Collaborando nelle catalogazioni e nei rilievi effettuati a Ninive, Tell Brak e Nimrud con il secondo marito Max Mallowan – un talentuoso ricercatore che segnò la storia dell’archeologia mesopotamica come pochi altri – la leggendaria Agatha Christie non poté fare a meno di notare quanto fossero simili le indagini del criminologo e le ricerche dell’archeologo, entrambi interessati ai comportamenti umani declinati in tutte le forme possibili e immaginabili.
Nel corso del tempo le profilature hanno cambiato stile, soprattutto dopo la nascita dell’Ego che crescendo si è avvalso di strumenti d’investigazione come le discipline umanistiche, la filosofia, la teologia, la psicologia, la sociologia e via dicendo.
Il recente aumento delle guerre tattiche ha riportato in auge persino una scienza che si pensava superata, la Geopolitica, la quale tuttavia studia l’evoluzione di popoli e Stati in rapporto a fatti di ordine territoriale, o spaziale, tralasciando la genesi delle ramificazioni che hanno trasformato la Tradizione primordiale in una pluralità di «tradizioni» a loro volta creatrici di simboli, valori e visioni spesso opposte.
Bastano i «fatti storici» a spiegare le differenze? Quali interazioni hanno permesso, per esempio, lo sviluppo di «mentalità territoriali» talvolta offensive (anglosfera) e talaltra difensive (Brics)? Da chi/cosa dipendono le caratteristiche religiose (Iran), o d’ispirazione filosofica (Cina), o di autoidentificazione con la terra madre (Russia), oppure incapaci di comprendere che l’economia non fa la forza ma semmai la serve (blocco atlantico)?
Un notevole peso ha avuto la morfologia dei «luoghi» in cui i vari gruppi umani hanno messo radici dopo millenni di nomadismo, e, a tale proposito, viene spesso citata una frase attribuita a Napoleone: “la geografia è il destino dei popoli”.
Cercando di dare all’enunciato una dignità scientifica il geografo tedesco Friedrich Ratzel (1844- 1904) fondò l’Antropogeografia, o geografia umana, una disciplina nata per indagare l’uomo a tutto tondo, ovvero i legami esistenti tra l’etnologia e le caratteristiche di un determinato territorio, o spazio vitale (lebensraum).
Senza l’Antropogeografia non esisterebbero la geografia degli insediamenti, la geografia urbana, la geografia sociale (o dei fatti culturali), la geografia politica, la geografia economica, la geografia degli scambi commerciali e via dicendo. Tutti settori d’indagine che avvalorano l’affermazione del generale Bonaparte: la geografia è un «destino».
Il caso più eclatante riguarda il cammino del Sapiens-Demens, partito integro dall’Artico e tornato in mille pezzi all’Artico dopo un tracollo che ancora non si capisce come sia potuto accadere proprio sotto i nostri occhi. Sulle spalle porta il fardello di un mondo dove le guerre sono combattute dai mercenari, dio è morto, in posizione di comando bivaccano personaggi inadeguati e i valori sociali sono scomparsi. Tutti accessori inclusi nel pacchetto «destino».
L’Asse geografico della Storia
La storia del presente genere umano, quello di cui facciamo parte, inizia da un Artico spiritualmente dorato e finisce in un Artico di ferri arrugginiti. L’ultima fase della metamorfosi ebbe inizio nel XIX secolo, quando le dimenticate regioni polari entrarono nel mirino della classe mercantile europea pressata da una scienza sempre più invadente che reclamava nuove specie di piante da studiare e utilizzare, animali da catalogare e materie prime da trasformare.
Intuendo il potenziale del Polo lo statunitense George Renner (1900-1955) nel libro Geografia umana nell’era dell’aria attirò l’attenzione dei suoi contemporanei sulla centralità del «cuore esteso» (la fascia sub-artica) che racchiudeva il «piccolo cuore» costituito dai territori più settentrionali dell’Eurasia, della Groenlandia e del Nordamerica, i quali abbracciavano una sorta di lago interno di enorme importanza geostrategica.
Esperto in Geografia il professore evidentemente non era altrettanto ferrato in Storia e Preistoria, altrimenti si sarebbe accorto di avere scoperto l’acqua calda. Ciò che stava proponendo come una brillante intuizione in realtà era un riciclo dell’antica concezione dell’ombelico del mondo, ossia la conferma della centralità del luogo-madre da cui era partita la civiltà.
E siccome nella circonferenza del cerchio inizio e fine fanno sempre tutt’uno (Eraclito), ecco che il «destino» dopo inenarrabili peripezie ha riportato il Demens là dove la presenza del Sapiens si attesta attorno ai 50mila anni fa, complice un clima particolarmente favorevole.
Interessanti scoperte archeologiche ha riservato il sito canadese di Old Crow, nello Yukon, oltre il circolo polare artico, mentre reperti vecchi di almeno 40mila anni sono riemersi dagli scavi di Mamontovaya Kurya, nella Russia artica europea.
Sul fronte orientale della Siberia la presenza di erbivori di grossa taglia e di insediamenti umani risalenti a 35-20mila anni fa è attestata sia sul delta del fiume Yana, che sfocia nell’Artico, sia lungo il poco distante fiume Lena. Senza contare l’enorme influenza esercitata dalla cultura siberiana di Mal’ta-Buret’ (26.000-17.000 a.C. circa), sviluppatasi lungo il corso del fiume Angara, ad occidente del lago Bajkal.
La prima ed ultima frontiera
A tutti gli effetti la circolarità quasi perfetta della geografia dell’estremo settentrione ha determinato il suo destino, nel senso che la forma ha permesso alla sostanza di «circolare» liberamente nel tempo e nello spazio [immagine 1].
Si presume che proprio i popoli affacciati all’Oceano Artico abbiano dato origine a quella che oggi viene definita BE, ovvero la «Basale Eurasiatica». Una meta-popolazione costituitasi attorno ai 54.000-49.000 anni fa per poi disperdersi nel vasto complesso delle popolazioni sub-artiche (Inuit, Yupik, Siberiani, Cinesi, eccetera).
In modo particolare la Cina ha resistito ad ogni successiva trasformazione. Tuttora il capo del Partito-Stato cinese, Xi Jinping, parla in pubblico del «sogno cinese» (zhongguo meng) esprimendosi attraverso le metafore e le immagini poetiche tipiche dell’antica tradizione eurasiatica. Il paragone con la narratologia propagandistica euroatlantica è impietoso, ma d’altronde sul «destino geografico» non si discute.
Va detto comunque che gran parte delle culture extra-occidentali ha potuto mantenersi tradizionalista nel rispetto della pluralità delle tradizioni (anti-liberale) grazie all’estrema dilatazione del proprio territorio. Mentre l’«accessibilità» dell’Europa continentale ha fatto di essa il motore di un sedicente progresso sopravvissuto esorcizzando l’idea di Tradizione, giudicata un’oppressione di cui l’uomo moderno si doveva liberare. È diventato così leggenda anche il ricordo del «punto di partenza» primordiale e perfetto, l’Artico. Non ultima la fattiva collaborazione di una classe intellettuale affetta da “superbite”, per dirla con Dante (Pg XII 64-72).
Proprio l’arretramento del Sacro ha giustificato la profanazione del luogo più venerato al mondo, il Polo, oggi in procinto di diventare un cantiere pieno di trivelle assetate di combustibili fossili e circondato da piattaforme petrolifere, infrastrutture pesanti, pescherecci industriali, navi passeggeri, magnati delle big tech pronti ad estrarre croste di cobalto da montagne di acque profonde. E tanti saluti alla fauna marina.
Campioni universali di cattivo gusto gli Stati Uniti hanno battezzato la loro base operativa groenlandese con il nome di «Thule», come se bastasse un antico blasone a coprire le colpe. Già si è provveduto alla nomina di un Ambasciatore per l’Artico che rappresenterà gli States presso tutte le istituzioni, formali e informali; peccato solo che la Russia continui a considerare l’Artico una specie di mare nostrum.
Il disgelo accentuerà inoltre la competizione tra l’importante corridoio di trasporto e commercio denominato Northern Sea Route, una rotta di collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico, e l’omologo passaggio canadese di nord-ovest [immagine 2].
Il Grande Gioco Artico è appena cominciato ma i presupposti per una «guerra calda in terre fredde» ci sono già tutti, e, prevedibilmente, il consolidamento dell’asse Mosca-Pechino (favorito dalla politica storpia di Washington) non avrà delle conseguenze soltanto sulla rotta marittima settentrionale che corre lungo la costa siberiana.
Seguendo i soliti schemi la Nato sta circondando l’area di postazioni belliche e militari di varia grandezza, in particolare sulla punta nord-est della Finlandia, che però è ad un passo da Murmansk, la città più grande al mondo sopra il Circolo polare Artico, unico porto russo che non ghiacci d’inverno e perciò base navale di primaria importanza. Quanto tempo ci vorrà prima che i due schieramenti si disputino apertamente l’ultima delle frontiere?
Ombre corte e mani lunghe
In veste di commediografo Oscar Wilde scrisse nell’opera teatrale Una donna senza importanza (1893) che spesso a un buon inizio corrisponde una brutta fine: “Il Libro dei Libri inizia con un uomo e una donna in un Paradiso – e finisce con un’Apocalisse.” Infatti la corsa all’oro nell’Eldorado del XXI secolo, l’Artico, promette male.
I primi a farne le spese saranno i gruppi residuali di popolazioni autoctone. Genti pacifiche che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso popolavano in discreto numero un territorio immenso dove la temperatura minima arriva fino a 80 gradi Celsius sotto zero, il sole a mezzogiorno non supera i 27 gradi di inclinazione e gli 11 a mezzanotte.
Fra gli ultimi a rispettare i legami che uniscono gli esseri umani alla Natura e alle sue leggi, gli Inuit amano definirsi «gli uomini del paese delle ombre lunghe» perché qui il sole si mantiene basso all’orizzonte, il riverbero del ghiaccio ne moltiplica il bagliore mentre l’inclinazione dei raggi allunga le immagini sulla superficie gelata. Tutti gli altri sono «uomini dei paesi delle ombre corte», ovvero riflessi d’uomo precipitati nell’aria calda (caduti) e quindi vittime degli abbagli prodotti dall’eccesso di luce solare.
Storie ancestrali che raccontano più di quanto dicono.
Fuochi smorzati con rabbia dalle truppe neocoloniali che imposero agli Inuit di uccidere al massimo tre foche all’anno, che voleva dire farli morire di freddo e di fame, ovvero sloggiarli dalle loro terre. Nel frattempo gli occidentali sterminavano i mammiferi marini a centinaia solo per prendere le pelli, lasciando le carcasse in pasto ai gabbiani.
Dopo l’incredulità per quelle genti venne la disperazione, i suicidi a raffica, l’alcol e l’integrazione/estinzione. Un film già visto con i Pellerossa e gli indios del Sudamerica, ma dopotutto le tattiche dei predatori sono sempre le stesse.
Oggi la culla del Sapiens appare a tal punto devastata che persino gli orsi polari morti sono considerati rifiuti tossici da smaltire in apposite discariche. Alcuni campioni di fegato e grasso prelevati da altre specie hanno dimostrato che i peggiori veleni ambientali stabili circolanti negli ecosistemi mondiali vanno ad accumularsi proprio al Polo Nord e finiscono nel corpo degli animali polari che addirittura cambiano sesso, oppure perdono le capacità riproduttive. La fine dell’inizio è vicina?
Il «ripristino» della Natura
Argento, piombo, zinco, uranio, diamanti e terre rare. Continua la corsa per accaparrarsi i diritti sui giacimenti di combustibili fossili e infilare le pompe nelle vene metallifere; con la differenza, rispetto al passato, che stavolta il pericolo è globale, essendo entrambe le parti in possesso di bombe nucleari mini e maxi.
Inutile illudersi di riuscire a farla franca, cioè di «non vedere» il peggio. Il futuro non sarà domani, è già qui, oggi. Per nasconderlo agli occhi della massa ed evitare il panico collettivo si creano allarmismi su fronti decisamente più tiepidi come ad esempio l’assottigliamento delle calotte, un evento che certo non riguarda la sicurezza mondiale ma semmai la geopolitica e l’economia.
I quattordici millimetri di innalzamento dei mari negli ultimi vent’anni sono un’inezia in confronto ai centoventi metri di sollevamento delle acque a cui assistettero gli antenati post-diluviani nell’arco di pochi decenni; eppure, la specie umana non si è estinta.
Altri tempi? In effetti una volta c’erano le catastrofi mentre oggi ci sono le tragedie, che, a dispetto delle apparenze, sono un guaio ben peggiore. Dopo una catastrofe (dal greco καταστροϕή, «rivolgimento, rovesciamento», der. di καταστρέϕω «capovolgere») ci si può anche rialzare, qualora l’animo sia integro e il corpo sano; invece la tragedia (dal greco ᾠδή «canto» e τράγος «capro») mette in subbuglio la coscienza e mina alla base ogni capacità di reazione, neutralizzandola.
Senza contare che la tragedia è contagiosa, una tira l’altra come dimostra il mondo-Demens che è un almanacco di tragedie esistenziali, personali, famigliari, sociali, economiche e persino ecologiche alle quali le istituzioni europee pensano di porre rimedio attraverso regole assurde come quella che prevede il «ripristino della Natura». Un’operazione il cui unico merito sarà quello di «ripristinare» le borse dei gruppi finanziari coinvolti nell’impresa mentre greggi di utili idioti continueranno a riempirsi la bocca di «ecologia» e patatine fritte.
Qualcuno dovrebbe dire a questa gente che l’uomo non ha la capacità di «governare i fenomeni», essendo lui per primo un «governato» al quale è preclusa la carica di «governatore». Se davvero si vogliono indagare le interazioni tra gli organismi viventi e il loro ambiente, ci si soffermi piuttosto sulle riflessioni di autentici pensatori come ad esempio Dominique Venner, il quale conclude il suo libro Le coeur rebelle con queste parole: “Io sono della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del solstizio d’inverno e di San Giovanni d’estate.”
La Natura vergine, i boschi, gli oceani, i corsi d’acqua, le praterie popolate da cervi e bisonti sono simboli evidenti di un mondo che prosegue oltre le apparenze. Per quanto bui possano essere i tempi la foresta profonda e misteriosa dell’origine umana, dove l’anima diventa il luogo della contemplazione e il cuore si trasforma nel suo spazio consacrato, sarà sempre l’unico «vero» santuario in cui l’uomo potrà raccogliersi, e forse ritrovarsi.
È «destino»: prima Sapiens, poi Demens, un giorno chissà. Ogniqualvolta il genere umano si è sentito parte integrante del creato ha potuto elevarsi al di sopra della Materia e automaticamente dio è diventato la Natura, la Natura è stata una Mente, l’Universo un Grande Pensiero; quando invece se n’è chiamato fuori ha dovuto ammettere di appartenere a una specie folle che “venera un Dio invisibile e distrugge una Natura visibile, senza rendersi conto che la Natura che sta distruggendo è quel Dio che sta venerando” (Hubert Reeves).
Chiaramente il suddetto dio-Natura è un ente non-ecologico dove si trovano riuniti prima di prendere ognuno la propria strada Spirito e Materia, uomini e dèi. In questo contesto non c’è niente da «ripristinare» fuorché se stessi, godendo del privilegio di fare parte di quel meraviglioso disegno che la scienza moderna ha chiamato «evoluzione della Vita».
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