Una città italiana, interno giorno, ore tredici. Il bus extraurbano è pieno di studenti del liceo che tornano a casa dopo le lezioni. Tutti i posti a sedere sono occupati, alcuni dai voluminosi zaini carichi di libri. Diversi giovani sono in piedi, solo due o tre passeggeri, tra cui lo scrivano, non sono in età scolastica. Colpiscono tre elementi: gli zaini pieni e pesanti, innanzitutto. Libri molti, studio poco: prima incongruenza. Secondo elemento, il silenzio innaturale dei ragazzi. Nulla della naturale confusione dell’età, l’ allegro “casino” che caratterizzava altre generazioni. Terzo, corollario e ragione del silenzio: tutti, ma proprio tutti, maschi e femmine, seduti o in piedi, sono chini- quasi religiosamente- sullo smartphone.
L’oggetto non più strumento, ma ragione di vita, cornucopia, medium di ogni relazione con il mondo, sostituto del mondo esterno, scatola magica che i più anziani si ostinano a ritenere un telefono e invece è per i più giovani una sorta di chiave universale, una coperta di Linus rassicurante, continuamente brandita, che connette ma lascia in uno stato di perenne minorità, una dipendenza di massa da cui pochi restano immuni. Il mezzo è il messaggio, disse Marshall Mc Luhan, il massimo studioso della comunicazione e dei suoi effetti sui comportamenti. E il messaggio, sembra all’osservatore, è l’emergere di una generazione muta. Aveva ragione Jonathan Haidt, psicologo dell’età evolutiva, asserendo che dal 2010, l’anno in cui lo smartphone ha fatto irruzione sul mercato, il cervello di chi si è formato con e su quel piccolo manufatto multifunzionale è diventato diverso da quello di chi era adulto al momento del lancio della scatolina prodigiosa.
Colpito, lo scrivano, al ritorno a casa ( le ricerche sullo smartphone non gli riescono, è un boomer attempato, non un Millennial) si mette a studiare, ricercare, per capire se la riflessione sul mutismo giovanile ha senso o è solo un accigliato giudizio sommario legato all’età. Troppo semplice: chi scrive ha scoperto l’acqua calda, davvero avanza una generazione muta. Addirittura dilaga tra i giovanissimi la nomofobia, acronimo di provenienza americana, neologismo derivante dalla contrazione di “ no mobile phobia”, il timore ( talora terrore) di separarsi o non avere a disposizione l’apparecchio. Quello che a molti anziani è una liberazione, per i nipoti è una malattia. A lato della nomofobia, si insinua la telefonofobia, ossia il disagio di comunicare via telefono (lo smartphone, pensa l’antiquato scrivano, è “anche” un telefono) e l’abitudine di non rispondere alle chiamate. Meglio le chat su Whatsapp, Telegram, Instagram .
Le statistiche sono trancianti: il novantacinque per cento dei giovani utilizza la messaggeria per comunicare e condividere quelli che dobbiamo chiamare “ contenuti”, messaggi, testi, immagini, filmati. Una percentuale analoga partecipa a una o più chat, i gruppi cui si rivolge un messaggio o un contenuto. La comunicazione verbale sembra in rotta, un’afasia diffusa che spiega in parte anche la povertà del linguaggio, la scarnificazione, la mancanza di profondità di ciò che si dice e scrive. Come sempre, la massificazione rende tutto superficiale. Scompaiono non solo tempi, modi verbali a favore del presente indicativo, ma anche le sfumature, i toni del lessico, del dialogo diretto. Declina o si dilegua anche il linguaggio non verbale, espressioni, posture, movimenti di parti del corpo.
I giovani appaiono eternamente curvi, ripiegati su un oggetto che in un attimo connette e – apparentemente – mostra, insegna, spiega, risolve in un momento ogni problema. Un potere enorme, che forma, deforma, trasforma e soprattutto manipola. Pochissimi giovani usano lo smartphone come telefono. La generazione muta, secondo tutti gli analisti, cerca sempre più di evitare di rispondere alle chiamate. Molti temono che lo squillo significhi una brutta notizia. Se è vero, si tratta di una generazione impaurita, struzzi che nascondono la testa sotto la sabbia, terrorizzati dalla realtà.
Pigiare sulla tastiera piuttosto che parlare: una rivoluzione antropologica. Per tre quarti dei giovani, spiegano le ricerche, parlare al cellulare consuma troppo tempo. Quasi due terzi dicono di sfuggire le chiamate per non dover ascoltare le lamentele del proprio interlocutore. Altri considerano le conversazioni inefficienti, fastidiose, stressanti o inutili, quindi le evitano. Rispondono alle chiamate di lavoro più che ad amici e familiari. Delizie della precarizzazione. Chat e messaggi vocali hanno sostituito le telefonate. Sebbene in media i membri della Generazione Z e i Millennials trascorrano cinque ore al giorno incollati allo schermo del cellulare, preferiscono concordare un orario per una chiamata piuttosto che riceverla senza preavviso.
L’ottanta per cento dei millennials confessa di provare ansia prima di effettuare una telefonata; spesso per evitare conflitti non compone nemmeno il numero. Quando questi sentimenti negativi si trasformano in timore, nasce una singolare telefonofobia. Questo fenomeno è una paura intensa legata all’effettuare o ricevere chiamate, ma va oltre la preferenza per altre modalità di comunicazione. Ne soffrono sempre più giovani, quelli che utilizzano maggiormente lo smartphone. Non per il dispositivo, ma per la comunicazione che implica, bidirezionale, diretta per quanto mediata da un apparato. Un’ulteriore fenomeno è il cosiddetto “phubbing” (unione di phone e snubbing, ignorare): lo smartphone inibisce o interrompe la comunicazione familiare. Consiste nell’ignorare amici e familiari durante una conversazione o a tavola, per concentrarsi sul cellulare. I legami si sfilacciano anche perché è sempre più comune che genitori e figli sotto lo stesso tetto smettano di prestarsi attenzione quando sono davanti al cellulare, al computer e alla televisione. Concentrati sul dispositivo mobile, si perde interesse a ciò che ci circonda, persone, cose, ambiente. Il fenomeno non è prerogativa solo giovanile, purtroppo, e genera un potente effetto imitativo. Madre Teresa di Calcutta diceva ai genitori: “non preoccupatevi se i vostri figli non vi ascoltano, loro vi osservano tutto il giorno”. L’esempio è lo strumento educativo più potente. Se i ragazzi vedono gli adulti di riferimento trascorrere ore davanti al cellulare, alla televisione o al computer, oppure rispondere ad una chiamata o messaggiare mentre pranzano o sono in compagnia, non esiteranno a fare altrettanto. Una delle conseguenze del mutismo da sovraesposizione agli schermi è la percezione distorta di ciò che è reale e ciò che è virtuale. Un ragazzo ne uccide un altro per cuffie telefoniche da venti euro: è tremenda cronaca italiana.
La nomofobia, la paura irrazionale di restare senza cellulare, colpirebbe l’ottanta per cento dei ragazzi. Cosa farebbero se restassero una settimana orfani di smartphone? Forse anziché pranzare guardando Tik Tok leggerebbero un libro, ritroverebbero la favella e rifletterebbero di più. Chissà. Uno studio di lungo periodo ha cercato di capire l’uso giovanile degli apparati mobili. L’esperimento è consistito nell’inserire un dispositivo di controllo sui cellulari di un ampio campione di adolescenti e giovani adulti. Nella prima fase sono state misurate e analizzate le ore trascorse connessi allo smartphone. Sulla media di cinque ore, quattro sono risultate dedicate alle reti sociali, Whatsapp, Instagram e Tik Tok in ordine di uso. La piattaforma cinese è sempre più l’unico canale informativo dei giovani. La scoperta dei ricercatori è stata che i ragazzi non cercano informazioni (!!!); queste arrivano loro in modo accidentale e involontario, attraverso le reti sociali. La preoccupazione sale: il potere di chi fornisce le informazioni in questa modalità è immenso, subdolo, privo di filtri, mediazioni e ancor più di canali alternativi. Il mutismo può trasformarsi facilmente in assenza di pensiero. Soprattutto di spirito critico, confronto, accettazione- magari dura ma serena- di distinti punti di vista.
Come detto più volte, il meccanismo genera un pensiero unico che è un unico pensiero, un non-pensiero sottilmente totalitario per mancanza di dibattito, paura e quindi odio per le visioni alternative. Oggi sarebbe forse impossibile scrivere La versione di Barney, il romanzo di Mordecai Richler del 1997, l’autobiografia di un uomo che interpreta gli eventi della sua vita in chiave difensiva per liberarsi dell’accusa di aver ucciso un amico. Nella seconda fase dell’esperimento, i partecipanti sono stati obbligati a non utilizzare i cellulari e a scrivere le proprie impressioni in un diario. Disagio, insicurezza, ansia e dipendenza sono state le sensazioni più ricorrenti . Molti hanno riferito di aver guardato a lungo nel nulla. Nella terza fase è stato permesso di riprendere a servirsi dei dispositivi. I livelli di utilizzo sono tornati immediatamente alla media di cinque ore. Il primo cambiamento osservato dai giovani è stata l’ammissione di essere dipendenti dai telefoni cellulari e che tutta la loro vita era legata allo smartphone. Telefono furbo, utente sciocco? Non pochi hanno migliorato la relazione con i familiari e riacquistato abitudini perdute.
Un’altra constatazione – che non ha bisogno di studi specifici – è che i giovani leggono pochissimo, e quasi mai il giornale quotidiano o i settimanali. Per loro è inutile comprare qualcosa che informa di ciò che è già successo, oggetto di aggiornamento via smartphone. Un’altra prova della riduzione della vita al presente e delle informazioni a breaking news momentanee, frammenti che scorrono via sostituiti dalla notizia successiva. Nessuna riflessione, nessun approfondimento, come sa chi scrive sui blog. La richiesta imperativa è di essere brevi, brevissimi, pena la noia e l’abbandono dei lettori. Eppure la realtà è complessa e non può essere ridotta al Bignami o, come si dice adesso, al tutorial. Nell’esperimento, tra chi ha accettato di rimanere senza cellulare, alcuni, dopo il nulla e lo smarrimento iniziale, si sono messi alla ricerca di contenuti per conto proprio, su mezzi alternativi ( ossia tradizionali!) riutilizzando la carta stampata o recuperando il valore informativo (e formativo) della Rete. Essere senza cellulare e dover andare sui siti o recarmi in biblioteca, mi ha costretto a cercare, a leggere e mi sono sentito più informato, ha riferito un partecipante. Una personalità di minoranza, ma che apre il cuore alla speranza: non ha accettato di diventare il prolungamento umano del dispositivo artificiale ed è tornato proattivo. Non siamo muti, non siamo incapaci di ragionare, non siamo dipendenti di un oggetto e della visione del mondo che trasmette. A patto di riconoscere la dipendenza, l’assenza di comunicazione, il distacco dalla comunità, di restituire valore all’Altro e all’alterità. Temiamo che non sia il caso di questa generazione, rovinata –irrimediabilmente? – dai padri, artefici del predominio dell’avere sull’essere, della materia sullo spirito, dell’individuo sulla comunità, del conformismo sul dibattito, della nuda tecnica, del “come “ sul “perché”, dell’ istante sul passato e sul futuro.
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