Quattro minuti di applausi. Così il parlamento spagnolo ha celebrato la definitiva approvazione della legge sull’eutanasia. Votata da tutto le forze di sinistra, ma anche dai liberali e dal Partito Nazionalista Basco, di secolare tradizione conservatrice e cattolica, la legge metterà a carico del sistema sanitario pubblico “il diritto di richiedere la prestazione di aiuto nel morire”. Un linguaggio che fa rabbrividire, gelida miscela di indifferentismo burocratico e neolingua progressista.
Gli oppositori della legge spagnola lamentano lo scarso dibattito sociale, il mancato ascolto di molti medici che non vogliono ridurre la loro nobile professione al ruolo di boia burocratici e seriali. Viene in mente Hannah Arendt, la banalità del male che riconosceva in Adolf Eichmann, niente più che una gelida rotella di un dispositivo assassino. La Chiesa cattolica spagnola invita all’obiezione di coscienza e propone di formalizzare il testamento biologico in cui si chiede esplicitamente di esser trattati con le cure palliative, alle quali la legislazione iberica non conferisce dignità ne fondi. Il ministro della Salute (formidabile ossimoro orwelliano) Carolina Darìas, ha affermato che la legge “avanza nel riconoscimento dei diritti, verso una società più umana e più giusta e più decente”. Per la deputata firmataria della legge – sgomenta, nella vicenda, il ruolo delle donne, una volta simbolo della vita e della cura –si ha “il diritto di disporre della fine della propria vita”. Una volta di più, l’uomo vuole farsi Dio. Un’altra deputata ha accusato gli oppositori di voler imporre la loro morale. E’ un argomento risibile, che venne usato fin dagli anni 70 in Italia dai radicali per le loro battaglie che è obbligatorio definire civili. La verità è opposta: l’imposizione viene dal lato progressista ed è infantile la considerazione che nessuno è obbligato a chiedere l’eutanasia, come nessuna donna è obbligata ad abortire e nessuna coppia a separarsi alla prima lite. Viviamo nell’oscura tirannia di Semiramide, la regina assira “che libito fè licito in sua legge”, ovvero dichiarò legale tutto ciò che piaceva a lei, il potere. Quando la legge permette qualcosa fornisce un potente elemento di legittimità e persino di intrinseca bontà a qualunque pratica, qualunque sproposito imponga lo “spirito dei tempi”. Nello specifico, l’eutanasia legale rappresenta una bruciante sconfitta morale per una società spappolata, sedicente sviluppata e civilizzata. Trasforma lo Stato- nato per proteggere la vita dei suoi cittadini – in amministratore della morte; più che una capitolazione, è il capovolgimento del significato di dignità umana e di compassione (oggi si deve dire empatia…) per puntare tutto – compresa l’esistenza stessa – su una sotto cultura dello scarto in cui non c’è posto per la sofferenza, fisica e morale.
La morte gaia applaudita dai rappresentati di un antica nazione europea e cristiana è la rinuncia più grande a riconoscere la dignità e indisponibilità della vita, fuori dalla retorica dell’uguaglianza e delle melense frasi “umanitarie”. Quale valore ha la vita umana se non si protegge la sua nascita e non la si difende nella debolezza, nel dolore, nella vecchiaia? Per le istituzioni internazionali e per gli Stati, sempre più siamo “scarti umani” da eliminare, meglio ancora se le nostre spoglie possono essere riciclatein qualche lavorazione industriale utile al mercato. Nel caso spagnolo, i dati affermano che ogni anno 60 mila persone muoiono nell’abbandono e senza cure palliative. Quando il dolore è trattato e si sentono accolti, i sofferenti lottano ancora per la vita. Più facile, comodo, sopprimerle, con grande vantaggio per i conti pubblici, la spesa sanitaria, le assicurazioni e i fondi pensione. Più letti liberi negli ospedali, mascherati da “compassione”, “dignità” e da tutte lealtre parole vuote di cui è ampiamente provvisto il lessico post moderno. La morte è un sollievo per i conti pubblici, liberati da chi non è più produttivo ed è diventato un costo. A noi sembra disumanizzazione, rinuncia definitiva delle istituzioni umane a difendere i più deboli. I devoti del progresso, per i quali ogni sproposito gradito al sistema, prontamente accolto da cervelli portati all’ammasso, è una legge “di civiltà”, la pensano come l’ex presidente del FMI Christine Lagarde, volto imbellettato dei poteri forti, per la quale l’invecchiamento della popolazione rappresenta un problema per i conti pubblici. Mirabile cinismo amorale che fa il paio con il presidente argentino (peronista di sinistra) Alberto Fernàndez, preoccupato per l’equilibrio dei conti pubblici minato dalla spese per gli anziani. La soluzione è pronta: eliminare le eccedenze, mascherando il tutto con la retorica della “qualità della vita” e della “morte degna”.
Un ulteriore paradosso del caso spagnolo è che la legge sulla gaia morte è stata approvata nel mezzo di una pandemia che ha fatto più morti che in Italia, in una nazione che non trova le risorse per curare la salute mentale in cui si estende il ricorso a psicofarmaci e ansiolitici. Uccidendo a richiesta protocollata– perché questo è – rinunciamo a essere società e gettiamo nella spazzatura il concetto di umanità. Per di più, degradiamo il medico, difensore della salute, a mero assistente –esecutore del suicidio, supervisore burocratico della morte divenuta procedura burocratica. Egli si occupa della regolarità di un processo affinché avvenga in fretta e senza errori. La morte a norma di legge, con processo verbale di operazioni compiute, come nella prassi ministeriale. Aperta la porta, chissà se davvero varrà solo la triste volontà di morte di un sofferente o se gli abusi sfoceranno in omicidi su commissione. La sofferenza psichica, il “male di vivere” tanto diffuso nella a-società disumana, diventerà un criterio in più per dare la morte? Già capita in Olanda e in Belgio. Ciò che dovrebbe turbare le coscienze addormentate – il sonno della ragione genera mostri, lo scrisse in un dipinto il grande pittore spagnolo Francisco Goya- è l’applauso alla morte. Che cosa c’è da celebrare, anche dal punto di vista dei sostenitori dell’eutanasia? Dare la morte significa legalizzare una duplice sconfitta, quella della scienza e quella di una società che non sa più offrire ragioni per vivere e ancora meno vuol prendersi cura della sofferenza. La “dolce morte” è un aspetto in più della rimozione del mistero dell’esistenza, a partire dall’invenzione di espressioni come “fine vita”. Alla morte è ormai tributato un vero e proprio culto immorale. Quanto all’eutanasia, sedicente “buona morte”, è una pratica che legalizza, autorizza e dà impulso alla morte; non è l’ampliamento di alcuna libertà, concetto legato alla vita, come fa credere il baccano mediatico teso a ideologizzare perfino il momento supremo dell’esperienza umana. Quale civiltà può sostenersi, se non protegge la vita ma applaude la morte? La questione è dirimente: in effetti, la nostra esangue civilizzazione non ha alcun interesse per se stessa. Malata di soggettivismo, di superbia e insieme di insignificanza, non vede oltre l’orizzonte individuale. Cancella tutto ciò che incomoda: la vita nascente, il dolore, la sofferenza, l’impegno costante. La morte è il grande tabù, oggetto di una rimozione tanto grande che non deve essere vista. Di qui la vergogna di migliaia di morti di Covid abbandonati e l’indifferenza per il corpo umano defunto, a cui non si tributano più onoranze. Lo si brucia o lo si disperde, oppure viene conservato a domicilio. Nel futuro prossimo chiuderanno anche i cimiteri. L’occidentale postmoderno si disprezza talmente da voler far perdere le tracce del suo transito nel mondo; l’eutanasia diventa il supremo atto di volontà di potenza capovolto nel suo contrario: cupio dissolvi, ansia di dissoluzione dietro l’apparenza di farla finita con le sofferenze.
E’ questo un aspetto indagato dal filosofo coreano tedesco Buyng Chul Han in un denso libretto intitolato La società senza dolore. Per Han, il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è così pervasiva da spingerci a rinunciare alla libertà- ormai alla vita stessa- pur di non doverlo affrontare. La finta sicurezza si trasforma in gabbia, poiché è attraverso il dolore che l’uomo si apre al mondo. Il suo rifiuto diventa sintomo di una condizione che lo precede, il rifiuto della nostra fragilità. La società analgesica, medicalizzata e igienizzata va in frantumi dinanzi all’insopprimibile ritorno – individuale e collettivo- della sofferenza e del male in tutte le sue forme. Siamo così fragili da preferirgli la morte ed è una scelta che lascia senza fiato, giacché dall’orizzonte umano e spirituale è stata cancellata ogni traccia di trascendenza, di speranza religiosa rispetto alla nostra finitezza. Un ulteriore elemento è l’orrore per la vecchiaia. Mentre gli ingenui e i malvagi si abbracciano esultanti per avere legalizzato un grottesco “diritto a morire”, cade un’altra barriera: senza una legge dello Stato, con tutta la sua forza simbolica, togliersi la vita era mal visto. Adesso, con il paravento della volontà del paziente, si potrà accompagnare il nonno a morire e tornare a casa soddisfatti. Non furono i nazisti – il male assoluto – i primi a legalizzare l’eutanasia? Rimproveravano al cristianesimo la carità, la cura per i deboli. Dimenticavamo: avevano pessime intenzioni, mentre le nostre sono nobili, degne e “civili”. Noi vi aggiungiamo il disprezzo per i vecchi. Jacques Attali, uno dei maestri di pensiero globalista e progressista lo ha detto con chiarezza, convinto di rappresentare un’umanità a parte, giacché è prossimo all’ottantina. Ecco un brano di un intervento del gran suggeritore delle cupole di potere: “credo che nella logica stessa del sistema industriale nel quale ci troviamo il prolungamento della durata della vita non è più un obiettivo auspicato dalla logica del potere. Per quale motivo? Perché questo era perfetto soltanto finché si trattava di prolungare la speranza di vita allo scopo di raggiungere la soglia massima di redditività della macchina umana. Ma dal momento in cui si superano i 60-65 anni l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e allora costa caro alla società. Per questo credo che nella logica della società industriale l’obiettivo non sarà più di prolungare la speranza di vita ma di fare in modo che all’interno di una di una determinata durata di vita l’uomo viva nella maniera migliore possibile, ma in modo tale che le spese sanitarie siano ridotte il più possibile in termini di costi per la collettività. Emerge un nuovo criterio di speranza di vita: quello del valore di un sistema sanitario in funzione non del prolungamento della speranza di vita ma del numero di anni senza malattia e in particolare senza ospedalizzazione. In effetti dal punto di vista della società è nettamente preferibile che la macchina umana si arresti brutalmente piuttosto che deteriorarsi progressivamente. È perfettamente chiaro se pensiamo che i due terzi delle spese sanitarie sono concentrate negli ultimi mesi di vita.”
Nessuno stupore, dunque, se i parlamenti legalizzano la “buona morte” (l’arresto brutale della macchina umana…) con gran scrosciare di applausi, simili alla formula cui erano tenuti i gladiatori romani nel circo: “Ave Caesar, morituri te salutant”. I plaudenti di oggi sono le vittime di domani; la ruota gira. Al tempo del politicamente corretto, non si può pronunciare la parola “vecchio”, sostituita da circonlocuzioni ridicole (diversamente giovane) o eufemismi farisaici. Per il vecchio, il suo corpo decaduto, la sua improduttività vige il ripudio e un sovrano disprezzo, fino alla richiesta imperativa alla “terza età” di nascondersi, non mostrarsi per non turbare la vita attiva e il senso del look. Dietro tutto questo emerge la paura invincibile della morte di società disperate, prive di fede, bisognose di nascondere nella vecchiaia il segno della prossimità della morte. Distrutta la famiglia, catena di trasmissione delle generazioni che vivevano insieme, la logica è l’odio delle tradizioni, la cancellazione dell’idea delle successive generazioni. La catene è spezzata e gli uomini e le donne d’oggi sono convinte che la loro vita sarà più piena se diventano monadi sciolte, solitarie. Di qui il desiderio di farla finita con i vecchi, confinati in ospizi che l’ipocrisia sociale chiama residenze sanitarie assistite. Vige un’idea della vecchiaia come età eccedente, superflua, una tappa odiosa della vita – la vita bulimica della società disperata- in cui si spengono le passioni e i malanni avanzano, sino ad amareggiare l’accumulo di giorni che dunque conviene abbreviare. Trasformata la vecchiaia in inutile tempo supplementare, è facile diffondere il disprezzo per gli anziani e il loro stesso odio di sé. Poiché la vecchiaia non può essere curata, è la medicina che deve accompagnarlaalla morte, affinché smetta di dar fastidio, pardon di soffrire. E’ davvero perduta una generazione che fornisce gaiamente la morte ai suoi vecchi sotto forma di “diritto” all’eutanasia, in attesa di analogo destino.
La vita non può essere a disposizione del potere pubblico. Con l’eutanasia diciamo addio a venti secoli di cultura a favore della vita e abbandoniamo lo stesso costituzionalismo moderno. E’ il fallimento di una civiltà. O la sua eutanasia: viva la muerte.
Roberto Pecchioli
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