Come e perché l’immigrazione cancella la nazione italiana
“Le civiltà muoiono per indifferenza ai valori che le fondano”
(Nicolàs Gòmez Dàvila)
“L’Europa vede un progetto di conquista, ma la reazione oggi è, poveri conquistatori, spero che non abbiano problemi. E’ come se Elisabetta d’Inghilterra avesse detto dell’Invincibile Armata: quei poveri spagnoli, con quel mare cattivo, sono preoccupata”
(Renaud Camus)
La mia città dagli amori in salita
Marcel Proust scrive del ricordo intenso e gioioso di momenti felici suscitato in lui dal sapore di un dolcetto chiamato madeleine, portatogli dalla madre con il tè in una fredda serata. Io non sono Proust ed in più provengo da una famiglia umile, probabilmente ho gusti plebei, ma la stessa sensazione di gioia totale, infantile, l’ho provata, non tanto tempo fa, camminando in una via antica, nella “mia città dagli amori in salita, Genova mia di mare tutta scale” come la cantava Giorgio Caproni, prima fiutando e riconoscendo l’odore della trippa, poi annusandolo a piene narici, ma l’avevo sentito prima nell’anima, davanti ad una delle ultime tripperie, istituzione antica e ormai trapassata della Genova popolare.
Trippa umile ed antica, piatto di generazioni senza pretese, ed ho pensato a mio padre. Sono corso allora a Sampierdarena, una volta città nella città, ora anonimo vasto quartiere di una ex grande città che va in frantumi. I miei sono di Sampierdarena da generazioni, io stesso sono nato lì, anche se non sono mai vissuto in quel pezzo di città che aveva un orgoglio tutto suo. La Manchester italiana, si faceva chiamare, per le sue industrie, con una sua borghesia di imitazione inglese – britannici erano molti dirigenti ed ingegneri delle sue poderose industrie – amante del teatro (com’era bello e superbo il vecchio Sampierdarenese!), una classe operaia orgogliosa, che aveva istituito pubbliche assistenze e società di mutuo soccorso, ed era fiera di quella sua squadra di calcio che militava sempre in serie A – la Sampierdarenese diventata Sampdoria per unirsi al denaro di certi genovesi un po’ snob dell’Andrea Doria.
Non era bella, Sampierdarena, neppure al tempo della mia infanzia, mezzo secolo fa, tutta industrie, confusione, binari, puzza di olio e di porto. Nel cantone di San Martino c’era una tripperia, e me la ricordavo non lontana dall’Istituto Don Bosco, dove mio padre orfano e poverissimo imparò il mestiere di tipografo, e vicina al brutto trapezio modernista della chiesa di San Gaetano.
Ci sono tornato dopo tanti anni – Genova ha una geografia strana e contorta, ci sono zone dove non passi magari per tutta la vita, se non hai una meta precisa proprio lì – e la tripperia non c’è più, sostituita da un banco di kebab, e gran parte degli abitanti sono ora sudamericani o arabi.
Ma, nostalgia canaglia, proprio nel significato letterale di “dolore del ritorno”, sono passato anche dalle scuole Cantore – il generale degli alpini Antonio Cantore, comandante caduto nella I guerra mondiale, è una gloria della mia “delegazione” (chiamiamo così le zone di Genova riunite alla città nel 1926) e ho atteso l’uscita dei ragazzi. Tante mamme, la maggior parte sudamericane, diverse arabe, alcune con i fazzolettoni e le palandrane sino alle caviglie, cinesi, africane. Poi alcune mamme italiane. I bimbi escono, urlano, gridano tra loro, discutono accaniti in uno strano italiano storpiato di Genoa e Sampdoria (ecco quel che lasciamo in eredità!), proprio come noi.
Ma non siamo noi, non sono i nostri figli… Dalla trippa alla tristezza, a quella sensazione di straniamento, di soffocamento e di vuoto interiore che ti prende alla bocca dello stomaco le prima volte che vai all’estero. Ma è Sampierdarena, sono stato concepito in quella casa d’angolo tra Via Reti e Via Rolando, mia nonna Angiola, che parlava con la caratteristica cadenza dei vecchi sampierdarenesi – noi la chiamiamo “còccina” – sarà scesa mille volte dalla sovrastante collina del Belvedere con i frutti dell’orto, e da quelle parti avrà conosciuto un operaio toscano di origine, ma ligure nel midollo, che fu mio nonno e morì giovane.
Allora, mi è tornata in mente una ricerca in rete, attraverso cui ho conosciuto per caso, navigando su siti transalpini, uno scrittore francese, Renaud Camus, tradotto in Italia solo per un libro, “Tricks”, su eccessi omosessuali in una Parigi ribalda, sudata e niente affatto “ville lumiére”. Un suo grande e recente successo editoriale si intitola “Le grand remplacement”, la grande sostituzione, e tratta della fine della Francia profonda, metafora del declino della gente europea, constatata durante una visita a Vémars, cittadina della Val d’Oise, le cui strade, come quelle della mia vecchia ex Manchester italiana, risuonano adesso delle voci, dei sapori, degli odori, della vita, insomma, di genti diverse da quella che l’hanno fondata, costruita ed animata per secoli.
Una grande, immensa, sostituzione. Talora ci si accorge all’improvviso, ed è troppo tardi, altre volte si guarda senza vedere, più spesso è l’indifferenza di questo tempo bastardo a renderci estranei a noi stessi.
Non riesco ad avercela con quei bambini, che pure non sento come miei possibili figli, loro che c’entrano se i loro genitori sono partiti da qualche parte nel mondo (è una giungla, là fuori …) e ora sono tra vecchie case maltenute di una periferia che ha conosciuto tempi migliori? Molte loro madri sono povere donne che si spezzano la schiena tutto il giorno, mentre non pochi dei loro padri e fratelli sghignazzano, bevono e si azzuffano nelle osterie che un giorno erano la Premiata Pasticceria Balocco o il bar dei tifosi di quella Samp popolana e fiera.
Gli ultimi di ieri?
Eppure, eppure, non è solo nostalgia l’amarezza che sento, non è solo l’acre retrogusto del tempo che passa e che cambia tante cose. C’è di più, molto di più: è, appunto, la grande sostituzione, questo sentirsi l’ultima retroguardia di una civiltà immensa che muore. C’è la triste presa d’atto che abbiamo perduto qualcosa, che era il nostro modo di essere, vivere, parlare, rapportarci con il mondo, ma a partire dal nostro paese, porzione piccola ma significativa della patria grande italiana, e c’è la consapevolezza che ciò che è perduto lo è per sempre.
Siamo gli ultimi che siano vissuti tra connazionali, gli ultimi di una Patria con tanti difetti, ma che era una di lingua, d’altare e di costumi. Siamo sempre stati, noi italiani, un popolo universale, ma, in fondo, ci piaceva essere “tra noi”, e, per raccontare un dettaglio che oggi fa sorridere, mio padre non era apprezzato dalla famiglia di mia madre, genovese del centro, in quanto di Sampierdarena, dunque un “foresto”!
Quel che turba la mia coscienza, infine, è la consapevolezza che noi italiani, nazione culturale e non certo etnica, miscuglio di mediterraneo ed alpi, oriente e mitteleuropa, non resisteremo come popolo, ma neppure come civiltà in senso lato. Che cosa offriamo, infatti, ai nuovi arrivati? Non puntiamo sull’assimilazione e neppure sull’integrazione, tiriamo avanti alla giornata, ignoriamo spensieratamente la nostra storia e l’eccellenza del nostro passato, remoto e prossimo, siamo tutto chiacchiere e amnesia. La bandiera delle ultime generazioni è Mericoni Nando, la maschera di Alberto Sordi che mitizza l’America e poi si strafoga di spaghetti.
Affogheremo dolcemente, nel Lete, ed agli stranieri trasmetteremo il campionato di calcio, il Superenalotto, la ricetta del ragù e la Costituzione più bugiarda del mondo. Saremo anzi felici di assorbire da loro nuove usanze, specialmente se stupide o volgari, come già abbiamo scambiato Ognissanti con Halloween senza battere ciglio, tranne il lamento di qualche vecchio prete zittito dai suoi stessi confratelli.
Non abbiamo più uno stile di vita, un atteggiamento, un’idea condivisa, che sia autenticamente “nostro”. Non possiamo integrare, educare alcuno, tanto meno estranei, a partire dal nulla, o quantomeno dal fatuo, dal triviale, se questo paese è oggi definito da zuffe televisive, mode straniere, classi dirigenti imbarazzanti, greggi umane transumanti tra code in autostrada, “selfies” e domeniche nei centri commerciali.
Con la ragione, so che è finita questa mia Patria, come sfigurata è la mia Sampierdarena formato Guayaquil. Ma non possiamo arrenderci, dobbiamo batterci. Ma, prima di ogni azione, è necessario pensare per agire.
La grande sostituzione
Il tema è: che cos’è la grande sostituzione, perché ci siamo arrivati, di quali idee è figlia, e qual è il futuro che ci aspetta? Come rapportarci con la marea umana che stanno diventando i “nuovi” italiani (un milione nel solo primo anno di applicazione del futuro ius soli) che cosa salvare del presente e del passato, quali principi rilanciare e quali abbandonare come scorie, che cosa tentare di trasmettere al nuovo che avanza, corre, tutto travolge, nostro malgrado?
Sono le domande che vengono in mente a chiunque non sia lobotomizzato dalle balle politicamente corrette, dal fatalismo indotto dalle agenzie di formazione del consenso, e non sia castrato dai ridicoli sensi di colpa che l’Europa ha rovesciato sulla propria storia sino all’invincibile odio di sé, all’incontenibile pulsione di morte che Freud non scoprì, ma, più plausibilmente, indusse a chi presti credito alle sue escogitazioni psicoanalitiche.
Tuttavia, più urgente è comprendere che la grande sostituzione delle popolazioni bianche europee è un punto di arrivo, un tornante della storia, ed è parte di un fenomeno di ben più vasta portata che ha condotto alla sostituzione, anzi all’inversione di tutti i significati condivisi della nostra civiltà.
Cerchiamo di capirci: ho dianzi parlato di popolazioni “bianche “. Fino a non più di vent’anni fa, il termine era accettato e normale, in base al principio di realtà, che impone di definire le cose, i concetti per quello che sono. Io, lo confesso, sono un bianco, sono sessualmente normale (infatti sono sposato felicemente da decenni con una donna) e sono di sesso maschile. Ma quante parole sospette ho già scritto, e sotto c’è la mia firma! Bianco è vocabolo sospetto, cattivissimo, forse è già un reato se riferito ad una persona e non ad un tavolo, come dire negro ad un uomo di colore e invertito ad un “gay” – oh, sì’, gaio, allegro, come quel monsignore polacco che ha dimenticato il suo Dio per le grazie di un giovanotto catalano.
Normale non si può proprio pronunciare, per riferirsi agli uomini e alle donne il cui orientamento sessuale è quello di Adamo e di Eva: eterosessuale va già meglio. Anche maschio, potrebbe generare equivoci: secondo le nuove tendenze del Manicomio Occidente, infatti, i sessi, ribattezzati generi come nell’analisi grammaticale, sono almeno cinque, ed alcuni arrivano a contarne undici o diciassette, e comunque io sono maschio “solo” se mi sento tale, e non perché faccio pipì in piedi ed ho determinati attributi fisici. Domani potrei sentirmi, quindi “essere”, femmina, transessuale, queer o chissà che altro.
Ecco, questa è la “grande sostituzione “. Avere cambiato, nell’immaginario collettivo (povero Jung, dove sono finite le tue scoperte!) significati, percezioni, idee, giudizi, pregiudizi, screditando, criminalizzando, derubricando ad errori, credenze ingenue o imbrogli tutte le idee precedenti. Se mi è consentita un’immagine strutturalista, resta il significante, la parola nuda, destituita dalle ascendenze simboliche e filologiche, è rovesciato il significato.
Poco importa se, in base a quel sistema di riferimenti e principi sono vissuti per millenni popoli interi. Nicolàs Gòmez Dàvila scrisse, in un aforisma affilato come una lama di Toledo, che le civiltà muoiono per indifferenza verso i valori che le fondano. Noi siamo già oltre, e ci troviamo nel mezzo di un ribaltamento storico, epocale davvero, delle idee e delle verità su cui si è fondata una civiltà che, da Omero in poi, è la nostra ed è quella che, piaccia o no ai partigiani dell’equivalenza di tutte le culture, ha improntato decine di generazioni, producendo l’immensa maggioranza di ciò che l’umanità ha inventato, ideato, pensato, realizzato.
L’immigrazione di massa è solo uno degli esiti di questo processo di stolida indifferenza, forse neppure il più grave. Mentre in Italia si tace, anzi si dorme un sonno simile al coma, in altri pezzi d’Europa si scrive, discute, dibatte. E poco importa se anche altrove prevale la demonizzazione, il muro di omertà, la falsificazione: essenziale è che l’Europa non è ancora morta, e qualcuno si batte per la vita.
Luci nella notte
In Francia, intellettuali di varia estrazione e tendenza producono idee che diventano patrimonio comune. Uno di loro è Eric Zemmour, ebreo francese di origine algerina (non lo si potrà definire razzista!) che, nei suoi libri e nei suoi sulfurei articoli ed interventi televisivi, dice chiaro e tondo che nell’Esagono, a dettar legge da De Gaulle in poi, è stato il trittico: derisione, decostruzione, distruzione, che ha minato “le fondamenta di tutte le strutture tradizionali: famiglia, nazione, lavoro, stato, scuola. L’universo mentale dei nostri contemporanei è diventato un campo di rovine. Il successo intellettuale delle scienze umane ha distrutto tutte le certezze. Come aveva previsto nel 1962 Claude Lévi-Strauss, scopo ultimo delle scienze umane non è costruire l’uomo, ma dissolverlo”.
Non c’è dubbio, saperi come l’antropologia culturale, l’etnologia, la sociologia, per alcuni aspetti la psicologia e la linguistica, sicuramente la superstizione psicanalitica, assumendo come unico criterio veritativo che non esiste la verità, ma che, tutt’al più si deve perseguire l’esattezza, come le scienze della natura, si limitano a fornire il negativo di una fotografia, evitando di indagare il bene ed il male, e sfuggendo un vero giudizio eziologico, e, soprattutto etico.
Anche qui, la grande sostituzione. La filosofia, ovvero l’eterna indagine umana sulla conoscenza e su ogni perché, è sostituita dalla sociologia e dall’antropologia culturale, ossia dalla semplice constatazione di ciò che appare, la storia dalla cronaca, la scienza dalla tecnica e dalla tecnologia, la religione da un generico richiamo ad una indefinibile “energia” cosmica, o ad un’altrettanto vaga anima del mondo.
Zemmour si riferisce spesso a De Gaulle, e non è un caso che il generale sia stato il grande nemico del Sessantotto francese. Del resto, De Gaulle fu anche la bestia nera dell’Europa delle oligarchie, e, sul versante economico e militare, del dominio del dollaro e della Nato.
Torneremo su Zemmour, per capire la triade decostruzione, derisione, distruzione, esito della quale è distruzione.
Decostruiamo il nemico
La grande sostituzione esige infatti di essere spiegata, “decostruita” a sua volta. Sono stati invertiti, rovesciati, i termini normali di ogni senso comune: prendiamo la dualità vicino/lontano. Da sempre, si fa comunità con il vicino; è con lui che condividiamo il bene ed il male, è lui che guarda il mondo dallo stesso punto di vista nostro e che vive in maniera simile problemi analoghi. Contrordine, occorre preferire il lontano, l’estraneo, e si arriva all’assurdo – è notizia recente- di un parroco veneziano che sfratta una vecchia inquilina per dare l’alloggio ad un nuovo immigrato, pardon rifugiato, profugo, o come bisogna chiamarlo affinché non si offenda. Allo stesso modo, persone generose e di buon cuore sono disposte a correre in soccorso dei poveri nel Nepal, ma non pensano neppure a lenire le sofferenze e le povertà dei loro concittadini!
Nella Francia dove comunque ci si batte, ma in cui è assai attiva una psicopolizia che non si sa se considerare ridicola o folle, il ministero dell’Educazione (educazione…) impone l’insegnamento agli scolaretti della nuova sessualità alternativa a base di gay eroici, genitori multipli e palpatine intime, ma vieta la favola di Cappuccetto Rosso, definita sessista. Non chiedetemi che cosa significhi questo nuovo aggettivo, ma credo che anche i genitori più alla moda preferiscano narrare ai loro bimbi Cappuccetto Rosso che Sodoma e Gomorra.
Inversione, sostituzione, o, come la inquadrò Plinio Correia de Oliveira, “trasbordo ideologico inavvertito”. In parole semplici, manipolazione continuata e criminale, da parte di vecchi e nuovi centri di potere, per cambiare le idee e le immagini del mondo di tutti noi, orientandole in senso opposto al principio di realtà e di quello di verità. Principi ribaltati in principio di piacere, di utilità, di relativismo pratico. Maurizio Blondet ha coniato il termine “aletofobia”, paura della verità, per descrivere il deserto interiore dell’Occidente terminale.
La decostruzione dell’anima europea
Abbiamo così tracciato una prima pista per valutare i tempi nostri: orrore della realtà, rifiuto della verità. L’orizzonte umano va ri-creato, ri-costruito, ri-adattato, plasticamente, e tanto peggio per i fatti se non corrispondono alla nuova visione. Ma prima, bisogna(va) “decostruire”. Nuovo concetto della filosofia francese, è stata introdotta da uno dei mille cattivi maestri del Novecento, Jacques Derrida, e, al di là delle contorsioni verbali e dei fraudolenti giochi di parole degli intellettuali, significa smontare pezzo per pezzo tutto l’edificio eretto dalla conoscenza, per svelarne la falsità. Balle, naturalmente; si tratta, infine, di demolire, abbattere, sbriciolare, ed in terra non restano che frammenti, sfridi, frantumi, rovine.
Dalle pietre, si può ricostruire una cattedrale, se si ha una visione complessiva, una forma interiore, ma i detriti sono destinati ad alimentare il ciclo dei rifiuti. Decostruendo, si deride l’oggetto esaminato. Non c’è elemento del “prima” che non sia dileggiato. In genere, anzi, lo scherno precede la decostruzione: nulla vale la pena di essere eretto a valore, dunque seppelliamolo con una risata, come prescrisse la rivoluzione del 1968.
La beffa, la risata grassa e volgare, il disprezzo plebeo, la messa in ridicolo, lo scherno preventivo sono munizioni potenti, specie a danno delle menti conformiste, sempre maggioritarie. Non richiedono dimostrazione, né sforzo di immaginazione, tanto meno riflessione. Sono, insomma, un’arma letale, se unite alla decostruzione, nell’inganno della grande sostituzione, a patto di avere nelle proprie mani il potere della manipolazione e, della ri-costruzione dell’opinione corrente.
A questo punto, abbiamo già fornito un primo giudizio sulla domanda di fondo iniziale: sì, esiste ed è in atto, in fase avanzata, una “grande sostituzione”. Più complesso, sfumato e problematico è rispondere all’altro, decisivo, quesito, ovvero se trattisi di una grandiosa operazione antropologica organizzata, o se, al contrario, si siano scatenate forze impersonali talmente grandi da essere incontrollabili, oppure ancora se le cause e gli effetti di tutto ciò che vediamo rispondano ad una irresistibile casualità, chiamata, per scaltrezza o insipienza, segni dei tempi.
Dunque, la grande sostituzione, o, se vogliamo, la grande trasformazione, come la chiamò, muovendo dall’ambito delle tecnologie economiche e dell’apertura dei mercati, Karl Polanyi, è un processo, una forma di bradisismo tellurico che ha radici umane. Allo stesso modo in cui noi affermiamo che il mercato è una costruzione ideologica e non uno stato di natura, con ancora maggiore convinzione respingiamo l’ineluttabilità, o addirittura la semplice meccanica, degli straordinari processi che viviamo.
Uno sguardo dal ponte
Una dinamica storica oggettiva, dunque, non un piano diabolico, ma molti padrini attivamente impegnati per distruggerci.
Non sfugge che quell’enorme avvenimento definito rivoluzione industriale ha completamente ribaltato la vita di milioni di uomini, né che i processi chiamati da Marx “modi di produzione” non potevano non modificare la forma mentis che sosteneva l’universo civile europeo sino alla seconda metà del Settecento, come comprese per primo lo scozzese John Millar. In quest’ottica, probabilmente il vero evento decisivo, lo snodo epocale, fu l’invenzione, da parte di un altro scozzese, John Watt, della macchina a vapore, nel 1765.
Il passaggio dalla vita e dall’economia agricola a quella industriale, l’inurbamento, la proletarizzazione di masse crescenti di europei, l’ assolutizzazione della proprietà privata, il ritmo incessante delle scoperte scientifiche e delle applicazioni tecnologiche alla nascente industria, tuttavia, non furono eventi privi di una loro ideologia, talché gli esiti ultimi, di cui siamo protagonisti all’alba del XXI secolo, non possono essere visti come fenomeni fatali ai quali non si potessero o dovessero opporre ( ed in effetti così avvenne) visioni antropologiche, sociali, filosofiche e pratiche alternative.
Nel tempo, si è presto pervenuti a quella che un padre nobile della sociologia, Emile Durkheim chiamò “anomia.” Anomia, secondo Durkheim, è lo stato di frustrazione e di assenza di punti di riferimento e valori in cui si possono trovare individui o masse in una società in cui, a causa delle rapide trasformazioni che ne sconvolgono gli assetti tradizionali, il vincolo tra individuo e valori collettivi va perduto.
Io mi sento di affermare che il declino irresistibile dei popoli europei è il frutto di questa anomia, del venir meno, nel Novecento, e grosso modo a partire dalla prima guerra mondiale, del senso di sé, in uno sfinimento collettivo che paragono all’anoressia, che ha consumato la volontà di potenza, intesa come creatività, capacità di direzione, progettualità depurata dagli eccessi dell’illimitato, da forme di smodato orgoglio di sé, di disprezzo per l’altro. L’anomia di massa, alimenta, con moto ormai uniformemente accelerato, la stanchezza, semina il dubbio, scatena infine il senso di colpa ed il “cupio dissolvi”, la pulsione di morte, che scioglie le energie e ferma gli slanci vitali della civiltà sino all’esaurimento per implosione. Non è, però, una morte naturale.
La storia si può ripetere.
Le migrazioni sono un elemento ricorrente della storia umana, e, quando hanno coinvolto moltitudini, hanno mutato per sempre il panorama umano, l’orizzonte civile, il tessuto economico, l’universo valoriale dei popoli migranti e di quelli stanziati nei territori di destinazione. Forme di riequilibrio hanno, nel lungo periodo, consentito di riorganizzare le comunità su basi diverse. Altre volte hanno destrutturato definitivamente il “prima”, annientando venerabili civiltà, non di rado si sono rivelate il fomite di odi, rivalità, incomprensioni insanabili, guerre secolari.
Le singole generazioni, tuttavia, che hanno un orizzonte limitato, quello della durata di una vita umana, devono difendere se stesse ed i figli, e comunque, come affermava John Keynes di fronte alla difficoltà di descrivere e prevedere l’economia del futuro, “nel lungo periodo saremo tutti morti “. Per questo, si è tentati, di fronte all’immensità dei fenomeni in atto e dell’assenza di reazioni da parte del mondo europeo e della razza bianca, di arrendersi, o, tutt’al più consolarsi con la saggezza cinese di Lao Tze, secondo cui “ciò che il bruco chiama fine del mondo, per il resto del mondo si chiama farfalla”. Sfortunatamente, il bruco siamo noi, ed allora cerchiamo di combattere, innanzitutto attraverso la conoscenza dei fatti e l’intelligenza.
“Chi non ricorda il passato, è destinato a ripeterlo”, è la frase guida del realismo critico di George Santayana, uno dei grandi pensatori del conservatorismo americano. Sempre Santayana, teorizzava che il passaggio dall’intuizione e dall’idealità dell’esistenza alle cose naturali e materiali che costituiscono la realtà è dato da un principio vitale che denomina fede animale, ossia una combinazione alchemica di azione, bisogno, slancio, paura, che ci garantisce la concretezza dell’esistenza.
Rianimare questa “fede animale” in noi stessi è l’ultima consegna, la battaglia finale di questa e della prossima generazione, a partire dal singolo individuo, che è poi l’unità minima di resistenza al potere, puntino vivo nella folla solitaria che formiamo.
Ricordiamo il passato: l’Impero Romano cadde per una molteplicità di fattori, tra i quali le invasioni germaniche del V secolo, una crisi monetaria ed una demografica. Roma collassò dal milione di abitanti stimato a ventimila, e nell’intero Impero la popolazione si dimezzò a circa 25/30 milioni. Il crollo demografico rese vulnerabile l’Impero, nonostante la cittadinanza fosse stata estesa a tutti sin dai tempi di Caracalla per mancanza di soldati e carenza di entrate tributarie. E’ tanto diverso il nostro presente?
L’Europa intera è in pieno invecchiamento demografico, con situazioni di vero e proprio suicidio in Germania ed Italia, mentre, se i modelli matematici sono attendibili, la sola Nigeria potrebbe avere, guerre o carestie a parte, quasi 400 milioni di abitanti nel 2050. Ai tempi di Roma, inoltre, le orde barbariche potevano sistemarsi nelle vaste campagne disabitate, ma oggi masse di individui sradicati provenienti da ogni dove, si spostano e vagano nelle nostre congestionate ed insicure città. Lo sradicamento è un problema terribile, giacché il bisogno di radici è un’esigenza primaria dell’essere umano: chi è sradicato sradica, e l’immigrazione diventa allora un dramma per chi la vive e per chi la subisce, come gridava, inascoltato, un uomo come Pino Rauti già 25 anni fa.
Ecco quindi la mia povera Sampierdarena ridotta al peggio di Guayaquil, e la babele di genti, lingue, abbigliamenti in cui si sono convertiti i quartieri prossimi alle stazioni delle nostre città e tanti altri pezzi di territorio sottratti alla legge in una mesta ritirata nostra. Anzi, una legge c’è, quando si stabilisce una comunità straniera prevalente, ed è quella formata dagli usi e dai modi di vivere di costoro, amministrata da torvi manigoldi o da capi religiosi.
Chi cavalca la tigre.
Ripetiamolo, il fenomeno non è una catastrofe naturale, un rizoma che ha generato immense escrescenze, o l’esito di processi incontrollabili. I giganteschi meccanismi storici, ideologici ed economici che stanno determinando la grande sostituzione – insisto con questo sintagma non per gusto apocalittico, ma per sottolinearne il carattere non casuale – rendono gli attori del dramma, protagonisti, comprimari, figuranti, vittime, ed anche i registi, dei semplici ingranaggi, manipolati dall’illimitato, dalle forze impersonali scatenate.
Il fenomeno nasce dalle nozze mostruose tra la rivoluzione industriale nella sua fase senile e l’antirazzismo dogmatico imposto ai bianchi da forze potentissime, perfetto rovesciamento del precedente senso di superiorità dei popoli europei. Razze e popoli sono scelti attraverso una semplice decisione amministrativa – pensiamo allo ius soli- indispensabile per la fabbricazione industriale dell’uomo sostituibile (la fungibilità è uno dei pilastri della nuova dominazione sulle cosiddette risorse umane), senza origine, senza cultura, senza civiltà, senza nazione, intercambiabile, delocalizzabile. Una macchina, un prodotto manifatturiero come gli altri, preferibilmente a basso costo.
Una volta di più, vale il detto del giornalismo anglosassone “follow the money”, seguite il denaro, che ci fa capire quali sia il grande beneficiario della sostituzione delle popolazione: il sistema mondialista della produzione e della riproduzione liberalcapitalista.
Il vecchio Marx aveva ragione su diversi punti nella sua analisi, ed il metodo marxiano, a comunismo battuto, è un utile strumento di comprensione dei fatti: basta ricordare la categoria di “esercito industriale di riserva”, applicata allora ai contadini inurbati e ridotti a sottoproletari, oggi agli stranieri.
Capiamo istantaneamente molte cose, dall’elogio ipocrita dell’immigrazione in bocca ai magnati della finanza e dell’economia, seguito di buon grado dai loro cagnolini al guinzaglio della politica e dell’apparato di propaganda. Né grandi vecchi, né improbabili complotti, ma un perfezionato meccanismo reticolare che mette in circolo e collega processi, volontà, leggi, ideologie, ingegneria sociale.
Del resto, per il progressismo occidentale di ogni orientamento (destra, centro e sinistra qui divergono nelle sfumature o nei linguaggi, ma sono d’accordo sull’essenziale), la storia è una linea retta che si muove verso una fine già scritta: meno diritti sociali, più diritti individuali, più immigrazione. Lo vuole la storia, il mitico progresso, e, perbacco, ce lo chiede l’Europa. Quanto ai popoli, vale quanto dichiarato dalla componente svedese della Commissione UE signora Malmstroem: “Il nostro mandato non deriva dai cittadini europei”. Chiarissimo.
Due esempi su tutti: la recente richiesta imperiosa del capo dei giovani industriali affinché si incrementi l’immigrazione, e la presa di posizione del ex pioniere dell’Unione Sovietica Massimo D’Alema, bombardiere dei serbi e diportista nautico, che ha esaltato il ruolo di architrave dell’economia nazionale dei lavoratori stranieri. Peccato davvero che in Italia ci siano quattro milioni di disoccupati, dei quali i giovani sono i più numerosi ed arrivano al quaranta per cento. Peccato anche – cifre ufficiali- che la povertà sia aumentata nell’ultimo quinquennio nel nostro sfortunato Paese (nazione non più, patria non scherziamo, Stato, meglio ridere per non piangere) del 130 per cento, per attestarsi a nove milioni di persone. In tutta Europa, i poveri sono 53 milioni. Non male, per l’eldorado degli immigrati!
Restando in Italia, è sin troppo agevole constatare che il blocco di potere che soffoca, spolpa e dirige il baraccone è formato dall’alleanza tra Chiesa, vertici bancari ed industriali, politica strutturata attorno al Partito Democratico e sindacati di regime, all’ombra della mafia, tutti immigrazionisti scatenati. Salvatore Buzzi, il cooperatore romano anello di congiunzione tra malavita organizzata e politica, lo ha detto con disarmante chiarezza: rende più l’immigrazione che il traffico di droga.
La guerra tra poveri, poi, funziona sempre, c’è chi lavora per TRE, dico tre euro all’ora, e quanto al precariato, masse crescenti di italiani e di immigrati lo vivono ogni giorno. Il sistema mondialista, intanto, fa credere agli italiani poveri che la loro condizione dipenda da chi è ancora più misero.
No, il bersaglio è in alto, sono il potere finanziario, industriale, quello della comunicazione, la politica, purtroppo la Chiesa cattolica. Spiace doversi dissociare anche da chi invoca con ragione la ruspa per i campi nomadi, ma tace di fronte a Confindustria ed a padroncini e cavalieri del lavoro che sugli immigrati a basso costo (cui affittano anche le abitazioni) hanno costruito la loro ostentata ricchezza. La città di Arzignano, capoluogo del distretto conciario vicentino dalle lavorazioni tossiche, ha il trenta per cento di popolazione straniera, percentuali simili si rilevano in alcuni distretti industriali e zootecnici della provincia bresciana ed emiliana.
Servi, padroni, mandanti
Un deputato del PD di nome Enrico Borghi, una delle numerose mezze figure ciniche e rampanti della compagnia di giro di Montecitorio, ha dettato, anzi twittato, la seguente frase nel curioso modo di esprimersi postmoderno e postgrammaticale:” dati dicono immigrati si stanno integrando e SOSTITUENDO ad AUTOCTONI nella filiera produttiva”.
Questo Bertoldo sempliciotto e dal linguaggio elementare – uno dei tanti selvaggi con telefonino – va ringraziato perché confessa almeno due cose decisive, sulle quale vale la pena soffermarsi. Innanzitutto, ci conferma che l’immigrazione ha carattere sostitutivo della popolazione di nazionalità italiana, sgombrando il campo da tutte le sfacciate bugie diffuse e direi diramate dal potere come fonogrammi ministeriali per far digerire ai cittadini l’indigeribile. Poi, ci chiama autoctoni, come una specie botanica o una razza bovina, e dobbiamo essere sostituiti “nella filiera produttiva” in quanto esigiamo di essere pagati secondo giustizia, pretendiamo di essere titolari dei diritti che le leggi vigenti ci dovrebbero assicurare, forse anche perché abbiamo l’improntitudine di richiedere l’applicazione di orari di lavoro ragionevoli, regole previdenziali e condizioni di lavoro umane.
Non è senza una ragione se il numero di morti sul lavoro, in Italia, aumenta costantemente, e certo non è colpa degli immigrati.
Ma ci rivela anche involontariamente, il pessimo Borghi autoctono di Domodossola, la profonda disonestà di un ulteriore argomento a favore dell’immigrazione diffuso senza posa da alcuni anni, e rilanciato ultimamente da Massimo D’Alema: gli stranieri ci pagheranno le pensioni, solo loro ci permetteranno di sostenere il nostro costoso sistema di protezione sociale.
Gli stranieri non ci salveranno
Un’altra menzogna, quella dell’indispensabile apporto ai conti pubblici da parte degli stranieri, sulla quale riporto fedelmente proprio l’opinione di Renaud Camus, espressa in un’importante intervista rilasciata ad un quotidiano italiano: “E’ completamente falso: gli immigrati sono la rovina del Welfare (se quest’ultimo non è ancora morto è soltanto perché gli uomini ed i popoli non sono ancora totalmente interscambiabili, grazie a Dio). Il welfare state può funzionare soltanto con uomini e donne di un certo tipo, modellati da generazioni di civiltà e senso civico. Ma soprattutto penso che se anche fosse vero, e, ripeto, non lo è affatto, tali pensieri possano germogliare solo ed esclusivamente in menti già robotizzate, senza cultura, senza civiltà, direi anche disumanizzate. Che cosa ci stanno dicendo questi? Che per salvare l’Italia bisogna sostituire gli italiani con i togolesi (ad esempio). Innanzitutto, lo ripeto, niente si salverà; e se qualcosa sarà salvato, non sarà più l’Italia, ma una specie di Togolia. L’Europa non ha bisogno di immigrati, ha bisogno di aria, erba, spazio vuoto, di ripresa culturale e di rinnovamento spirituale”.
Parole sagge, ma andate a riferirle a D’Alema, ai santi monsignori o a Madama la Boldrina! E, per restare sul solido terreno del denaro, quanto ci costano gli immigrati, in termini di spese sanitarie, di polizia, di costi sociali, di vantaggi e bonus intollerabili in varie prestazioni sociali, e, quanto ci costa un’imbarazzante Marina Militare utilizzata per favorire l’invasione? Qualche indagine azzarda cifre dai dieci ai venti miliardi annui di spese ascrivibili in vario modo al fenomeno migratorio. Certamente, i costi sono ben superiori ai benefici anche in termini aritmetici.
Ascoltate i bollettini quotidiani della nuova Pravda governativa, che ci parlano di profughi “salvati” e condotti in un porto italiano, mai di clandestini che cercano illegalmente di raggiungere le nostre coste. Vanno sottratti alla morte e rifocillati, non perché così prescrive il diritto della navigazione, ma in quanto uomini non meno di noi. Subito dopo, tornino sulle coste dalle quali sono partiti, e se le cosiddette autorità locali (siano bande di tagliagole o governi sfruttatori) non sono d’accordo, tanto peggio per loro. Atto di guerra non è rispondere all’invasione, ma averla promossa, tollerata, organizzata.
Barattare il futuro, la storia, la civiltà di un popolo con un’eventuale e transitoria difficoltà finanziaria nel pagamento delle pensione è, cominciamo ad affermarlo risolutamente, tradimento del popolo e della nazione italiana. Chi tradisce, si chiama traditore e rinnegato, e, del resto, se i mezzi di comunicazione fossero liberi, e si potesse quindi rispondere a tono con la stessa risonanza mediatica, i truffaldini paralogismi di questa gente sarebbero non smascherati, ma ridicolizzati.
Chi nasce, chi muore.
Tuttavia, le ragioni della demografia vanno indagate. La demografia è una conoscenza assai poco popolare in Italia, dove qualsiasi elemento riconducibile al fascismo è oggetto di rimozione o discredito. Lo studio dei flussi di popolazione certo appassionò Benito Mussolini, al tempo in cui si diceva che “il numero è potenza” e si premiavano le famiglie numerose. Forse non è sempre vero che la forza di un popolo abbia un diretto rapporto con il numero dei suoi componenti, ma certo una nazione che perde popolazione ed in crisi di nascite è un segnale preciso di impotenza.
I bianchi di origine europea erano un secolo fa almeno il venti per cento del miliardo di esseri umani sul pianeta, e sino a poco più di mezzo secolo fa il rapporto rimase più o meno inalterato. Oggi siamo il dieci per cento dell’umanità, e, se la tendenza non verrà invertita, già nel 2050 Germania e Gran Bretagna avranno una popolazione formata per oltre la metà da non autoctoni, per usare l’infelice espressione del molto onorevole Borghi. L’Italia e la Spagna seguiranno pochi anni dopo.
Per questo, parliamo di grande sostituzione, e documenti ufficiali dell’ONU, dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale diffondono apertamente tale concetto, pur senza usare esplicitamente espressioni chiare e nette, che potrebbero destare allarme e spirito di reazione. L’ONU addirittura afferma che è necessario, per sostenere l’economia nazionale italiana ed i sistemi sanitario e previdenziale, l’ingresso di duemilioni e duecentomila stranieri all’anno da qui al 2050, sino a raggiungere, con i nuovi nati, la rispettabile cifra di 194 milioni di abitanti. La proiezione etnica dell’ONU stima nel 21 per cento il residuo di italiani “originari”.
Penso ad una nobile città italiana come Verona con ottocentomila abitanti (oggi sono poco più di 250 mila) dei quali solo 150 mila italiani “etnici”. Devastante.
Sostituire, sostituire, lo vogliono i superiori!
L’Unione Europea ha prodotto documenti riservati che descrivono come probabili ed auspicabili scenari assai simili, ed il commissario europeo Franco Frattini, uomo di centrodestra, ha teorizzato già nel 2007 dinanzi alla London School of Economics, una delle roccheforti mondiali del pensiero economico liberale, la positività del fenomeno migratorio affermando che “ dobbiamo preparare i potenziali migranti a fare una scelta consapevole.(…) Ma dobbiamo anche pensare ad essere scelti a nostra volta e incoraggiare i potenziali migranti a diventare europei. Implementare un piano politico sull’immigrazione legale sarà una priorità dei prossimi anni”. Parole come pietre, ma gli europei non ascoltano, e, a dire il vero, ben poco trapela dei piani della cricca degli eurocrati. Quanto al FMI, il più recente rapporto ufficiale in materia incoraggia, anzi sollecita politiche pro immigrazione di massa, con l’argomento dell’invecchiamento della popolazione e quindi la difficoltà a mantenere, e naturalmente aumentare, i livelli produttivi europei.
Non ci si può aspettare nulla di diverso dal materialismo del denaro e dell’accumulo, unito alla manipolazione più sfacciata, da parte di criminali che hanno affamato il Terzo Mondo con le politiche di predazione di ascendenza monetarista e neoliberale. E’ appena il caso di rammentare che il Fondo Monetario Internazionale, creatura angloamericana nata dalle macerie del 1945, è dominato e sostenuto soprattutto dagli Stati Uniti. Negli ultimi tempi, una diretta presa di posizione a favore di un forte aumento dell’immigrazione è venuta anche da parte di ventotto associazioni massoniche europee, tra le quali il potente Grande Oriente di Francia, cui appartengono da molti decenni pressoché tutti i politici francesi di estrazione socialista e buona parte di quelli liberali (Mitterrand e Giscard tra tutti, ma anche l’attuale presidente, il grigio Hollande, donnaiolo per vocazione e Capo di Stato nel tempo libero). Non manca il Grande Oriente Italiano di Piazza Giustiniani. Peraltro, “Ordo ab chao” (Un nuovo ordine attraverso il caos) è un motto dei liberi muratori. Davvero un possente schieramento coalizzato contro i popoli europei, per tacere di Santa Romana (romana?) Chiesa.
Allora, cerchiamo di capire: l’immigrazione è fuori controllo, o non è invece soltanto in una fase di intensificazione programmata? O forse siamo entrati, ma non ce lo hanno detto, alla faccia della democrazia, nella fase suprema e terminale della globalizzazione. Globalizzati i mercati, globalizzano gli uomini. Basta francesi, italiani o tedeschi, solo uomini astratti, senza appartenenza, senza storia, senza cultura, senza tradizione: solo malleabili figurine seriali di plastilina scura, produttori malpagati e consumatori a debito. E’ l’esito naturale della follia liberista; circolazione libera di capitali, merci, e da ultimo degli uomini, povere marionette da spostare a piacimento. Ricorda tanto quei film di guerra in cui si vedono gli Stati maggiori, bene al riparo dalla mischia, su un grande tavolo dove i soldatini di piombo, simulacri delle truppe da sacrificare in avanzate e strategiche ritirate, vengono mossi come sul campo di battaglia e poi fatte cadere per rappresentare le perdite dell’indomani.
La grande sostituzione dei valori.
Prima di approfondire quanto affermato, e prima di accennare al Piano Kalergi, dal nome del nobiluomo austro giapponese che fondò l’Unione Paneuropea, una considerazione sull’argomento principe dei fautori dell’immigrazione di massa, quello della bassa natalità europea.
C’è in molti ormai il convincimento che tale fenomeno negativo sia stato largamente programmato. Le legislazioni occidentali sono tutte orientate ad un individualismo che espelle la famiglia e trascura i bambini: divorzi brevi e brevissimi, aborto come diritto naturale o banale estrazione di una fastidiosa escrescenza dal corpo femminile, promozione ed esaltazione dell’omosessualità, mito del successo, della libertà da rincorrere senza scrupoli o limiti, di una giovinezza eterna alla Dorian Gray, della rincorsa di ogni esperienza estrema. Tutte cose incompatibili con la cura dei figli e, innanzitutto, con la loro venuta al mondo.
Ucciso simbolicamente il padre, con Freud e con il diffuso ribellismo generico e spesso ridicolo, reciso il legame con il “prima”, si abolisce anche il “dopo”, cioè i figli che proiettano nel il futuro.
Da ormai sessant’anni è vivo il mito di James Dean e della “Gioventù bruciata”. L’attore, travolto dal suo personaggio, morì in uno schianto stradale a 24 anni mentre correva a folle velocità, ed il suo film simbolo aveva come titolo originale, ben più appropriato, “Ribelle senza causa.”
Sono, siamo, tre generazioni perdute. Governi e classi dirigenti hanno pervicacemente svolto politiche contro la famiglia e la natalità, in nome dei diritti individuali e del timore reverenziale dinanzi al femminismo ideologico, ma i fatti ci dicono che il primo sterminato esercito di riserva del liberalcapitalismo moderno sono state proprio le donne, spinte fuori casa da nobili ideali e, più prosaicamente, dal bisogno assoluto di uno stipendio in più per mantenere la famiglia o sostenere lo standard dei consumi indotti.
Eppure, sarebbe stata sufficiente una robusta campagna promozionale di pochi anni favore della famiglia con bambini per invertire la tendenza, un ‘orchestra mediatica simile a quelle che oggi esaltano l’omosessualità. Due, cinque, dieci anni di intelligenti campagne pro vita, accompagnate da normative fiscali e sociali adeguate, avrebbero riempito le culle e sconfitto il nullismo di pessimi maestri, tra i quali voglio ricordare Herbert Marcuse e, in Italia, Emma Bonino e Marco Pannella. Nulla! Evidentemente, non si può, non si vuole, non si deve.
Edward Bernays, nipote di Freud vissuto negli Usa, grande inventore e teorico della propaganda (suo è il primo uso della parola nell’accezione comune contemporanea) scriveva nel suo libro –manifesto, Propaganda, appunto, che per ottenere degli obiettivi politici o di marketing “basta inquadrare l’opinione pubblica come un esercito inquadra i suoi soldati” e che il popolo “come un gregge di pecore va guidato”. Lascio al lettore ogni conclusione circa gli obiettivi ed i burattinai dei tempi che viviamo, e non solo nell’ambito della grande sostituzione.
Accoglienza, tolleranza, multiculturalità, società multietnica, antirazzismo e tante altre parole d’ordine che, come riflessi condizionati riempiono le nostre teste e assordano le nostre orecchie fino ad orientare idee e comportamenti di massa, appaiono per quelle che sono: tasselli di un colossale imbroglio, anelli di una catena al termine della quale c’è la nostra morte come popolo e la fine della libertà di coscienza personale.
Il piano Kalergi
Se esiste un padre, o almeno un ideologo del contesto descritto, certamente è il conte austroungarico di madre giapponese Richard Coudenhove Kalergi. Giovane e colto politico, dopo la prima guerra mondiale e la fine degli imperi, teorizzò un’unione europea chiamata Paneuropa. Fondò il movimento con quel nome, coinvolse ambienti di vertice della massoneria, politici del socialismo e radicalismo francese del calibro di Herriot ed Aristide Briand, poi quelli di orientamento liberale. Mosse le aristocrazie di tutta Europa, interessate dopo la caduta degli imperi e l’irruzione delle masse nell’arena politica – ma erano state le masse urbane e contadine di tutta Europa a pagare il prezzo della guerra! – a riprendere sotto forma diversa il controllo del continente.
Con l’aiuto finanziario di banchieri come i Warburg e Louis de Rothschild, teorizzò la dissoluzione progressiva dei popoli europei attraverso ondate successive di immigrazione da altri continenti, ed un ferreo controllo del potere da parte delle nuove, fameliche oligarchie del denaro e dell’industria, che avevano definitivamente soppiantato l’estenuata nobiltà di sangue.
Nel suo libro “Idealismo pratico”, titolo che sembra un ossimoro, Kalergi mirò decisamente all’instaurazione, a partire dall’Europa, di un governo mondiale di illuminati, dichiarando che gli abitanti dei futuri Stati Uniti d’Europa non sarebbero stati i popoli originari del Vecchio Continente, ma una nuova etnia costruita sulla mescolanza razziale, nata dall’incrocio con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico facilmente dominabile dalle oligarchie di potere. L’abolizione delle nazioni si sarebbe dovuta perseguire con movimenti etnici separatisti in Europa e con un’immigrazione allogena di massa, primo indispensabile passo per costituire un’unica razza mondiale.
Un dottor Stranamore, un pazzo visionario da rinchiudere in clinica? No, un riverito aristocratico con appoggi tra i vertici mondiali della finanza, dell’industria, fino alla potentissima loggia ebraica del B’nai Brith, un uomo al quale è intitolato oggi il più prestigioso premio dell’Unione Europea, conferito ogni anno a membri eminenti del potere, quello vero, alla presenza e con il plauso dei capi politici dei maggiori Stati europei.
Menzogne ripetute che si trasformano in verità credute….
Questo è il catalogo, queste le forze in campo. Esiste ancora un diritto all’esistenza identitaria dei nostri popoli, e, a dire il vero, delle stesse masse immigrate destinate ad essere la nuova carne da cannone di una disgustosa zootecnia transumana?
La menzogna multietnica
Il piano Kalergi è tanto criminale quanto errato. Gli esempi delle periferie francesi, di città come Birmingham in Inghilterra, di alcune zone della Germania centrale affermano il contrario. Le comunità tendono a chiudersi, a vivere tra loro, secondo tradizioni e ritmi che ne radicalizzano le tendenze originarie. L’esempio americano è addirittura impressionante, con i ghetti delle comunità degli ultimi arrivati, i quartieri dei ne(g)ri, dei cosiddetti ispanici, degli orientali, e con le “riserve” dei ricchi, circondate da muri e telecamere, vigilati da guardie armate, cui si accede solo se si ha un badge o un invito scritto.
Lo scrittore statunitense Tom Wolfe, quello che ridicolizzò l’alta borghesia intellettuale di New York, che invitava nel 1970 ai suoi party sofisticati le Pantere Nere il cui obiettivo era la sua distruzione, e che coniò la fortunata espressione “radical chic” per i membri di quella che in Francia chiamano sinistra al caviale, ha descritto l’inferno di Miami, Florida nel terzo millennio. La città dei vecchi benestanti dall’eterna primavera è diventata una giungla abitata da tribù etniche reciprocamente ostili. Si vive vicini ignorandosi, tutti odiano tutti, rinchiusi in tribù primordiali. Il celebrato multiculturalismo americano è in realtà uno spietato multirazzismo dove domina il richiamo del sangue.
Una Babilonia di ghetti, tra ricchezze e infinite miserie materiali e spirituali. Insomma, un labirinto di identità prive di memoria, tra poliziotti cubani che inseguono spacciatori neri, psichiatri inglesi che si occupano di disturbi sessuali, in un panorama suburbano in cui si ritorna al sangue, l’elemento naturale e primigenio di riconoscimento. “Back to blood”, ritorno al sangue, si intitola significativamente il grande affresco di Wolfe, Le ragioni del sangue, nella edulcorata titolazione italiana.
Insomma, è sin troppo evidente che il meticciato nomade imposto dalla retorica alla Benetton degli “united colors”, è una falsa rappresentazione, che trascura le distanze, i punti di frizione, i conflitti del rapporto tra nazionalità e civiltà tanto diverse, e l’obiettivo non è la formazione di una nuova cittadinanza, ma la demolizione teorica e pratica della categoria di popolo.
Le parole a posto.
Se è questo che vogliono, se è questo che, deterministicamente, si avvera giorno dopo giorno per la forza della “circostanza”, come la chiamava José Ortega y Gasset, occorre mobilitare le ultime nostre energie.
Non sono soli, i difensori delle ragioni dei popoli, che poi, non tanto paradossalmente sono gli stessi che sostengono il diritto di ogni popolo di vivere dignitosamente nelle proprie terre. La persona immigrata infatti non è un nemico, ma un’altra vittima, è l’immigrazione massiva sostitutiva che va respinta con ogni residua forza, a partire dalla denuncia di vergognose mistificazioni sui termini.
Profugo è qualcuno che fugge da una guerra o persecuzione drammatica: profugo fu Enea dopo la fine di Troia, ma portava sulle spalle il padre Anchise e teneva per mano il figlioletto Ascanio. Profughi sono i siriani divorati da una guerra scatenata dagli interessi di sionisti, americani e sauditi (a proposito, perché i falsi moralisti a stelle e strisce non esportano la loro democrazia in Arabia e negli emirati del Golfo Persico?), clandestini sono gli africani e gli altri.
I numeri sono chiari: l’ottantatrè per cento di chi arriva sono giovani uomini ben nutriti, ed è noto che sono indebitati per migliaia di dollari pretesi dai nuovi schiavisti. Debitori, dunque schiavi, per la vita. Chi allora è razzista tra organizzatori e fiancheggiatori a vario titolo della grande sostituzione, e chi difende la propria nazione e, indirettamente, il diritto all’identità dei cosiddetti migranti?
Migranti: parola nuova, insidiosa ed insinuante, forse altrettanta pericolosa come extracomunitario. Impariamo daccapo a chiamare straniero chi è tale e clandestino chi giunge da noi non invitato e non richiesto!
Arrivano (forse) i nostri.
Come si vede, abbondano le ragioni da esprimere. Non siamo del tutto soli. Il primo a suonare l’allarme fu un uomo politico inglese di primo piano, Enoch Powell, esponente conservatore che, nel 1968, in un indimenticato intervento ai Comuni denunciò le politiche del governo laburista in materia di immigrazione e di accoglienza forzata. Egli denunciò il carattere divisivo delle legislazioni proposte e ne individuò il carattere di vantaggio per gli stranieri rispetto ai britannici. Qualche anno dopo, tale principio fu battezzato, in America, con un altro ossimoro, discriminazione positiva.
Enoch Powell evocò un verso virgiliano “guerre, orride guerre vedo, ed il Tevere spumeggiante di molto sangue”. Il suo discorso passò alla storia come quello dei “fiumi di sangue”, ma la sua carriera politica terminò quel giorno. Da futuro ministro a proscritto nel partito conservatore, a riprova che la destra economica riesce ad essere peggiore della sinistra.
Della dissidenza di molti intellettuali francesi si è già accennato, e piace ricordare uomini provenienti dalla sinistra più radicale come Régis Debray tessere, in un libro splendido, l’elogio delle frontiere, viste non come il luogo dello scontro o della chiusura, ma come l’ambiente privilegiato dell’incontro paritario tra diversi.
Quanto ad Alain Finkelkraut, altro prestigioso “intellò” transalpino, ha suscitato polemiche e reazioni violentissime una sua affermazione secondo cui l’antirazzismo dogmatico propalato dalla cultura dominante è il comunismo del XXI secolo. Egli afferma con sarcasmo che ridurre l’invasione migratoria ad una crisi umanitaria o ad un’emergenza rifugiati è come prendere “Alla ricerca del tempo perduto” per una testimonianza sull’asma.
Negli ultimi anni, oltre al libro di Renaud Camus che dà il titolo anche al presente intervento, si sono moltiplicate voci di grande qualità che sono riuscite a rompere il silenzio o l’asservita complicità di troppi.
Eric Zemmour è una voce molto ascoltata in Francia, i suoi libri raggiungono il grande pubblico, ed è ormai tanto popolare che è difficile espellerlo dai grandi mezzi di comunicazione. Una delle sue scoperte sociologiche è che lo spossessamento di sé, la disintegrazione inaudita che ha colto la Francia – e l’Europa tutta – è spiegabile con una passione smodata per la rivoluzione del 1789, falso mito fondante.
La Francia del dopo De Gaulle, a suo avviso, ha cambiato il proprio anno di nascita: alla presa della Bastiglia, la nazione aveva già mille anni. Il titolo del suo testo più famoso, Le suicide français, ci parla di una narrazione storica invertita, sostituita, in cui si fronteggiano un “prima” oscuro, bianco, patriarcale e xenofobo, e un “dopo” multicolore, aperto sull’Europa e sul mondo, liberato dalle sue catene ancestrali. Nelle scuole francesi si insegna l’omosessualismo ed esiste un tragicomico “ABCD dell’uguaglianza”, che contrabbanda la teoria del gender per lotta agli stereotipi e fa il tifo per la vittoria dell’internazionalismo sulle nazioni.
Un altro francese, tutt’altro che un esaltato di destra, Jean François Revel, nel suo fondamentale libro “Né Marx, né Gesù”, intuì che sarebbe sorta nelle università americane una rivoluzione spuria ma ultraindividualista e sarebbe necessariamente passata per la morte per omicidio del padre. Di tutti i padri, quindi anche della Patria, luogo della trasmissione generazionale non meno che territorio concretamente calpestato dai suoi figli.
Un altro sulfureo esponente della Francia che pensa è Michel Houellebecq, probabilmente il maggiore romanziere francese di questi anni, scrittore uso alle provocazioni e dalle tesi invise alle mafie culturali d’Oltralpe, a suo tempo dominate da uno dei peggiori tra i maestri del male, Jean Paul Sartre.
E’ diventato un clamoroso successo editoriale il suo romanzo “Sottomissione”. Il titolo è chiarissimo: sottomissione è il significato letterale di Islam, e la trama, tutt’altro che distopica o irreale, è quella di una Francia che, nel 2022, elegge un presidente mussulmano, sconfiggendo in un drammatico ballottaggio Marine Le Pen. Il presidente è una brava persona, tutt’altro che un estremista e di buoni sentimenti, si chiama Mohammed Ben Abbas ed è figlio di un modesto droghiere tunisino. Il suo partito si è innanzitutto assicurato il controllo del ministero dell’Istruzione e fa applicare la legge islamica, la “sharìa”, ma in versione moderata.
Sua massima ambizione è diventare il primo presidente dell’Europa unita, allargata ed islamica. Houellebecq tratteggia i caratteri dei suoi personaggi, a partire dal protagonista, uno stanco, svirilizzato, nichilista professore della Sorbona, specialista dello scrittore decandentista Huysmans, (l’autore di Controcorrente), simbolo nel romanzo dell’agonia europea, fino ai vari membri della classe dirigente e del ceto intellettuale che si adattano tranquillamente alla nuova realtà, sottomettendosi, appunto, e riprendono le loro manovre, le squallide trame di potere anche in uno scenario molto cambiato.
C’è anche un giovane professore, Godefroy Lempereur, esponente del blocco identitario che si oppone all’islamizzazione ed al crollo delle civiltà europee. Il suo nome è fortemente simbolico, poiché richiama Goffredo di Buglione, comandante crociato, mentre il cognome Lempereur, imperatore, evoca chiaramente la lunga stagione imperiale della Francia e di tanta parte dell’Europa.
Il Campo dei Santi
La letteratura francese, peraltro, aveva già dato un grande, profetico, capolavoro al tema dell’immigrazione e della sostituzione della popolazione. Parlo del “Campo dei Santi” di Jean Raspail, che fu scritto nel 1980, in cui si immaginava, con straordinaria preveggenza, il viaggio verso le coste del sud della Francia di una gran flotta carica di indiani, anno 1997, decisa a raggiungere l’Europa. Guidati da una bieca figura di avventuriero detto il “Coprofago”, (mangiatore di sterco) e con la complicità di missionari cristiani ed organizzazioni umanitarie, gli invasori si avvicinano nello sgomento e nell’impotenza dei governi.
In assenza di Angelino Alfano, nemmeno Raspail ipotizza l’uso della Marina Militare francese a supporto dei migranti, che comunque sbarcano senza colpo ferire. Le popolazioni europee subiscono passive, inebetite dalla massiccia propaganda multirazziale. Una canzoncina sull’accoglienza commissionata dal governo è ossessivamente trasmessa da tutte le reti televisive e radiofoniche. Raspail paragona l’evento alla caduta di Costantinopoli del 1453, allorché la spossata civiltà di Bisanzio si consumò tra astratte dispute intellettuali e fornicazioni varie.
Cinica e disillusa, l’opera disegna ed esprime tutta la malvagia volontà che spinge forze potentissime ad edificare il regno della globalizzazione. Il meticciato, razziale e spirituale, ha prodotto il deserto, il caos generalizzato, la violenza ed il degrado: l’inveramento della guerra di tutti contro tutti di Thomas Hobbes, il cui esito non può che essere un durissimo totalitarismo.
Un’Europa in disarmo, emotiva, imbelle, arrendevole, erosa al suo interno, minata da intellettuali e preti progressisti invasi da sensi di colpa. Dal collaborazionismo alla sindrome di Stoccolma ad un vero e proprio istinto di morte.
Raspail antivede la caduta senza rumore dell’Europa. Il Campo dei Santi, nell’Apocalisse di San Giovanni, è la città diletta di Dio, che viene cinta d’assedio dalle forze infere scatenate da Satana che “saranno numerose come la sabbia nel mare”.
Avanti!
In Germania, un importante giornalista della prestigiosa FAZ Frankfuerter Allgemeine Zeitung, tempio del liberalprogressismo, Udo Ufkotte, ha rivelato di essere stato per anni pagato dalla CIA, come molti suoi colleghi, per diffondere il verbo immigrazionista e multiculturale. Oggi dimostra nei suoi interventi come la stessa potente Germania tolleri la legge islamica, accetti la poligamia e riconosca il delitto d’onore. In Austria, se un turco esalta Hitler viene assolto, un europeo va in carcere.
Aumentano costantemente gli psico reati, le parole che non si possono dire, i pensieri che è vietato fare. Questo significa che esistono nervi scoperti nel corpo globalista, e proprio lì bisogna colpire, senza paura, con argomenti forti, parole nuove, giorno dopo giorno. Riconoscere, rilanciare e diffondere le idee proibite dalla pseudo democrazia è importante, dal momento che ciò che dispiace ai dominanti è senz’altro cosa buona e giusta.
Purtroppo, è inutile chiudere le porte quando il nostro gregge è ormai malato e chi è entrato è tracotante, sostenuto e, soprattutto, in possesso di identità, o forze vitali, superiori alle nostre. La battaglia è probabilmente perduta, ma spiragli sussistono ancora, nella ribellione di minoranze sempre meno piccole, nell’emersione di forze politiche diverse per orientamento, ma animate dal medesimo desiderio di reagire alla fine della nostra gente.
Abbiamo però bisogno di idee che diventino azioni, come sosteneva Ezra Pound, non possiamo andare alla guerra senza pallottole e senz’armi. Identità, sovranità, famiglia, Patria, economia partecipativa, equità sociale. Non sono principi nuovi, li hanno anzi screditati, revocati, derisi, ma quel che hanno messo al loro posto è immensamente peggio, ed è sotto gli occhi di chiunque.
Riprendiamo le nostre bandiere a testa alta, con la fierezza di sempre; saranno lacere, saranno un po’ invecchiate, ma rispetto al nulla dei nostri nemici sono diamanti, e un diamante è per sempre!
Abbiamo le idee forza, le nostre armi tratte dal giacimento ideale. Ora servono le munizioni e le parole del presente. Le munizioni nostre devono essere la conoscenza, la capacità di giudizio, il discernimento degli imbrogli che ci vengono quotidianamente imposti come verità, e più ancora un pizzico di sana follia, una speranza visionaria e tenace di rovesciare la partita.
Per l’alto mare aperto
C’è un’onda altissima, vasta e variegata, permeata di permissivismo e buonismo idiota, che presenta l’invasione – chiamiamola sempre così – del nostro continente, come un evento buono, giusto e naturale. Costoro negano persino il concetto di integrazione, che presuppone l’esistenza di una società esistente strutturata, ed implica una normatività.
Sembra di vedere in una notte di tregenda sull’oceano, pezzi dei materiali più svariati, detriti alla deriva dopo un naufragio, che si disintegrano su se stessi all’azione corrosiva del mare. Ma ci sono ancora, nell’oceano in tempesta, “rari nantes in gurgite vasto”, rari nuotatori sparsi nel vasto gorgo. Tra questi anche noi, italiani ed europei tenaci, animati dall’amore di noi stessi e non dall’odio dell’altro, testimoni ed eredi di una civiltà che, da Omero e per cento generazioni, è stata quella di chi vuol conoscere, sapere, rischiare, guardare in faccia l’infinito, accarezzare il trascendente, di chi, da sempre, si mette “per l’alto mare aperto”, come ha poeticamente fatto dire ad Ulisse nella Commedia Dante Alighieri, fondatore della lingua italiana e vero, forse unico, padre della Patria.
Basta quindi, con le semplici lamentazioni, o con l’esaltazione nostalgica di un buon tempo antico che, probabilmente, non è stato poi tanto buono. Basta, soprattutto, con le battaglie di retroguardia, le partite giocate in difesa, a subire l’iniziativa, il linguaggio, le idee, le azioni altrui.
Dobbiamo riprendere in mano il nostro destino comune, di persone, di comunità, di popolo, e animare un’opposizione radicalmente alternativa, che voglia vincere. Soleva dire il grande Giacinto Auriti, economista, giurista, ma innanzitutto uomo di fede irrevocabile, che “noi siamo costretti a vincere”. E’ davvero così, giacché l’alternativa non è tra bene e male, ricchezza o povertà, salute o malattia, ma tra vita e morte, grande sostituzione o ritorno a noi stessi.
Prima capiremo la portata dello scontro, prima sapremo trovare le forze interiori, la tenuta morale, la scintilla che ci chiama ad un dovere inderogabile: rimanere noi stessi, trasmettere la nostra civiltà, incalzare prima, sconfiggere poi le forze del denaro e quelle della dissoluzione. Il domani potrà ancora appartenerci, ma solo se combatteremo di nuovo “l’usura ed il pugno “, unite per distruggere la più grande civiltà della storia, fatta, non abbiamo paura di gridarlo, dagli uomini bianchi d’Europa.
Jean Raspail ha scritto una frase con la quale è bello chiudere queste note. “Quando si rappresenta una causa (quasi) perduta, bisogna suonare la tromba, saltare a cavallo e tentare l’ultima sortita, senza la quale si muore di una triste vecchiaia nel fondo della fortezza dimenticata che nessuno assedia più perché la vita se ne è andata via”.
Roberto Pecchioli
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