8 Ottobre 2024
venticinqueaprile

La festa della vergogna, terza parte

Di Fabio Calabrese

Il 18 settembre 1943, Benito Mussolini che i Tedeschi avevano liberato dalla prigionia sul Gran Sasso e che in quel momento si trovava in Germania dove era stato portato a incontrare Hitler, annunciò dai microfoni di Radio Monaco, la costituzione di uno stato fascista e repubblicano. Iniziava l’avventura tragica, sanguinosa ed eroica della Repubblica Sociale Italiana.

La storiografia postbellica, parziale e prezzolata, dettata dai vincitori, ha qualificato la Repubblica Sociale come “stato usurpatore”; è invece evidente che essa rappresentava la continuità delle istituzioni italiane, sconvolte dalla diserzione del re e dal governo capeggiato da Badoglio. A mio parere, “stato usurpatore” si può considerare piuttosto il governo fantoccio insediato al sud, marionetta nelle mani degli invasori, premesso che con la fuga del 9 settembre, la monarchia ed esso avevano perso qualsiasi legittimità. Con quell’atto vergognoso, Vittorio Emanuele III aveva bruciato qualsiasi credibilità e qualsiasi diritto casa Savoia potesse vantare a regnare sull’Italia in ragione del passato risorgimentale (anch’esso tutt’altro che privo di ombre, ma sul quale ora non è il caso di aprire un contenzioso).

Io credo che la repubblica democratica postbellica che nel 1946 è succeduta direttamente al governicchio brindisino che la vittoria degli invasori ha esteso a tutta Italia, sia del pari un regime usurpatore: essa ha avuto settant’anni di tempo per dimostrare di non essere altro che un proconsolato dei nostri dominatori, e di essere nel contempo il regime più corrotto che si possa concepire, che ha prodotto una classe politica interessata unicamente a mettere le mani sulla cosa pubblica per fini personali, fregandosene altamente del bene e del futuro degli Italiani.

Non deve stupire il fatto che il fascismo riuscì a dare il meglio di sé proprio nella sua fase finale, quando si approssimava il crollo. La Repubblica Sociale, si può dire, fu quello che il regime sarebbe dovuto essere e non riuscì a essere che in parte, dovendo venire continuamente a patti con forze a esso estranee: la monarchia, l’alto capitale, la Chiesa. Non deve stupire, perché ora queste forze che avevano da sempre costituito le remore, avevano dissociato le loro sorti da quelle del fascismo, inoltre gli opportunisti, i tiepidi, i pavidi avevano avuto e avranno mille occasioni per farsi da parte. La RSI, pur nelle circostanze drammatiche della guerra, introdusse importanti riforme sociali: la socializzazione, ossia la comproprietà delle aziende da parte dei lavoratori, e anche l’intangibilità fiscale della casa di abitazione, considerata non una fonte di reddito, ma un’estensione della persona (oggi, sotto dittatura liberista, la casa è il bene più tassato).

Tuttavia, la RSI non fu solo questo, TRASCESE, si può dire, il fascismo, mirando alla salvaguardia della nazione, al riscatto del suo onore cancellando il tradimento dell’8 settembre, e della sua persistenza fisica, difendendo i confini dai nemici e le popolazioni dall’aggressione “alleata”. L’aeronautica, ad esempio, transitò quasi per intero nei ranghi della RSI, e questo non perché essa fosse “un’arma fascista” come è stato sostenuto dall’imbecille storiografia postbellica, ma perché i quadrimotori “alleati” continuavano a bombardare le nostre città e a fare strage della nostra popolazione civile. “Purché l’Italia viva”, e non “purché il fascismo viva”, fu il motto dei combattenti della RSI.

Prendiamo ad esempio, uno fra i tanti, Adriano Visconti, l’asso dell’aviazione da caccia repubblicana: non è possibile quantificare il numero di nostri connazionali che salvò abbattendo i bombardieri “alleati” che andavano a seminare morte sulle nostre città. La “ricompensa” che ne ebbe fu una raffica di mitra alla schiena dopo essersi arreso col suo reparto al momento della capitolazione.

La difesa dei confini nazionali fu sempre per i combattenti della RSI un obiettivo assolutamente prioritario, ad esempio, poco prima della resa definitiva sventarono un tentativo dei francesi gollisti di impadronirsi di Aosta, ed è merito esclusivamente loro se ancora oggi essa è una città italiana, un atteggiamento del tutto opposto a quello degli antifascisti “resistenziali” per i quali la terra italiana e la gente italiana erano merce di ben scarso valore, come le vicende del confine orientale dimostrarono a sazietà.

Occorre smentire con la massima energia la vulgata resistenziale postbellica, del tutto falsa, secondo la quale, più che come unità combattenti, quelle della RSI fossero impiegate soprattutto nella lotta antipartigiana. Le SS italiane, ad esempio, ad Anzio e Nettuno dimostrarono un tale valore da guadagnarsi le mostrine nere al posto di quelle rosse indossate da tutte le SS non tedesche. Sul Serchio, le truppe repubblicane sfondarono il fronte alleato, un successo tattico che non fu possibile trasformare in una vittoria per la penuria di uomini e di mezzi, ma che nondimeno dimostra il valore disperato di questi uomini nell’estrema difesa della patria.

E’ sciaguratamente vero che, man mano che la situazione militare si faceva più drammatica, costoro dovettero sempre può spesso difendersi dagli attacchi partigiani, di coloro che man mano che la conclusione del conflitto si profilava inevitabile, cercavano di guadagnarsi benemerenze agli occhi del nemico.

Sul fronte opposto, sotto l’ala protettrice degli invasori, gli antifascisti organizzarono quell’azione di fiancheggiamento dell’invasione nemica che fu mistificata come “liberazione nazionale”.

Qui si nota subito che mentre il risicato esercito del sud ebbe un ruolo del tutto marginale e di facciata, quella che invece prese piede e si sviluppò, fu la guerriglia partigiana.

Le tecniche della guerra per bande, il colpire il nemico alle spalle e defilarsi rapidamente, i sabotaggi che colpivano prima che le forze combattenti, le linee di comunicazione e di rifornimento, furono sviluppate dai sovietici dopo la rapida avanzata tedesca del 1941, quando l’operazione Barbarossa sembrava destinata al pieno successo, soprattutto a opera di unità dell’Armata Rossa rimaste tagliate fuori dal resto delle forze sovietiche, dietro le linee tedesche. Si trattava però di un fenomeno ancora diverso dalla guerra partigiana come si sarebbe sviluppata in seguito, perché impegnate in essa erano ancora soprattutto regolari unità combattenti.

Tuttavia occorre sottolineare il punto, foriero di pesanti conseguenze, che i comunisti, strettamente legati all’Unione Sovietica, erano preparati a questo tipo di lotta o guerriglia a un livello tale che gli altri antifascisti neppure si sognavano, ma per spiegare il carattere fortemente ideologico di sinistra e la schiacciante superiorità che i comunisti acquisirono fin da subito fra le formazioni partigiane, occorre considerare anche un altro elemento: nei Paesi che erano stati invasi dai Tedeschi, la lotta partigiana assunse effettivamente un carattere “di liberazione nazionale”; pensiamo al maquis francese che riconosceva il suo leader in Charles De Gaulle, cosa che non portava certo a un’impostazione di sinistra. Ciò non toglie, naturalmente, che costoro fossero degli illusi, TUTTE le nazioni europee, anche quelle nominalmente vincitrici, erano destinate a finire sconfitte, sotto il tallone americano e sovietico. I francesi che militarono nella divisione Waffen SS Charlemagne servirono più adeguatamente la loro patria oltre che la causa europea.

Il caso dell’Italia era diverso: l’Italia era stata alleata della Germania e fascista fino al settembre 1943, in Italia la guerra partigiana non poteva che essere ideologica di sinistra, e la “liberazione nazionale” niente altro che un alibi pretestuoso.

E’ certamente un abuso il fatto che per indicare il fenomeno partigiano si sia usato il termine “resistenza”; a RESISTERE con tutte le loro forze al nemico che stava invadendo la penisola schiacciando anche la difesa più eroica e disperata grazie a una preponderante superiorità di mezzi, furono piuttosto i ragazzi della RSI.

Ho poi sempre trovato un bell’esempio di umorismo involontario il fatto che la prezzolata storiografia postbellica al servizio dei vincitori sia arrivata a chiamare il fenomeno “resistenziale” “secondo risorgimento”, quando si pensa che a usare quest’espressione sono spesso quegli stessi storici di sinistra che poi si danno un gran daffare per spiegarci quanto il risorgimento, quello ottocentesco, fosse meschino e spregevole; e allora, sarebbe meglio che si risparmiassero troppi giri di parole e ci dicessero direttamente che la cosiddetta resistenza è stata un fenomeno meschino e spregevole.

Il termine “partigiano”, invece, lo trovo assolutamente adeguato, dato che già prima di allora significava di parte, fazioso, in malafede.

I mali più persistenti dell’Italia traggono origine da questa situazione: fu la superiorità “militare” del periodo resistenziale che permise al PCI di diventare il partito egemone della sinistra, con il risultato di portare a quella “democrazia bloccata” che permise alla DC di rimanere permanentemente il partito di governo e, non avendo da temere la sanzione popolare del voto, di dare vita a un esteso sistema di corruzione e di appropriazione della cosa pubblica, di cui poi anche il PCI divenne largamente beneficiario.

Io vorrei essere chiaro: credo che la democrazia sia un sistema bugiardo, un’illusione: la sovranità popolare è una favola: all’indomani del conflitto, i popoli europei non ebbero alcun diritto di scelta, erano già stati spartiti come bestiame, era stata già decisa l’aggregazione al blocco comunista o a quello “occidentale” americano, e oggi vediamo bene che non sono liberi nemmeno di decidere di continuare a esistere, ma si è già preventivata la loro sparizione nel caos multietnico. Libertà? Ma è la favola di Babbo Natale, basta pensare alle leggi liberticide che esistono ovunque, e in questi anni si sono moltiplicate, che proibiscono di rimettere in discussione la versione della storia raccontata dai vincitori, e che dovrebbero legittimare per l’eternità il loro sistema di potere!

Tuttavia, è innegabile che anche fra le democrazie esiste una certa gradualità, che ne esistono di più sopportabili e di peggiori, e la democrazia italiana, dove non è mai esistita un’alternanza di governo fra socialdemocratici e liberal-conservatori, dove il timore di perdere il confronto elettorale non ha mai fatto remora alla corruzione, si è collocata presto, e si colloca tuttora fra le peggiori che esistano.

Bisogna poi considerare gli effetti di quella che potremmo chiamare la “pedagogia resistenziale”.

Per i comunisti, la conclusione del conflitto con l’assegnazione dell’Italia al blocco “occidentale” dominato dagli Stati Uniti che rimandava sine die la “rivoluzione” e la loro presa del potere, fu ovviamente una delusione. Costoro inventarono la leggenda di aver “liberato” l’Italia dai Tedeschi e dai fascisti, salvo poi l’arrivo a cose fatte degli angloamericani che li avrebbero disarmati e strappato la vittoria di mano.

Oltre che obiettivamente falso, era un’assurdità: i metodi della guerriglia partigiana portarono al più ad azioni di disturbo che resero più precaria la situazione dei Tedeschi e dei  combattenti della RSI, e li costrinsero a distogliere forze dal fronte; non solo se l’Italia non si fosse trovata sotto la pressione di un’invasione, essi sarebbero stati inapplicabili, e senza contare ovviamente il fatto che i partigiani ricevettero dagli “alleati” un costante approvvigionamento di armi e rifornimenti di ogni specie. In pratica costoro furono le mosche cocchiere dell’invasione, anche se bisogna ammettere che si trattò di tafani particolarmente grossi e velenosi.

Se si ripete qualcosa abbastanza a lungo e in maniera sufficientemente martellante, per quanto falso e assurdo, c’è sempre qualcuno che ci crede. In questo caso, la menzogna non riguardava solo la bontà della propria parte, ma anche l’efficacia “militare” dei metodi resistenziali, vale a dire sabotaggi, attentati, pistolettate alla schiena ai “nemici” presi isolatamente in agguati di tipo mafioso, e simili. Ora, provate solo a immaginare che qualcuno allevato in un simile clima dominato da nozioni distorte non solo dal punto di vista politico ma anche da quello strategico, decida di riprendere in mano simili metodi per portare a compimento quella rivoluzione che i padri non avevano potuto fare fino in fondo o che si erano lasciata scippare.

L’assurdo e avvelenato clima di violenza politica degli anni ’70 sono stati il prodotto più conseguente della pedagogia resistenziale, e le Brigate Rosse con la scia di attentati, di di delitti, di morti ammazzati assolutamente inutile, sono state le figlie più legittime e carnali della sedicente resistenza.

Questo lo si vede molto bene dal fatto che molti brigatisti non solo erano figli di partigiani, ma spesso i loro primi attentati furono fatti con armi che i loro padri avevano nascosto e accuratamente conservato invece di consegnare, nell’attesa appunto, di “riprendere la rivoluzione”, e il culto feticistico delle armi che, usate ripetutamente in più attentati, finivano per assumere agli occhi dei loro possessori una sorta di sacralità, è un altro tratto che lega in maniera evidente la “resistenza” partigiana al terrorismo brigatista.

Un clima intossicato di faziosità e di violenza politica che ha condizionato la storia italiana per decenni, e non si è dissipato nemmeno oggi.

1 Comment

  • Stefano Ferrario 25 Aprile 2015

    Come sempre rivolgo i miei complimenti al professor Calabrese per l’articolo e vista la data di calendario auguro un buon sabato Fascista a tutti!

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