominanza, più o meno paludata. Chi perde – per qualsiasi ragione – le partite della storia s’autocondanna, volente o nolente, all’insignificanza, alla subalternità, persino a volte al cosciente servilismo, deviandosi dove meglio possa ancor gratificare se stesso almeno con il miglior livello di vita possibile. Può persino rincorrere una propria genialità ormai quasi genetica nell’operare soluzioni politiche, altrimenti giudicate risibili, proprio per il proprio addestrato fiuto alla devianza efficace. Risposta anch’essa circolare. E molto del senso della governance europea, persino tra chi odia e chi è odiato (quindi per molti di più di quanti comunemente si creda), sta imprevedibilmente qui, in questo cantone del tempo perduto, i pur diversi ed a volte persino eleganti vasi di coccio tra i pochi rustici vasi di ferro…
D’altra parte, quando la vita non è più che in misura irrisoria poiesis rispetto alla praxis, non per fuga nella tangente utopistica o totalitaria o peggio nelle pratiche artistiche di mercato, ma soprattutto in quello che Augé definisce “…la spettacolare messa in evidenza del presente”, (5) in una sorta d’attivissima e diffusa contro-iniziazione – ovviamente non come presente eterno ma come presente catafratto – allora non rimane molto spazio che nella reazione stoica, ben materiale ma di suo sostanzialmente atemporale e che non implichi per statuto necessariamente un’adesione, metafisica nella libertà o confessionale nell’affidamento. La reazione stoica implica nel vedere lucido, apparentemente inarrestabile dei processi, l’esplicazione di una prassi alternativa di vita e di stile.
E d’altronde quel presente catafratto, anche contrato da un’amabile governance (contraddizione in termine) non potrebbe, a sua volta, che far proliferare per forza di logica quella disposizione psicosociale stigmatizzata insuperabilmente da Montherlant… (6) Con le poi conseguenti e prevedibili reazioni di rifiuto, ormai giustamente ben più diffuse che per solo qualche sedicente anima bella…
E, senza voler troppo esagerare potremmo caricarci sopra ancora un peso da novanta dicendoci che persino se quel sopravvivere onesto, persino se quel tirare avanti con fatica del mondo non fosse che una costrizione che noi poi si segua con spirito di servizio, dovremmo comunque rammentarci “…che la conoscenza di sé (…e del mondo, N.d.A.) arriva dopo il sacrificio di sé…” (7) e quindi come il grano, cibo dell’uomo, è medium atto alla vita, il sacrificio solo (strumentalmente) serve la conoscenza. Non si può (e quindi non si deve) trovar nessun piacere nel sacrificio (…come nessun piacere nel tragico), ma solo osservarne lucidamente il congegno… Altrimenti, pur legittimamente ma per noi molto negativamente, ci si affiderebbe ad una strumentalità non governata. E spingendoci fino al limite dell’impalpabile e forse soprattutto dell’indicibile, potremmo, sia in noi che negli altri, sempre rispettare profondamente chi fa il lavoro sporco, chi si consuma nella logica del giorno per giorno, chi apparentemente brucia incensi all’ovvio. Sempre che noi si possa presumere, a nostra volta in buona fede, lo faccia per fini più degni.
E tornando alla fantasia del complotto è chiaro che tra le mille possibili derive di devianza necessitata da dure e cogenti condizionalità storiche, la capacità di figurare e figurarsi schemi non diretti, circolari, ciclici, ove figuranti, comparse e comprimari di ogni genere e grado, svolgano o possano troppo spesso impersonare parti di primo attore, è quasi obbligata ed ha poco a che fare spesso con ragioni ideali, etiche, geostrategiche, persino politiche, ma attiene più al mondo dell’assurdo umano, così paludato come cialtrone, così organizzato, come diffuso. Che tutto poi ritorni sostanzialmente in quel limo, è altro livello di ragionamento… Anche perché, ora, l’affondare è favorito da una comune coscienza occidentalista apparentemente post-ideologica ma ove ormai resiste l’ideologia unica di uno sfatto umanismo areligioso se non del tutto sostanzialmente asacrale, di un individualismo becero con connotazioni infantilmente globalizzate, assieme clericali e radicali; banalizzando si potrebbe dire ex-cattocomuniste. La paideia spirituale è irrisa, al suo posto sociologismi ed umanismi di terz’ordine, briciole del banchetto filosofico di un occidente un tempo ancora vitale, impazzano nella democratizzata canea mediatica. (8)
Il “sublime socialmente imperativo”, dal Collegio di Sociologia, anni ’30, ormai storicizzato… tradotto… il fascismo… implica un’aporia: la fascinazione del contrario, che contesta in eterno l’eternità della società del denaro, ora consumistica e finanziaristica, globalizzata e normalizzata. Il comunismo rimane ormai sullo sfondo come utopia e permane in alcune realtà – persino in crescendo – come accomodamento imperativamente efficace al mercato, ma in tal modo anche il fascismo diviene un modello possibile costante e presente, fuori dalle sue forme tabuizzate. Non c’è più bisogno per questo di creare nuove od ammodernate “Società del complotto”… sono le categorie stesse della produzione e della vita sotto il regime produttivo a ricrearne corrispettivamente l’aporia eterna. (9) Anche se necessariamente sotto forme sospette e deviate. Suprema ironia della storia. Ma anche rilevazione, per noi consapevole e generosa, della continua alternanza tra l’uso sociale del patrimonio energetico più profondo dell’uomo, della pulsione dionisiaca con quella disciplinare del limite, secondo natura e sacro, vissuti bifronti – in chi ha vera coscienza – per constatazione oltre che per vocazione.
Se poi, sul teatrino del mondo apparecchiato avessimo il coraggio di filtrare più spesso con lenti adeguate al buonsenso identitario, remunerativo e speriamo lucidamente contrario alla ormai rancida pappa umanista, forse fortunatamente in decrescita, il comportamento di roboanti mattatori o falsi umili comprimari, spesso confliggenti con le loro stesse logiche ufficiali persino nell’arco di poche ore, giorni o settimane, resteremmo molto meno ipocritamente sorpresi e la nostra indignazione, disappunto e revenche, le riserveremmo, forse, più veritatamente, a condizionalità strutturali di lungo o lunghissimo periodo, che sognino sempre, più o meno secondo Utopia, di modellare il legno complessivamente storto dell’umano, con una prassi stoica sempre fiduciosa nelle qualità virili…
Note:
1) Sandro Giovannini, “…come vacuità e destino”, 2 parte, ‘Confronto’, 20 saggio: “Potere: senso e repressione in Marc Augé”, NovAntico Editrice, 2013, pag. 153 segg.: “”…Certamente alla base del problema della repressione come espressione del potere c’è il problema ineliminabile ed inaggirabile delle differenze, sia nelle società di classe sia nelle società senza classi, essendo il potere (anche per Augé: pag. 16, Poteri di vita poteri di morte, Cortina, 2003) ben anteriore alla comparsa delle classi. Le differenze innervano ogni società, qualsiasi sia la sua ideologia, in quanto “l’ideologia è sempre ideologia del potere in qualsiasi tipo di società… (…) …tutte le società sono repressive ed impongono allo stesso tempo un ordine individuale e un ordine sociale.” In pagine memorabili Augé coglie tutte le contraddizioni del doppio orientamento che informa l’odierna letteratura in scienze sociali: il neoevoluzionismo e quello del rifiuto della dicotomia natura/cultura. E sostituisce, integrandole senza negarle totalmente, tutte le principali vie interpretative dell’antropologia in una nuova sintesi che è quella dell’ideo-logica, ovvero della logica delle rappresentazioni in una data società. Qui è molto importante anche che la simbolica, o come la definisce Augé, l’ordine della simbolizzazione, (che costituisce intrinsecamente la rappresentazione) sia considerata fondamentalmente diacronica, un rapporto d’ordine sintattico, che struttura secondo un logos complessivo (ove simbolica e logica quindi sono correlate sempre ma non sempre in diretta corrispondenza) la rappresentazione (in sé e di sé) del potere. Infatti le forme del potere sono limitate in qualità di forme simboliche, indipendentemente dall’immensa varietà delle scelte paradigmatiche e dal carattere non meccanicistico delle combinazioni sintagmatiche. Perché alla storia si chiede sempre un senso, dice Augé, ma questa richiesta di senso è ben prima e ben di più del senso stesso che si vuol dare alla storia ed è il potere che controlla l’accesso al senso e questo accesso al senso si muove tra cooptazione ed esclusione in una dialettica di apparati simbolici ove comunque viene privilegiata la narrazione di un passato eminente. La “storia” diviene quindi centrale per la narrazione del potere, in quanto senza un senso della storia non si potrebbe attribuire un senso complessivo all’esistente stesso oltre che al potere. Sarà ancora un altro potere (un contropotere, un controsenso) semmai, a determinarne una restaurazione od una possibile fuoriuscita, tramite rivolte e rivoluzioni. Questo potere è connaturato alla cooptazione ed all’esclusione e quindi alla repressione proprio perché struttura il senso e la storia. E la “storia” “…forse non è se non la storia della creazione del senso e delle sue costrizioni…” (…) “Non si può riscrivere la storia ma la si può reinterpretare…” (…) “L’attitudine politica o filosofica che consiste nel riprendere in considerazione, facendosene carico, gli elementi passati, nel ripensare la storia, non è dunque totalmente arbitraria, anche quando mitizza od inventa questa storia, perché con la sua sola esistenza essa le attribuisce una possibilità supplementare… (…) …va da sé, tuttavia, che la storia non potrebbe interamente dipendere dall’attualità e che esiste un confine tra le metamorfosi storiche di un’istituzione, le quali rivelano progressivamente la sua complessità e le sue potenzialità, e le ricostruzioni arbitrarie che modellano il passato sulle esigenze del presente. In ogni caso, l’esigenza del senso passa attraverso un pensiero del passato”. Capacità sottile d’immettere nel dibattito storiografico questa potenzialità, che non deve divenire deviazione o falsificazione proprio nel momento in cui diviene convintamene revisione. Ovviamente, come s’intende subito, bisogna ben stabilire il confine fra “riscrittura del passato” che è condizionata dai miti transeunti, dalle mode ideologiche o dalle compressioni geostrategiche e le vere e proprie falsificazioni alla Zdanov od alla Orwell, che storicamente sono esistite e continuano ferocemente ad esistere, che esisteranno ancora e che tutti possiamo agevolmente constatare. Ove per di più la validazione delle mitizzazioni o delle rappresentazioni è scelta in base a fattori del tutto opportunistici. La “riscrittura del passato” risulta quindi, oggettivamente, di ardua definizione ed una sua chiara delimitazione comporterebbe comunque qualità quasi sovrumane di onestà intellettuale, capacità documentativa e discernimento spirituale. Anche perché per sostenere nobilmente ma assieme efficacemente la sublime inutilità della paidetica, si può accettabilmente credere come Augé che “La follia della storia è una follia ripetitiva. Gli orrori si ripetono. I progressi della tecnologia non fanno che amplificarne gli effetti.”
2) Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia mondiale, Mondadori, 1995.
3) “…nella misura in cui l’avanguardismo postmoderno si oppone ai termini stabiliti dalla realtà sociale, esso è coinvolto nella società contro cui si ribella. Anziché essere in anticipo rispetto al proprio tempo, è l’espressione più diretta di quest’epoca.” Da: Charrles Russel, Da Rimbaud ai Postmoderni. Poeti, Profeti e rivoluzionari, Piccola Biblioteca Einaudi, 1989, pag.336.
4) Aa.Vv., “Roger Caillois” a cura di Ugo M. Olivieri, Marcos y Marcos, 2004, pag. 22.
5) Marc Augé, Perché viviamo, Biblioteca Meltemi, 2004, pag. 121.
6) Henry de Montherlant, Il solstizio di giugno, Akropolis, 1983, pag.179: “…“…Ma l’uomo di cattiva qualità ha l’abitudine di prendere, prendere qualsiasi cosa, prendere ciò di cui non ha voglia se gli si presenta agli occhi: è uno dei segni della cattiva qualità che non ingannano…”.
7) Alberto de Luca, La conoscenza del Sé o la conoscenza di sé, in “Letteratura-Tradizione”, n° 27, Febbraio 2004, pag. 31.
8) Constantin Noica, in: Emil M. Cioran – Constantin Noica, L’amico lontano, Il Mulino, 1993. ““…in tutto questo c’è l’Europa, le cose ci appaiono semplicemente come le briciole di un banchetto… Gli ideali di liberazione dei popoli di colore sono semplici echi del pathos europeo della libertà; l’umanesimo orientale è una mera replica, il loro Materialismo è una tecnica presa in prestito: e questo stesso comunismo… che misero rimasuglio rispetto al festino di Hegel e della cultura occidentale”! E se tutti questi sono i resti, il cuore dov’è?…” (pag.54)
9) Rocco Ronchi, ‘Complotto ed esistenza. Bataille, Caillois e il collegio di Sociologia’, in “Roger Caillois”, cit., pag. 296. Il fatto che la “sociologia sacra” alla Bataille ed alla Caillois, sia stata poi necessariamente silenziata, dal secondo dopoguerra e per ovvie ragioni, impedisce comunque quello scandaglio a contrariis, e quindi rende quell’aporia sempre operante, sia pur tra veti, limiti, coperture, dissimulazioni… Per il complotto e i suoi disegni fantastici si può inoltre sempre fare riferimento alla texture. Recto e verso. Il filo d’oro ed il ramo d’oro sono poi due dei mitologhemi vicini alla sensibilità di Pound. (Iliade, VIII, 19: “…una corda d’oro, facendo pendere giù dal cielo…”.) Indicativo che il filo d’oro nella trama, faccia diretto ed esplicito riferimento alla texture, ch’è nodo di incroci. “La connessione inevidente è superiore all’evidente”, dice Eraclito e questa inevidenza è l’occultarsi naturale (e non artificiale) della verità-necessità. Così nel nodo (al di là del suo asse), nel gomitolo (al di là dell’intreccio di assi), nel labirinto (al di là del dedalo), troviamo l’inversione dialettica e il possibile luogo e tempo di risoluzione ed, in essi, d’evidenza. Evidenza=visione. L’anima sarebbe un tessuto con tale texture. “…L’ordito e la trama, decreto del cielo…” (E. P., C. LXXX).
Sandro Giovannini