10 Ottobre 2024
Filosofia

La filosofia tra razionalità e magia – Umberto Bianchi

C’è un elemento che, sin troppo frequentemente, ricorre nell’attuale ambito degli studi filosofici e scientifici in genere è che, la filosofia è cosa altra rispetto a tutte quelle forme di conoscenza imperniate sul contatto diretto con la dimensione dello Spirito e dell’immateriale che, per maggior comodità, siamo usi a definire “magiche”. Per costoro la filosofia è “scientia rationalis”, riflessione astratta sul senso del mondo e, pertanto, assurdo degli assurdi, forma di conoscenza perfettamente inutile. Lo studio della filosofia finisce, così, per esser relegato ad inutile e sterile esercizio di teoresi morale. Un fenomeno questo, dovuto all’incipiente specializzazione del sapere, che, a partire dal 18° secolo, ha riguardato l’intera sfera del sapere occidentale e che, comunque, lascia irresoluto il problema di una più corretta accezione ed identificazione del sapere filosofico in rapporto ad altre, consimili forme. Cerchiamo di procedere per gradi. Contrariamente a quanto fanno di solito gli altri, partiremo da un angolo prospettivo inusuale, ovverosia quello del mito. A ben vedere, quel sapere filosofico, che anima e crea l’Occidente, è figlio di quella “Techne/Techne” o “tecnica, arte del saper fare” donata dal gigante Prometeo all’umanità delle origini, così come il mito greco ci tramanda.

Ma “saper fare” cosa? Ravvivare quel fuoco della conoscenza con cui poter meglio guardare attraverso le scure notti dell’Essere, acquistando la sicurezza di poter piegare a sé gli elementi della natura. Il fuoco della conoscenza ci permette dunque di guardare la verità dell’Essere in tutta la sua interezza, per arrivare a infine a dominarla: questa è la reale essenza della filosofia e di conseguenza l’essenza dell’Occidente.

La strana ed ambigua metafora della vicenda di Prometeo, in bilico tra la benedizione della specie umana redenta e la maledizione della divinità adirata, si fa metafora di tutta la vicenda di un Occidente, animato dalla spinta al progressivo raggiungimento di traguardi sempre più elevati e lo spaventoso prezzo che questi via via richiedono. L’ irresolubile ambiguità che sin dall’inizio caratterizzerà la vicenda degli indoeuropei d’Occidente, esemplificata dal mito di Prometeo, ci porta dinnanzi alla vicenda della genesi di una tipologia di pensiero, il cui svolgimento non sempre è sempre unilineare né scontata, poiché non segue il filo di una narrativa conforme ad una serie di linee-presupposto che, anche se inizialmente tratteggiate, vengono poi contraddette o messe in condizione di convivere accanto ad altre opposte o differenti, sino a mutare completamente di senso. L’elemento di contraddizione, presente in quasi tutte le grandi narrazioni mitologiche (crudeltà e giustizia, etc.) generalmente riportato ad una trama di originaria coerenza, diviene qui metafora per una forma di pensiero che, sfuggendo a qualsiasi principio di coerenza interna, entra e fuoriesce dalla storia creando scompiglio, incertezza, vivificando contesti troppo spesso ispessiti e rinsecchiti nella pedissequa osservanza di una narrazione già assurta a ruolo di soffocante teologia. Il fuoco donato da Prometeo alle tribù greche dell’ecumene indoeuropea d’Occidente, permetterà dunque a costoro di rischiarare le oscure profondità di un’Essere che inizierà così a disvelarsi in tutta la propria complessità, lasciando così i primi osservatori in preda a quel “Tauma/Thàuma-stupore” a cui si accompagneranno però nuove ed impreviste problematiche.

E’ così, dunque, in modo quasi impercettibile, all’interno di quella ecumene indoeuropea inizialmente caratterizzata da similitudini linguistiche, religiose, sociali (struttura familiare patrilineare, tripartizione delle funzioni all’interno della società, etc.) inizia a manifestarsi una frattura non solamente geografica, (determinata dallo sparpagliamento di queste ultime verso Est e verso Ovest a partire da una regione vagamente identificata tra l’Asia centrale ed il Caucaso), ma anche e primariamente dal punto di vista di quella che, senza timore di cadere in un vuoto eufemismo, potremmo definire “geografia interiore”. Qui a contare sono i punti di vista, gli angoli di prospettiva interiore da cui si vogliono affrontare le questioni nodali che, via via si presentano. Di fronte al Velo di Maia posto davanti alla visione della realtà, gli Indù adottano il punto di vista di chi, scavalcando direttamente l’ostacolo sulla propria via, evita di entrare nel merito costituito da quest’ultimo, riflettendo in tal modo, nel proprio agire, un’adesione incondizionata ed acritica, ad un inamovibile ed assoluto principio di trascendenza. I Greci invece, riconfermando appieno la propria diretta filiazione da Prometeo, sollevano il fatidico Velo e si rendono protagonisti di un qualcosa mai prima d’allora tentato: il disvelamento dell’Essere, ovvero la conoscenza “critica” della realtà, tramite l’investigazione della totalità dei suoi aspetti, senza condizionamenti di sorta. Sollevato dai Greci, come mai sino a quel momento nessuno aveva fatto, il Velo di Maia offre la stupefacente visione di un Essere, la cui natura va disvelandosi in tutta la sua complessità, cominciando con il porre agli occhi di chi osserva una serie di interrogativi.

Inizieranno i filosofi Pre Socratici (le cosi dette scuole “naturaliste”), con il chiedersi di quale sostanza o “arche/archè/principio” è composto l’Essere. E qui inizia il primo “moderno” fraintendimento. I “naturalisti” subiscono il destino di una interpretazione all’insegna del più ottuso letteralismo materialista. L’acqua di Talete, al pari dell’aria di Anassimene o, ancor peggio, dell’ “apeiron/apeiron-infinito” di Anassimandro, non debbono esser intesi nel senso letterale della loro enunciazione, bensì quale metafora di quella “Natura Naturans” le cui materiali rappresentazioni, altri non costituiscono che vere e proprie teofanie, nel ruolo di archetipi principiali. Un primo passo questo, in direzione di quella divinizzazione degli elementi naturali che, della posteriore scienza alchemica occidentale e del sapere magico in genere, costituirà l’asse portante.

Il passo successivo, rappresentato dal successivo interrogativo che riguarderà la modalità di manifestazione dell’Essere e dell’intera realtà. Due nomi sopra tutti: Eraclito e Parmenide.Il primo si farà promotore dell’idea che la realtà altri non è che scorrere perenne, inarrestabile divenire, alla base del quale sta una ragione misteriosa o “Logos” che, pari ad un fuoco, stà lì ad illuminarci uno scenario di perenne lotta tra opposte polarità. Al contrario di Eraclito, Parmenide è lì ad affermarci la natura assolutamente statica e monolitica dell’Essere, all’interno ed al di fuori del quale non può esservi alcun movimento od alcunchè in grado di metterne in discussione l’essenza. Ogni fenomeno, a tal proposito, risulta essere frutto di un’illusione, così come successivamente dimostrato dal suo allievo, Zenone di Elea, a proposito dell’inconsistenza della materia. Di Parmenide ci rimane la testimonianza dell’unico poema da questi scritto e di cui, sino al 6° secolo DC, si possedeva la versione integrale: “Sulla natura”. Oggidì, di tanto poema ci sono rimasti appena19 frammenti, sufficienti però a mostrarci l’immagine di un autore, la cui contraddittoria complessità va ben oltre la dottrina di cui noi abbiamo poc’anzi, e molto semplicemente, tratteggiato le caratteristiche salienti. Al centro dei frammenti di cui sopra, sta un verbo che nella sua essenzialità pesa quanto una palla di cannone scagliata in tutta la sua dirompente forza: “Einai/Essere”. Il pensiero di Parmenide è il primo, nella storia d’Occidente, a porsi il problema, sull’accezione e sui più reconditi significati di questo verbo, dalla quale declinazione, si fa dipendere l’interpretazione della realtà intera. La sua terza persona singolare “esti/è”, declinata nel senso di un’affermazione positiva di un certo stato di cose, può, difatti, avere tre in greco accezioni: “copulativa” (è qualcosa), “esistenziale” (esiste), “veridica” (è vero). Il tutto, senza contare il problema di chi sia l’effettivo soggetto della voce “esti/è”. Ma a complicare ulteriormente le cose, sta il fatto che il nostro filosofo dovrà scegliere tra tre vie di ricerca per l’interpretazione dell’intera realtà: la via del puro essere, “che è e che non può non essere”, la via del puro non essere, “che non è e che è necessario non sia”, la via del puro divenire, “l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici”. E’ su questo terzo punto che si affaccia una inusitata problematica. Per Parmenide al di fuori dell’Essere non può esservi alcunchè, dunque il fatto che egli paventi l’esistenza di una qualsivoglia forma di Divenire (sia pure in una dimensione problematica quale quella testè riportata) ci spalanca la strada alla constatazione che, in qualche modo l’Essere “è e non è” allo stesso tempo, contraddicendo in qualche modo quell’intima natura affermativa che dovrebbe costituire in modo assoluto l’asserzione “esti/è”. In tal modo il pensiero di Parmenide si rivela ai nostri occhi in modo del tutto nuovo: non solo come affermazione assoluta nella propria indiscutibilità, ma anche come possibilità di deviare dalla propria originaria natura, riportando la nostra attenzione su un’ulteriore deviazione dalla pura razionalità alla pura ed irrazionale contraddizione, contemplando la possibilità della coesistenza e della osmosi tra due, apparentemente, opposte modalità di pensiero.

Sulla falsariga del pensiero di Parmenide, con un occhio ai precedenti filosofi “naturalisti” si pone, invece, Empedocle di Siracusa, da una parte propugnatore di una concezione omnicomprensiva dell’Essere, imperniata sulla sua perennità, per cui nulla nasce e nulla muore, dall’altra, cerca di dare una spiegazione razionale conto del mondo fenomenico. A detta di Empedocle, pertanto, fenomeni quali nascita, sviluppo, morte e via dicendo, sono unicamente la risultanza del continuo rimescolamento di sostanze-base o “ριζώματα/radici primordiali” che nel loro continuo cominarsi, prefigurano il “Kosmos”. Queste sostanze primordiali, sonio dal Nostro considerate ἀγένητα/innate o non nate e ἠνεκὲς αἰὲν ὁμοῖα/immutabili.A queste radici, Empedocle,cosa importantissima, conferisce il nome di quattro divinità: Zeus, Era, Adoneo, Nestis. Il moto dei quattro elementi primordiali è animato da due contrastanti principi: Amore e Contesa-Discordia che, in tal modo, regolano l’equilibrio dell’universo intero e del suo moto. L’importanza di Empedocle, all’epoca, non fu ben compresa; Platone ed Aristotele stessi, gli preferiranno Anassagora che, al posto delle “ριζώματα/radici”, parlerà di “semi originari”, mossi dal “Nous/Nous- Intelletto puro”. Non fu ben compreso, invece, che, pur partendo da quella base di pensiero che accomunava sia Parmenide con il suo Essere, che Eraclito con il suo conflittuale Divenire, nel conferire una più organica e completa sistematizzazione all’originaria intuizione dei precedenti filosofi pre socratici, Empedocle determinava una ulteriore e fondamentale deviazione del pensiero occidentale. Dal binario di un’algida riflessione all’insegna di un astratto razionalismo, si passava, invece, a quello di una riflessione “altra”, in grado di partire dal dato materiale per farne la metafora vivente e costitutiva dell’Essere intero. Si spalancava, in tal modo, la porta , grazie ad una elaborazione razionale, alla possibilità di addivenire alla modificazione della realtà intera, attraverso la manomissione di quegli stessi elementi-base di cui sopra. Cosa che, successivamente, avrebbe in Occidente, dato luogo a forme di sapere come l’Alchimia, l’Astrologia ed il culto dei pianeti e l’Ermetismo in genere.

La differenza che, tuttavia, va rimarcata con le precedenti forme di sapere misterico, quali Orfismo, Misteri Eleusini e tutte quelle altre forme di sapere “magico”, incluse quelle legate ad un’azione sciamanica, sta nell’immediatezza del rapporto con l’Essere e con la dimensione del trascendente che caratterizzavano per l’appunto queste forme. L’uomo viveva a contatto diretto con l’elemento sovrannaturale, attraverso l’atemporale elaborazione del mito. Sarà con la collettiva presa di coscienza della dimensione spirituale interiore e con l’impetuoso avanzare del pensiero astrattizzante,dall’VIII-IX secolo A.C. in poi, che l’uomo andrà perdendo quel senso di osmosi con l’Essere, sempre più necessitando di umane mediazioni (profetologia, etc.) e forme di razionale codificazione (quale quella filosofica, per l’appunto) per cercare, appunto, di riallacciare il contatto con quella dimensione “altra” della realtà, andatasi a vanificare nei secoli. Gli stessi grandi credi religiosi, inizialmente impostati su un armonico assieme di credo fideistico e forme di azione diretta sulla sfera divina (come tuttora, si può riscontrare presso le società tribali, in ambito extra-europeo, sic!), vanno sempre più assumendo la valenza di pure e passive forme di fideismo, relegando le forme di sapere magico ad ambiti sempre più ristretti ed occultati, come nel caso dei tre grandi credi monoteisti. E così, a ben vedere, il sapere filosofico, da arido ed astratto costrutto di teoremi, finisce con l’assumere una veste di inusitata complessità, in perenne bilico tra l’algida elaborazione razionale ed il protendersi verso l’abisso di una conoscenza senza fondo né fine, in grado di passare dall’ambito del micro cosmo dell’umana individualità, a quello del macrocosmo della dimensione trascendente.

Torna così a farsi “mathesis universalis/conoscenza universale”, quella Filosofia che, ora nel ruolo di ancella, tra le umane scienze, costituisce, invece, il più micidiale e potente strumento di dominio mai creato dall’uomo, poichè , come abbiamo già detto, essa costituisce quel fuoco della conoscenza che ci permette di guardare la verità dell’Essere in tutta la sua interezza, per arrivare a infine a dominarla. La Filosofia va facendosi, così, metafora vivente dell’Occidente e del suo pensiero da sempre dominato da quelle insanabili dualità, quali Immanenza-Trascendenza, Essere-Divenire, Apollo-Dioniso, che ne costituiscono, il motore vitale e l’intramontabile, oscuro, fascino.

UMBERTO BIANCHI

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