Beata ignoranza. Il 20 marzo scorso era la “giornata internazionale della felicità” e non lo sapevo. Ero sereno, immerso nei fatti miei, senza pensare ai massimi sistemi. Tra giornate della donna, della memoria, feste della mamma, del babbo, dei nonni e presto anche dei cognati, Halloween il dì delle zucche vuote, festa degli innamorati, dell’orgoglio gay e LGBT, sommate alle varie solennità civili, non ne posso più. Mi rendono infelice, per dirla tutta, schiacciato dalla retorica dolciastra, dai finti buoni sentimenti, dall’ipocrisia un tanto al chilo, dall’ obbligo di condividere le parole vacue del circo della comunicazione, a cui è difficilissimo sfuggire a meno di non ritirarsi su un alto monte. Nella debole speranza di non essere raggiunti – specie nel fine settimana – da torme di turisti transumanti alla ricerca della loro fettina di felicità, debitamente immortalata dai selfie e prontamente postata sui media sociali. Mi piace, il pollice alzato, buffo surrogato della felicità.
Ho un pessimo carattere e uno degli elementi della mia felicità (o almeno della pace interiore) è stare lontano dalla massa, dai suoi riti ridicoli e dalle idee propalate dall’altoparlante del potere, per difendermi dalle quali invoco il ripristino del reato di abuso della credulità popolare, da punire con severissime pene. Detesto perciò che persino la felicità, questo sentimento impalpabile e indescrivibile che apre il cuore, abbia la sua giornata, cioè la sua razione di enfatiche melensaggini. Giusto allo scopo di farmi male e diventare infelice, mi sono informato. La superflua giornata della Felicità (con la maiuscola, è scritto così sul sito dedicato) è stata istituita dalle Nazioni Unite (espressione bugiarda che mi fa fremere di fastidio) nel 2012. Se ne sentiva davvero il bisogno: la felicità per un giorno e per decreto approvato con la risoluzione dell’ ONU 66/281 del 28 maggio 2012, anno primo dell’E.F. (Era Felice).
A giudicare dalle guerre in atto, dalle innumerevoli dipendenze, dall’abuso di farmaci, dal tasso di suicidi, siamo infelici. E’ difficile definire il concetto di felicità: ci hanno provato in molti e nessuna definizione è soddisfacente. A me piace il verso alessandrino di Edmond Rostand nel Cyrano ( un uomo infelicissimo per colpa del naso, che inventava frasi d’amore per un amico bello e sciocco). “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità.” Ognuno lo ha sperimentato e può dirsi fortunato di avere vissuto alcuni di quei momenti.
La nostra è l’era dei diritti. Il “dirittismo” – fastidiosa escrescenza retorica della libertà comandata – nacque con la rivoluzione americana del 1776 e si propagò come un incendio in quella francese del 1789. Da allora godiamo di un numero crescente di diritti, che, tutti insieme, dovrebbero garantirci la felicità. La costituzione americana pone il diritto alla ricerca, o al perseguimento (pursuit) della felicità addirittura nel primo articolo. Illuminismo declamatorio, fonte di nuove infelicità. “Le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale” sosteneva nel XVIII secolo il giurista napoletano Gaetano Filangieri. Sarà invincibile imperizia, ma non riusciamo a capire che cosa significhi “felicità razionale”. Ci scuseranno i lettori se ci muove al riso (una forma immediata di felicità) la formula di Pietro Verri, solido illuminista milanese, che pubblicò le serissime Meditazioni sulla felicità , secondo cui la legislazione più perfetta è quella in cui è “distribuita la felicità con la più uguale misura possibile su tutti i membri”. Fantastico: la distribuzione della felicità. L’ironista immagina una lunga fila di uomini e donne con il piattino in mano, in attesa della razione quotidiana di felicità, dispensata dalle “buone leggi”, ossia dal potere . Un po’ come il patriottismo costituzionale, che consiste nel voler bene al proprio paese – o a un altro – in quanto approviamo le norme su cui si sostiene. A beneficio degli sfaccendati lettori, abbiamo scoperto che i fondatori degli Stati Uniti d’America furono preceduti dalla costituzione della Corsica del 1755, in cui la felicità fu proclamata come principio politico codificato. La repressione dei padroni genovesi – che all’epoca non scherzavano – mandò tutto all’aria. L’illuminato granduca Leopoldo di Toscana progettò a sua volta una norma che recitava così: “in una ben composta società tutti [hanno ] un egual diritto alla felicità”. Felicità con il bilancino del farmacista: guai se me ne tocca più che al vicino.
Tutto questo per ricordare che la felicità non si istituisce per legge, decreto o giornata internazionale proclamata dall’ONU. E’ un sentimento, come tale personale, soggettivo, impalpabile. Robert Stevenson, l’autore dell’Isola del tesoro e de Lo strano caso del dottor Jeckyll e mister Hide (questo spiega tutto) arrivò a considerare un dovere l’essere felici. Meglio, molto meglio le paradossali Suggestioni sulla psicologia del piacere di Ezra Pound. Felicità: regolato scorrimento di lubrificanti endocrini. Forse è quella la felicità razionale. Invece apprendiamo che nella data della celebrazione a Milano si è svolto un festival organizzato da un tale Walter Riolfo, autonominato “ingegnere della felicità”. La gioia a prova di logaritmo. Ha ragione Massimo Fini – uno scettico a ventiquattro carati – a parlare di “edonismo straccione contemporaneo che ha trasformato il diritto alla ricerca della felicità in un vero e proprio diritto alla felicità”. A chi lo rivendicheremo, quanto costerà? Pagheremo un ticket in base al reddito? Ci sarà un misuratore di felicità? Forse esisterà una modulistica scaricabile online, la burocrazia della felicità.
Divento sarcastico – dunque infelice – dopo aver letto una dichiarazione a margine della giornata della felicità rilasciata da un esperto (per tutto ci sono esperti, nel felicissimo secolo XXI) , John Helliwell, Senior Fellow dell’Istituto Canadese per la Ricerca Avanzata, mica pizza e fichi .” Un ambiente sociale felice è quello in cui le persone percepiscono un senso di appartenenza, un posto in cui gli uni si fidano degli altri e delle loro istituzioni condivise. In un ambiente sociale felice c’è più resilienza, poiché la fiducia condivisa riduce il peso delle difficoltà, e quindi diminuisce la disuguaglianza del benessere”. Un condensato di pompose banalità, pensiero magico a base di “istituzioni condivise” e “ resilienza”, una parola che fa saltare la mosca al naso e induce deplorevoli accessi di violenza. Quanto al senso di appartenenza, la cultura dominante persegue il suo contrario, la perdita di identità e di comunità, ovvero diffonde infelicità sociale. La “disuguaglianza di benessere “ è precisamente l’esito del liberismo globalista .
Peraltro, gli studi dell’economista Richard Easterlin hanno negato la relazione tra felicità e ricchezza misurata in Prodotto Interno Lordo. Niente paura: l’ONU ci addita l’esempio del Bhutan, remota nazione tra le montagne dell’ Himalaya che misura la Felicità Nazionale Lorda, non sappiamo se a metri, in dollari o in ngultrum , la valuta nazionale. Un irritante lavacro della coscienza, una volta l’anno, da parte dei globalisti delle Nazioni Unite. La dogmatica ufficiale informa che la Giornata Internazionale “è una ricorrenza per riconoscere l’importanza della felicità nella vita delle persone in tutto il mondo. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, lanciati nel 2015, contengono gli aspetti chiave per raggiungere il benessere e la felicità; come la riduzione delle disuguaglianze, lo sradicamento della povertà e la protezione del pianeta.” Applausi scroscianti, entusiasmo planetario (con scadenza alla mezzanotte del 20 marzo) poiché l’evento “riconosce anche la necessità di un approccio più inclusivo, equo e bilanciato alla crescita economica, volto a promuovere lo sviluppo sostenibile”. Insopportabile aria fritta scritta in neolingua – equa, inclusiva, ecologica- mentre lo sviluppo sostenibile, come l’araba fenice, che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Parole pronunciate per dovere d’ufficio, ascoltate tra gli sbadigli da soggetti istituzionali convocati alla bisogna, credute per sovraccarico da popoli manipolati.
Per non farci mancare nulla (il masochismo genera infelicità) la notizia dell’imperdibile giornata della felicità è completata dall’immancabile indagine statistica, sostituta della sapienza. Se ne è incaricata l’ IPSOS, multinazionale delle ricerche di mercato e consulenza (più pericolosi degli esperti, ci sono solo i consulenti). Preso atto che “ il tema della felicità e del benessere acquisisce sempre più valore nella nostra società, che l’ esperienza del Covid ha spinto molte persone a rivedere la scala delle proprie priorità e che il diritto alla felicità oggi è rivendicato anche nella sfera pubblica con molta più enfasi e legittimazione”, i matematici si sono armati di pazienza e calcolatrice per stabilire se e quanto sono felici gli italiani (e le italiane, non sia mai scordare il linguaggio inclusivo).
L’esito è consolante, rasserena, regala uno sprazzo di felicità: i/le connazionali sono statisticamente felici. La percentuale positiva è del 57 per cento. Sollievo e patriottico orgoglio. Gli uomini sono più soddisfatti e sereni delle donne, preoccupate, stanche e confuse. Per forza: hanno a che fare con compagni deboli, svirilizzati, l’ombra del maschio che fu. Genera infelicità allo scrivano la divisione in Generazione X, Y, Z a seconda della nascita, dal 1961 al 2010. Purtroppo sono un “boomer” degli anni Cinquanta e scopro di essere più “speranzoso” delle altre fasce di età. I più malinconici, frustrati sono i millennials (1980-1995), forse perché, diventati maturi, hanno perduto le illusioni. C’era bisogno di esperti, consulenti a fattura , statistiche e istogrammi per stabilire, come fa l’IPSOS, che la felicità risiede nelle buone relazioni familiari, nella salute e nell’assenza di preoccupazioni economiche? Bastava chiedere alla signora Mariuccia del quinto piano. Con il timbro della scienza, tuttavia, è confermata la vecchia canzone: “basta ‘a salute e ‘n par de scarpe nove, puoi girà tutto er monno”. La felicità è come la salute: se non te ne accorgi, vuol dire che c’è. Parola di Ivan Turgenev, se è possibile citare un russo, sospetto di credere nella bieca famiglia tradizionale avendo scritto Padri e figli.
Nella fiera delle parole delle sedicenti Nazioni Unite, ripetute in magniloquenti cerimonie ufficiali da funzionari a stipendio con rimborso spese a piè di lista, tra le matematiche banalità degli scopritori dell’acqua calda e il diabetico zucchero filato delle declamazioni valide per un giorno, meglio la semplicità minimalista di Al Bano e Romina. “Felicità è tenersi per mano, andare lontano, la felicità è il tuo sguardo innocente in mezzo alla gente; la felicità è restare vicini come bambini, è un bicchiere di vino con un panino.” Buona, felice Pasqua a tutti, in compagnia di chi amiamo.
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