Di Fabio Calabrese
A volte, i mentitori di professione sono stranamente sinceri, la verità che vorrebbero celare e negare sfugge proprio dalle loro labbra (o, il che è lo stesso, dalle loro penne e tastiere).
Almeno sotto forma di un’ammissione parziale, la verità sulla “resistenza” è sfuggita proprio a una delle vestali autorizzate al lugubre culto della leggenda resistenziale, Giorgio Bocca, che ha scritto:
«Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce».
Sarebbe una descrizione perfetta della strategia di azione partigiana, salvo il fatto che non mette adeguatamente in luce un punto: non si tratta di AUTOlesionismo, in quanto la rappresaglia non va a colpire gli autori dell’azione terroristica, perché coloro che sono oggetto sono costretti a reagire colpendo alla cieca, e chi ci va di mezzo sono i civili incolpevoli. Noi forse ora capiamo meglio cosa fu la strategia “resistenziale”, un piano deliberato, progettato a tavolino, per scavare un solco di odio sempre più profondo e incolmabile tra le truppe tedesche e coloro che continuavano a combattere l’invasore da una parte, la massa della popolazione dall’altra, attraverso la catena di sangue attentato-rappresaglia-attentato-rappresaglia. E’ un metodo che i comunisti hanno usato con ottimi risultati non solo allora, ma ad esempio durante la guerra del Vietnam.
Alla base di tutto ciò, c’è il brutale cinismo, il totale disprezzo per la vita umana dell’ideologia della falce e martello, che considera gli uomini solo come pedine da muovere o sacrificare senza scrupolo in vista della conquista del potere.
Ai capi partigiani veniva raccomandato di colpire i fascisti più moderati e ragionevoli; coloro che più facilmente avrebbero ecceduto nella rappresaglia rendendo la loro causa invisa alla popolazione, rappresentavano un capitale da conservare fino alla fine.
L’incauta rivelazione che ho citato più sopra, fa parte di una storia molto interessante. Una dozzina di anni fa, uno storico di sinistra (che nonostante la sua indubbia formazione in tal senso, dalla sinistra è stato espulso per il vizio intollerabile di dire la verità), Giampaolo Pansa, lavorò a un libro sui combattenti della RSI, I figli dell’aquila. Commise però l’errore imperdonabile di non accontentarsi della solita versione ufficiale, trita e ritrita, dei fatti, ma di scavare un po’ più a fondo; saltarono fuori testimonianze che svelarono il vero volto atroce della “resistenza”. La cosiddetta liberazione fu mattanza feroce, vendetta e massacro spietato dei vincitori sui vinti, soprattutto a partire dal 25 aprile 1945, quando cioè i combattenti repubblicani avevano deposto le armi ed erano ormai indifesi.
Molto spesso, più spesso di quanto non si creda, l’alibi resistenziale servì a coprire delitti che non avevano nemmeno la “giustificazione” ideologica: massacri per compiere rapine, uccisione di persone che avevano avuto solo la colpa di essere testimoni dei fatti. In quelle “radiose” giornate lorde di sangue, non occorreva essere fascisti per cadere sotto gli artigli assassini delle bande partigiane: fossero preti o borghesi o portassero semplicemente una divisa, tutti coloro che costoro pensavano potessero essere d’ostacolo alla “rivoluzione socialista” che costoro pensavano essere imminente, furono brutalmente uccisi, ma per finire nel mirino dei partigiani bastò ancora meno: essere proprietari di qualcosa di cui qualcuno di loro voleva impadronirsi, o anche essere una bella ragazza il cui corpo eccitava in qualcuno di loro lubriche voglie di stupro.
Queste testimonianze che lacerano in maniera impietosa l’idilliaco e ipocrita quadretto della “liberazione” che ci viene ammannito da settant’anni, furono raccolte da Pansa in un altro libro che divenne un best seller: Il sangue dei vinti, e la frase di Bocca fa parte di un tentativo di confutazione del libro di Pansa, una difesa più o meno d’ufficio della favola resistenziale, ma la verità è come il sughero, se si smette di spingere per tenerla sommersa, se ci si distrae un momento, viene a galla.
A Il sangue dei vinti sono seguiti una serie di testi che hanno approfondito e reso sempre più chiaro il quadro fin allora nascosto dalle menzogne “resistenziali”: Sconosciuto 1945, La grande bugia e La resistenza demitizzata. Nonpoteva mancare un contributo proveniente dalla nostra Area, ci ha pensato l’ottimo Lodovico Ellena con le pagine strappate della resistenza, un testo più smilzo di quelli di Pansa, anche perché non ha avuto accesso alla raccolta di altrettante testimonianze, ma non meno significativo.
In La resistenza demitizzata, Pansa rende anche un doveroso omaggio a quello che è stato il grande storico “non ufficiale” della Repubblica Sociale e dei suoi combattenti, Giorgio Pisanò, ricordando che Pisanò, dopo aver scritto la sua documentata opera Gli ultimi in grigioverde (i combattenti della RSI furono infatti gli ultimi a indossare il “nostro” grigioverde che i padri avevano portato nelle trincee del Carso e i combattenti di allora in Grecia e nelle steppe russe, mentre lo pseudo-esercito brindisino e le forze armate postbelliche adottarono servilmente il cachi degli “alleati”) non trovò nessun editore disposto a pubblicarla, e allora decise di trasformarsi egli stesso in editore. La sua tipografia fu distrutta quattro volte da attentati rimasti tutti rigorosamente senza colpevoli individuati. I metodi con cui si difende la favola resistenziale somigliano stranamente a quelli della mafia.
Le cose sono arrivate al punto che all’epoca un vecchio partigiano che doveva essere una persona che aveva conservato un briciolo di moralità e un ricordo disgustato di quell’ “eroica” esperienza, scrisse una lettera al presidente della repubblica implorandolo di abolire l’immonda e vergognosa festività del 25 aprile, nella quale descriveva così i suoi compagni di allora:
“Pochi idealisti, molti delinquenti”.
Poi le cose hanno ripreso il loro corso, tutto è rimasto come prima, fidando nell’eterna smemoratezza della gente.
Alla brutalità della violenza partigiana, ha sempre fatto da contrappunto la vigliaccheria e l’opportunismo di gente, che purtroppo ha dimostrato di essere una parte non piccola della nostra popolazione, pronta a saltare senza pudore sul carro del vincitore.
A questo riguardo, si può riportare questa testimonianza di Jack Belden, corrispondente di guerra americano durante lo sbarco in Sicilia:
“Strane cose sono accadute qui. Una colonna americana di camion, cingolati, cannoni d’assalto, carri Sherman e camionette si era fermata in fila indiana nel mezzo del paese. Attorno a questa, dai balconi con balaustre di ferro, ragazzi e vecchi gridavano e gesticolavano sventolando drappi bianchi e fazzoletti come fossero bandiere di gioia. Tra le grida spesso si udivano le parole “bravo americano” (…) Appena al di là della folla che ci dava il benvenuto, una colonna di soldati italiani marciava su un lato della strada con le braccia alzate sulla testa … un altro soldato camminava con le lacrime che gli scorrevano lungo il viso. Quei prigionieri guardavano con aria stupefatta il popolo che acclamava gli invasori e i conquistatori che fino ad alcuni minuti prima essi avevano cercato di tenere fuori dal paese. Mai avevo visto uno spettacolo più pietoso”.
Senza dubbio, la vigliaccheria, il servilismo, il voltagabbanismo hanno fatto comodo al nemico e invasore, trasformato in “alleato” e in “liberatore”, ma hanno gettato su di noi ai suoi stessi occhi la vergogna e il discredito, la vergogna e l’umiliazione peggiore della nostra storia bimillenaria che noi “festeggiamo” il 25 aprile.
Mentre tutto questo succedeva nell’interno dell’Italia, cosa accadeva ai nostri confini? Anche questo è un capitolo della nostra storia su cui la vulgata storiografica ufficiale preferisce stendere un velo di oblio e di censura.
Io non so se Stalin o Tito abbiano mai letto il Mein Kampf di Adolf Hitler, ma di certo hanno realizzato alcuni concetti in esso espressi con sorprendente radicalità. Hitler spiegava che il suolo straniero può sempre essere annesso, ma il sangue straniero non può essere assimilato; o lo si allontana o lo si elimina.
Bene, ciò è esattamente quello che costoro hanno fatto: non ci sono dubbi che nel 1943-45 è scattato un piano in grande stile per far avanzare il mondo slavo ai danni di Germania e Italia. Nel 1939 vivevano nei territori a oriente del fiume Oder quindici milioni di tedeschi. Dopo la guerra, si sono contati dodici milioni di profughi, e tre milioni di persone dove sono finiti? Ne abbiamo un’idea piuttosto precisa. Nel febbraio 1945 i Tedeschi riconquistarono temporaneamente alcuni villaggi della Prussia orientale che erano già stati occupati dai Sovietici.
Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu tale da sconvolgere i più incalliti veterani; gli abitanti che non erano riusciti a fuggire, esclusivamente donne, anziani e bambini, erano stati massacrati in maniera orribile, bruciati vivi dopo essere stati inchiodati alle porte delle case. Tutti i cadaveri femminili portavano i segni di ripetuti stupri, compresi quelli di bambine di tre anni di età.
Massacrare le vittime nella maniera più atroce per terrorizzare gli altri e costringerli alla fuga; questo è stato il metodo usato dai “compagni” per modificare la carta etnica dell’Europa. I “compagni” dimostrarono di aver capito benissimo QUEL CHE FANNO FINTA DI NON SAPERE: a fare la nazionalità non sono la cultura, gli apprendimenti, i fattori acquisiti, la lingua, e tanto meno quella finzione burocratica scritta sui documenti (la carta si lascia scrivere!) che è la cittadinanza, ma unicamente il sangue, l’eredità biologica.
In alto Adriatico, gli jugoslavi del maresciallo Tito usarono esattamente gli stessi metodi con le stesse finalità, e in questo caso ricevettero un aiuto non trascurabile dalla morfologia del suolo. Esso nei nostri territori è prevalentemente calcareo; il dilavamento delle acque vi ha nel corso dei millenni formato numerose caverne e inghiottitoi naturali detti FOIBE. Un metodo rapido ed efficiente per eliminare migliaia di persone fu attuato dagli assassini con la stella rossa: si portavano gli italiani prigionieri (CIVILI, in massima parte vecchi, donne e bambini) legati in lunghe file indiane sull’orlo di questi abissi, si uccidevano i primi a colpi di mitra, e questi cadendo trascinavano con sé tutti gli altri. La SINISTRA (in tutti i sensi) pratica dell’infoibamento era rapida e permetteva di fare economia di pallottole; richiedeva poco tempo agli assassini, ma le vittime potevano restare ad agonizzare sul fondo delle caverne per ore, talvolta per giorni.
Quanto all’entità di questo massacro, nonostante tutti i tentativi di minimizzazione, il numeri sono chiari: prima della guerra nella Venezia Giulia poi annessa dal nemico, in Istria, Fiume, Dalmazia viveva mezzo milione di persone di nazionalità italiana. Dopo la guerra si sono contati 350.000 profughi. Mancano all’appello 150.000 persone, vittime della prima grande “pulizia etnica” dei Balcani, massacrate in maniera atroce per nessun’altra colpa se non quella di essere italiani.
In un’intervista del 1991, Milovan Gilas, ex collaboratore di Tito e poi dissidente, in un’intervista televisiva quantificò in 30.000 le vittime delle foibe, e aggiunse con sconcertante candore: “Li ammazzammo non perché fossero fascisti, ma perché erano italiani”.
Bisogna però tenere presente che un assassino tenderà sempre a minimizzare, non a enfatizzare le proprie responsabilità.
Le vittime italiane in alto Adriatico furono un ventesimo dei civili tedeschi massacrati dall’Armata Rossa, questo però non significa che gli jugoslavi fossero meno feroci dei sovietici, ma solo che il “teatro di operazioni” era più ristretto, la bestialità assassina slavo-comunista era la stessa in entrambi i casi, e in entrambi penso che si possa parlare di GENOCIDIO, due dei genocidi di cui si è macchiata l’ideologia sanguinaria con la falce e martello, e che una storiografia prezzolata e una scuola venduta vogliono impedire ai nostri giovani di conoscere.
Chi, come i partigiani comunisti italiani, aveva abbracciato il nemico della propria gente per astrattezza ideologica, doveva rimuovere la consapevolezza del carattere etnico, oltre che ideologico, che il conflitto ha necessariamente avuto. Per i comunisti italiani, esso fu guerra ideologica, e combattuta su due fronti, contro tedeschi e fascisti, e contro le forze partigiane non comuniste, perché durante il conflitto l’unità antifascista è esistita quanto la fata dai capelli turchini, e il fine dei comunisti non era il “ristabilimento della democrazia” ma l’avvento anche in Italia di una dittatura di tipo sovietico.
Un modo semplice e perfettamente in linea con questa impostazione di doppia guerra civile, era quello di denunciare le bande partigiane rivali, e segnalarne i movimenti alle SS. Sebbene non fosse certo il solo, eccelse in questa pratica il capo partigiano comunista Salvatore Moranino. Per evitargli guai giudiziari che avrebbero gettato una sgradevole luce di verità su tutto il partito e sulla vicenda resistenziale attorno alla quale si stava costruendo l’epopea fittizia che dura ancora oggi, nel dopoguerra, il PCI fece in modo che fosse eletto deputato per due legislature. Alla terza il gioco non riuscì, e allora Moranino scappò in Cecoslovacchia dove ottenne la qualifica di perseguitato antifascista, cosa che si attagliava alla perfezione a un ex confidente delle SS, e una rubrica ai microfoni di radio Praga, con il compito di diffamare e insultare l’Italia, che non aveva voluto diventare un tassello del blocco sovietico.
L’episodio che fa capire meglio il fenomeno resistenziale, tuttavia è probabilmente la strage delle Malghe di Porzus. In questa località friulana, i comunisti della Brigata Garibaldi, dopo aver circondato e catturato con l’inganno i partigiani non comunisti della Brigata Osoppo, li macellarono come capretti. Il motivo non è un mistero: le brigate partigiane operanti in Friuli avevano ricevuto l’ordine di mettersi alla dipendenza del IX Corpus jugoslavo, e quelli della Osoppo rifiutarono di obbedire a un atto che prefigurava l’annessione alla Jugoslavia delle nostre terre fino al Tagliamento e oltre. Il lavoro sporco, gli jugoslavi, stavolta preferirono farlo fare agli italiani, talmente idioti da non capire il carattere etnico della guerra.
Con ogni probabilità c’era un accordo fra Togliatti e Tito: la Venezia Giulia e tutto il Friuli alla Jugoslavia in cambio dell’aiuto a “fare la rivoluzione” in Italia. Per i comunisti, la terra e la gente italiana erano e sono merce di poco o nessun valore.
E’ degno di nota anche come si svolse il 25 aprile a Trieste, una tragedia non priva però di una nota grottesca: i membri del CLN triestino “insorsero” e costrinsero alla resa i tedeschi che se ne stavano andando; quindi andarono incontro festosi agli jugoslavi del IX Corpus che stavano arrivando in città. Questi ultimi, quando videro le fasce tricolori al braccio, li catturarono e li fucilarono senza porre tempo in mezzo, non avevano mai dimenticato neppure per un istante che la loro non era una guerra contro il fascismo, ma contro l’Italia.
Trieste fece la terribile esperienza del pugno di ferro slavo-comunista per un mese e mezzo, fino a quando le truppe neozelandesi non scacciarono gli jugoslavi dalla città; se questo non fosse avvenuto, Trieste sarebbe diventata un pezzo di Jugoslavia come il 90% della Venezia Giulia prebellica, come l’Istria, come Fiume, come la Dalmazia, con la presenza italiana scomparsa o ridotta a un’esigua minoranza. In quaranta giorni gli jugoslavi trucidarono tremila persone che furono gettate nella foiba di Basovizza; fortunatamente, non ebbero il tempo di fare un lavoro più accurato.
Nel film Excalibur, John Boorman mette in bocca al suo Merlino queste parole: “La maledizione degli uomini, è che dimenticano”.
Vero, assolutamente vero, e sarà tanto più facile dimenticare se al ricordo si sostituisce una rappresentazione fittizia orchestrata dal sistema mediatico per nascondere cosa questa celebrazione del 25 aprile realmente sia: la sagra della viltà, del tradimento, del piantare il coltello nella schiena dell’alleato di ieri e nella carne della nostra gente, dell’abiezione, della vergogna.