Ho raccontato più volte della passione verso libri e lettura trasmessami, fin quando ero bambino, da mio padre. Della vanità di avere una stanza con le pareti foderate da scaffali traboccanti copertine colorate, vecchi e nuovi acquisti. Ogni libro, o quasi, possiede una sua storia che mi appartiene e mi è cara. Anche oggi che, lo confesso, sono costretto a dedicarmi alla lettura con meno tempo e più fatica.
‘Era una gioia appiccare il fuoco’.
Lapidario, fin dall’esordio. Così ha inizio il celeberrimo romanzo di Ray Bradbury, in origine apparso sulla rivista Galaxy con il titolo Fireman nel 1951 e, in seguito, in volume nel 1953 con il titolo definitivo Farenheit 451. Un autore dell’inconscio, si è detto, dalle doti visionarie, quasi un sogno trasferito in parole immediate, immagini ed emozioni. La sua potenza evocatrice; tardivo quando tenta di rielaborare in idee e concetti. Romanzo fra i più famosi del genere di fantascienza e reso ancor più noto dal regista francese François Truffaut nella trasposizione cinematografica in tempi ove non vi erano effetti speciali o altre forme spettacolari per attirare l’attenzione dello spettatore. Troppo nota la trama per tracciarne un riassunto. Basterà ricordare come il protagonista, Guy Monntag, è attratto dai libri che, ormai merce proibita, si vede costretto ad incenerire fino ribellarsi.
Gli spiega il vecchio Faber, incontrato per caso e suo mentore in questa avventura proibita in cui va precipitando inesorabile:
‘… non è delle cose che amo parlare, ma del significato (in corsivo) delle cose. E mentre seggo su questa panca e mi guardo intorno so (in corsivo) di essere vivo’.
Questo è un libro. Quando, ad esempio, ritroviamo in esso un verso una frase una immagine e scopriamo che l’avevamo già intuita in noi. Ci rende meno soli e, in qualche misura, abbracciamo l’altro la natura e ciò che ci conduce oltre. In fondo è l’amico fedele che non tradisce se non siamo noi a tradirlo…
Al contrario è il suo comandante, il capitano Beatty, a descrivere il fascino e che si prova a distruggere i libri ed il perchè:
‘Delicatamente, come i petali di un fiore. Accendi la prima, poi la seconda. Ogni pagina si trasforma in nera farfalla. Bello non è vero? Accendi con la seconda la terza pagina e così via, a catena, un capitolo dopo l’altro, tutte le cose sciocche che le parole esprimono, tutte le false promesse, tutte le cognizioni di seconda mano, tutte le ideologie corrose del tempo’.
Il rogo dei libri corruttori nei cortili delle università tedesche all’avvento di Hitler al potere; analoghe scene dopo il golpe del generale Pinochet in Cile. Il drammaturgo Hanns Johst, passando dall’espressionismo al nazismo, nell’opera dedicata ad Albert Schlageter (1933) fa dire al protagonista che
‘Quando sento parlare di cultura, metto mano alla sicura della pistola’,
divenuta tanto famosa da essere accreditata ora a questo ora a quest’altro gerarca nazionalsocialista. E si può, per analogia, ricordare il classico dell’utopia negativa, 1984, di George Orwell – ove, dietro la visione tragica e ossessiva del Grande Fratello si punta il dito contro l’oppressione sovietica e di come in quel regime si trasformasse la storia modificando la presenza nelle fotografie di personaggi divenuti ostili a Stalin. E di riferimenti storici e di richiami letterari si può, si potrebbe ben scrivere qui ed altrove riempendo pagine e pagine.
Amare i libri, odorare la carta, sentirne lo spessore lieve sotto i polpastrelli, fiutarne il contenuto ed il valore sulle bancarelle simile a maiale o cane da tartufo. Basta lo sguardo lungo le pareti e mi sento appagato. Non poterne fare a meno, pur sapendo come tanti che vai accatastando di questi riuscirai forse a sfogliarne qualche capitolo poche pagine. Il grosso volume (acquistato al prezzo di un cappuccino) di Giovanni Villella titolo Rivoluzione e guerra di Spagna – l’autore rivendica l’autonomia dello storico, ma il libro è schierato fin dalla copertina con i colori rosso ed oro – oppure Le stelle fredde dello scrittore vicentino Guido Piovene, che ebbe – mi sembra – un discreto successo ed oggi dimenticato. E dell’amico triestino Lorenzo Salimbeni, un giovane ricco di sentimenti e rigoroso nella documentazione, che ha proposto alla Fondazione Ugo Spirito Sul ciglio della foiba.
(E, qui, ci tengo a citare la poesia di Cristian ‘Boccia’ Pertan, giovane paracadutista di famiglia di esuli istriani, morto in un inspiegabile incidente con il motorino, con cui Salimbeni sugella la raccolta di articoli di cui si compone il libro. Un omaggio a tutti coloro, penso a mio figlio Emanuele, che esuli e non, hanno ‘sposato’ la causa di quelle terre che, comunque si intenda cause ragioni possibilità, rimangono vive nel nostro cuore nella nostra mente. ‘Terra rossa terra mia – Quando sono andato via – Ho affidato a te il mio cuore – Ti ho giurato eterno amore – Casa mia terra mia – Terra rossa sangue mio – Rosso il sangue dei miei padri – Massacrati ed infoibati – Sangue il pianto dei miei padri – Esiliati ed umiliati – Terra e sangue ho nel mio cuore – Terra rossa dolce amore – Lacrime della mia gente – Terra rossa che non sente – Il dolore mai lontano – Del popolo istriano’).
Eppure avverto un tenace sussurro una voce imperiosa dai forti accenti e dal forte richiamo. Sono le parole del capitano Beatty che si traducono nell’immagine della farfalla dal colore nero della carta bruciata. Sono le parole di Albert Schlageter che si accompagnano al rumore ferrigno della sicura che scatta e del proiettile in canna. E’ un grido un urlo – ‘Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più’ da Il mestiere di vivere di Cesare Pavese (il 28 agosto 1950 in una stanza d’albergo nei pressi della stazione un colpo di revolver) e, ancor più a me prossimo, Pierre Drieu la Rochelle, 16 marzo 1945 –. Un grido un urlo disperato e fiero.
Incenerire i libri; assassinare l’umano? Il pensiero di Martin Heidegger ricorda come ‘l’uomo abita nella casa del linguaggio’ e Ezra Pound il ‘Tempus loquendi’ quale atto principe dell’esistenza in contrapposizione alla morte. Prima di darsi la morte con il rito antico del seppuku lo scrittore giapponese Mishima Yukio lascia sul vassoio in busta chiusa le ultime pagine della tetralogia del Mare della fertilità. Nel romanzo di Ray Bradbury portare il cervello alla propria negazione (e consumismo e tecnologia e edonismo) è il fine che si sono posti gli oscuri – non si fa mai alcun cenno di loro – dominatori, i governanti di quel mondo ove operano gli incendiari dalla Salamandra stampigliata sull’elmetto. E la cultura, espressa nella salvezza dei contenuti delle opere stampate, si preserva in coloro che divengono, attraverso l’apprendere pagina dopo pagina a memoria, i portatori di quei medesimi libri. E la scena con la quale si conclude il romanzo è proprio quella dei vagabondi lungo i binari abbandonati della ferrovia, ognuno dei quali è un libro un’opera un contenuto…
Eppure c’è un altro richiamo che si leva nella cenere a forma di nera farfalla, in quel estrarre il revolver dalla fondina. Diceva Nietzsche come un libro deve essere capace di andare oltre ogni libro. Dove collocarsi, però? Nella carne nelle ossa nel sangue… Fra qualche giorno sarò a Rimini, in quella terra di Romagna a me tanto cara simile a seconda casa, a partecipare ad un convegno sul tema ‘Identità e Tradizione’ (che, in parole concetti idee, finiscono per rendersi in esercizio da funambolo, un funambolo che, nello Zarathustra, conosce lo scacco la caduta la morte). Se, però…
Riportavo, all’interno di uno dei racconti de Ai confini del nero, la vicenda tragica dei cosiddetti ‘Corrieri della morte’ che, dopo l’aprile del ’45, si fanno consegnare dalle prigioni i ‘repubblichini’ con la scusa di trasferirli nelle città di origine e sottoporli a processo. In effetti, fatta poca strada, basta una radura la spalletta d’un ponte il primo luogo appartato una raffica di mitra il colpo di grazia. Toccò anche agli uomini della Brigata Nera di Forlì che, con le loro famiglie, s’erano acquartierati in provincia di Vicenza. E, fra costoro, venne prelevato Guido Garaffoni, B.N. di Cesena, che si era distinto in più rappresaglie e fucilazioni di disertori e partigiani.
Scrivevo: ‘… a mezzo pomeriggio, ritornano nel carcere e questa volta trovano Guido Garaffoni e, con lui, una dozzina dei suoi… breve tratto di strada, deviazione per una stradicciola di campagna, fatti scendere i prigionieri, in fila l’uno dietro l’altro, pochi passi fino al greto del torrente Igna. – Se c’è qualcuno che deve rispondere, sono solo io! -, grida allora con voce sicura il Garaffoni. E qualcuno dei suoi, accostandosi a lui: – Se rispondi tu, ci devo entrare anch’io -. Anche gli altri si fanno dappresso, raddrizzando la schiena e sfidando gli uomini armati. Se si deve morire, si muoia insieme come in vita s’è divisa la medesima sorte. Sanno d’essere vinti non vogliono essere domi. E’, allora, che il Garaffoni, camicia nera torturatore assassino fanatico e quant’altro di malvagio veniva a lui attribuito, fa un passo avanti le mani sui fianchi e si mette a ridere, un ridere schietto aperto, si direbbe, quasi gioioso. – Ancora il coraggio di ridere… va che te la faccio passare io la voglia –, gli urla paonazzo uno dei partigiani con una sorta di tremolio nella voce tanto da sembrare che si siano rovesciati i ruoli, essere lui quello che, disarmato, debba essere ammazzato come un cane. – Su… Spara! – gli risponde il comandante brigatista…’
Qui non c’entra alcun discorso ‘morale’ (di cui, in effetti, poco o nulla m’interessa), non uno schierarsi da una parte o dall’altra (il regno delle opinioni è dominato dalla forza o, se si preferisce, dal buon gusto di ciascuno di noi), forse da una estetica che discrimina, nell’esistenza quale malattia (ne ho scritto in altra occasione), il modo come l’affrontiamo e come, di fronte alla morte, ce ne liberiamo… C’è la ricerca del ‘significato’ delle cose che non sta necessariamente dalla parte dei libri, di cui non posso fare a meno (lo confesso e mi ripeto), ma – apparente paradosso che altro non è che un ‘più vita’ – in quella nera forma simile a farfalla.
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