Questa domanda è lecita, soprattutto a distanza di quasi ottant’anni dai drammatici anni in questione, al fine di giungere ad una visione storica il più possibile condivisa ed alla tanto auspicata pacificazione nazionale che ancora tarda ad esserci.
Ovviamente è una domanda retorica, nel senso che qualunque risposta le si dia, questa non cambierebbe di una virgola ciò che è stato.
Il valore della domanda e di conseguenza della relativa risposta sta invece nel definire con maggiore obiettività i contorni dell’intera vicenda che portò alla guerra civile; per giungere a ciò serve però porsi altre domande allo scopo di affinare la ricerca: chi volle la guerra civile ed a quale scopo? Chi trasse dalla guerra civile i maggiori vantaggi?
Nelle ricerche che da anni conduco sull’argomento della guerra civile e sulla storia del fascismo locale, ho rinvenuto presso l’archivio dello Stato della Spezia dei documenti che rivelano come da parte fascista, almeno ai livelli di comando, vi fosse una chiara scelta da perseguire: evitare se possibile la guerra fratricida e di conseguenza ridurre al minimo i disagi per la popolazione civile.
In particolare in questo senso è di fondamentale importanza la testimonianza di due lettere che il Capo provincia di Apuania (all’epoca denominazione della provincia di Massa-Carrara), avvocato Ernesto Buttini, inviò al Capo provincia della Spezia, Giovanni Appiani.
La prima lettera data 9 novembre 1944, eccone di seguito il contenuto integrale:
Caro Appiani, (…) le cose sono andate così: tempo addietro, essendo stato casualmente arrestato un partigiano ad opera di soldati tedeschi, mi è stata inviata una lettera da un comando di partigiani con la quale ero pregato di proporre ai tedeschi di permutare il prigioniero partigiano con un soldato tedesco loro prigioniero. Ho mandato la lettera all’Ortskommandant, il quale, autorizzato dal Comando di Divisione, ha accettato di intavolare trattative, che naturalmente si sono estese anche ad altri argomenti. Dopo una riunione preliminare con due partigiani, ai quali il Comandante tedesco aveva concesso un lasciapassare, è stata fissata una riunione qui a Pontremoli, nella sede della Prefettura, fra i rappresentanti del Comando tedesco e quelli della Brigata “Julia”.
È intervenuto anche un rappresentante della GNR. I punti sostanziali delle trattative erano questi: libero transito per la via della Cisa, cessazione degli atti di sabotaggio sulla linea ferrata, cessazione da parte dei tedeschi di requisizioni o rastrellamenti. Tutte cose che interessano anche me ed anche te.
Le trattative si sono svolte in una atmosfera di cordialità anche perché la Brigata Julia è una formazione democratica cristiana ed i suoi componenti hanno dichiarato di essere nemici dei tedeschi, degli inglesi, ma soprattutto dei comunisti. E l’accordo è stato raggiunto; i tedeschi hanno concesso anche più del richiesto.
Quando mi è stata data copia dell’accordo, ho rilevato che alcune clausole non sarebbero da me accettabili, per esempio la quinta che presuppone l’esistenza in Pontremoli di un comando partigiano che io non sono assolutamente disposto ad ammettere. L’ho detto al comandante della Brigata Julia, che conoscevo, ed ha convenuto che ho ragione e che ne parlerà al Comandante della Divisione.
Il guaio è che ci sono bande di tutti i colori e gli accordi fatti con una non vengono rispettati dalle altre. Ma se si potesse giungere ad una distensione e persuadere quelli della montagna a rientrare alle loro case ed a perseguitare insieme con noi i delinquenti comuni che sono nelle loro formazioni, penso che potremmo fare qualche concessione. Ti terrò informato delle ulteriori trattative. Ti mando copia dell’accordo. (cfr. A.S.S. Gabinetto Prefettura, b.441, fasc.2)
Il 12 novembre dello stesso anno Buttini scriveva ad Appiani una seconda lettera:
Caro Appiani, ho avuto oggi, nella sede del Comune di Mulazzo, un colloquio con alcuni ufficiali del Comando della Divisione Liguria dei Volontari della Libertà. Essi vorrebbero addivenire ad un accordo con te, con me e col Comando germanico. I punti da discutere sarebbero questi:
- Scambio dei prigionieri. 2.Tregua di armi con determinazione delle zone di interesse e di controllo. 3. Libera circolazione per i partigiani non aventi obblighi di leva, purché disarmati; se trovati armati, nostro diritto di passarli per le armi. 4. Studiare una formula per quelli aventi obblighi di leva. 5. Divieto di circolazione di truppe nostre o tedesche nelle zone presidiate dai partigiani. 6. Divieto di rastrellamento bestiame ed uomini (questo è superato dall’accordo generale segnalato dalla radio) 7. Liberazione degli ostaggi e divieto reciproco di prenderne.
La zona d’influenza dei partigiani sarebbe delimitata dalla linea: Cornoviglio, Piana Battolla, Beverino, Brugnato, Bozzolo e tutti i paesi a destra della rotabile delle Cento Croci. Penso che si potrebbe trattare. Se tu condividi il mio pensiero, parlane al Comando tedesco e se l’idea di una trattativa non viene respinta, si potrà fissare un convegno, munendo di lasciapassare i parlamentari. Resto in attesa di tue comunicazioni. (cfr. A.S.S. Gab. Pref. b.441, fasc.11)
Di tutt’altro tenore la seguente lettera che il Comando della brigata garibaldina Muccini inviò al C.L.N. della Spezia lo stesso 12 novembre 1944:
Un Comando Superiore tedesco chiedeva un colloquio al quale venivano delegati nostri rappresentanti. La richiesta germanica, che era diretta anche a Comandi altre Brigate limitrofe alla nostra, tendeva sostanzialmente a compromessi. I colloqui perciò sono stati troncati e in parte rimandati. Comunque si assicura che, a prescindere da ogni ordine diramato, i nostri intendimenti, consoni ai princìpi della nostra lotta, sono contrari a qualunque forma di compromesso (…) (cfr. I.S.R. La Spezia, relazione del comando brigata Muccini al CNL della Spezia del 12.11.1944, F.1, s.12, f.173).
Questi tre documenti provano in maniera alquanto evidente che la guerra civile o perlomeno il suo protrarsi ed incrudelirsi fu voluta da una precisa parte politica in campo, cioè da quella comunista.
Essa infatti ne trasse i maggiori vantaggi e altri ancora sperava di trarne; ad esempio, per il primo aspetto gli attentati promossi dai GAP provocarono le dure reazioni sia da parte fascista sia da parte tedesca, le quali finirono per coinvolgere anche la popolazione civile e di conseguenza crearono un sentimento di ostilità tra questa e le forze armate germaniche e della RSI; per il secondo aspetto i comunisti, che erano meglio organizzati da un punto di vista militare tra tutte le formazioni partigiane, speravano di accreditarsi come i veri protagonisti della guerra contro i fascisti ed i tedeschi sia agli occhi della popolazione sia nei confronti degli anglo-americani, tale posizione di forza li avrebbe messi nella condizione di poter avere un peso maggiore nella formazione di un nuovo governo.
A sostegno di questa mia tesi cito una fonte insospettabile di simpatie fasciste, lo storico marxista Massimo Bontempelli, che nel suo libro La Resistenza Italiana CUEC, 2006 a pag. 90 e segg. afferma: «Il Partito Comunista volendo impedire ad ogni costo che l’idea di una conciliazione fra fascismo e antifascismo abbia qualche eco credibile, non si limita a colpire i tedeschi, ma scatena una campagna di terrore contro i dirigenti fascisti, uccidendone tra la metà di settembre e la metà di novembre, ben sessantaquattro, in altrettanti agguati».
A tal proposito ricordo i principali esponenti del fascismo repubblicano che furono assassinati dai GAP per la loro nota posizione di moderazione tesa ad evitare l’incrudelirsi del conflitto ed in particolar modo della guerra civile:
- Giovanni Gentile, filosofo e ministro della RSI, assassinato a Firenze il 15 aprile 1944
- Igino Ghisellini, federale di Ferrara, assassinato a Ferrara il 13 novembre 1943
- Ather Capelli, giornalista, assassinato a Torino il 31 marzo 1944
- Silvio Parodi, federale di Genova, assassinato a Savignone il 19 giugno 1944
- Aldo Resega, federale di Milano, assassinato a Milano il 18 dicembre 1943
- Eugenio Facchini, federale di Bologna, assassinato a Bologna il 26 gennaio 1944
- Pericle Ducati, docente universitario e membro del Tribunale speciale, colpito in un agguato a Firenze il 16 febbraio 1944, morì per le ferite riportate a Cortina d’Ampezzo il 17 ottobre 1944.
Il problema della guerra civile fra italiani fu molto sentito da entrambe le fazioni in lotta: molti furono coloro i quali ebbero forti obiezioni di coscienza verso questo tipo di guerra, ma molti furono anche gli intransigenti. Inoltre, sebbene i comandi militari angloamericani non volessero affatto una crescita oltremisura del movimento partigiano ed un suo impegno militare al di là delle esigenze alleate (sostanzialmente: spionaggio e raccolta di informazioni; sabotaggio; messa in salvo di agenti, piloti abbattuti e fuggiaschi alleati), le radio di propaganda alleata (Radio Algeri, Radio Londra, Radio Milano Libertà, Radio Bari) incitavano apertamente all’omicidio nei confronti degli esponenti del fascismo repubblicano,
lanciando avvertimenti intimidatori e diffondendo notizie circa domicilio, abitudini, frequentazioni ed eventuali coperture di questi, affinché si sentissero perennemente braccati.
Anche lo storico di sinistra Giorgio Bocca nel suo libro Storia dell’Italia partigiana, Mondadori, Milano 1995, a pag.151 afferma «[…] gli stessi comunisti, nel corso delle discussioni, concedono qualcosa all’antica paura, spiegano anch’essi la necessità del terrorismo come prevenzione dell’inevitabile terrorismo tedesco, come presenza che rincuora chi resiste: quasi cercassero delle giustificazioni. In realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla, subito».
In verità vi furono uomini che da ambo le parti in lotta, riconoscendosi innanzitutto tra loro come italiani, cercarono di addivenire a dei compromessi, a delle tregue, ad un sistema di lotta il meno feroce possibile.
Ad esempio in campo partigiano due comandanti garibaldini, Romeo Fibbi e Bruno Bernini, il 7 marzo 1944, a rapporto dal comandante dei GAP bolognesi e poi fiorentini, Luigi Gaiani (responsabile dell’omicidio di Pericle Ducati e poi fra i mandanti di quello di Giovanni Gentile a Firenze), furono posti di fronte a questo aut-aut: «se la prossima volta non avessimo fucilato i prigionieri fascisti, avrebbero fucilato noi al posto dei fascisti». Cfr. Fernando Gattini, Giorni da Lupo, Comune di Vicchio, Vicchio, p. 50.
Nelle nostre zone combatterono contro i tedeschi e le formazioni della RSI anche diversi ex prigionieri di guerra alleati, il più famoso fu il maggiore inglese Gordon Lett, comandante del Battaglione Internazionale di stanza a Rossano di Zeri, che nel dopoguerra riporterà i ricordi di quel periodo nel libro “Vallata in fiamme”, edizioni Artigianelli, Pontremoli 1949. In questo libro Gordon Lett esprime pareri non certo lusinghieri sui comandanti politici delle formazioni partigiane e ci testimonia come la fazione politica e la competizione tra i diversi gruppi partigiani, pregiudicasse alla fine l’azione militare e abbia messo più di una volta di mezzo la popolazione civile, lasciata poi indifesa di fronte alla rappresaglia nemica.
Vi fu quindi un preciso disegno politico e militare, imposto dai vertici del partito comunista, volto a scatenare la guerra civile e a rendere inefficace qualsiasi tentativo di mediazione.
Questa situazione determinerà le posizioni sempre più intransigenti anche nelle altre formazioni partigiane e dall’altra parte la reazione sempre più violenta ed irrazionale dei tedeschi e dei fascisti della RSI.
Pertanto per rispondere alla domanda del titolo, ritengo si possa affermare con una certa attendibilità che la guerra civile si poteva evitare o quanto meno si sarebbe potuto evitare che assumesse la piega drammatica che invece assunse, se fosse prevalso lo spirito di salvaguardia degli interessi nazionali al di là dello spirito di fazione, che invece, purtroppo, prevalse.
Questa eventualità oggi fatica ad essere presa in considerazione in quanto sull’argomento viene attuata una sorta di censura e di difesa ad oltranza di un’interpretazione, la cosiddetta vulgata, che è di parte, in quanto costruita ad arte per evidenti fini politici, e che non ammette alcuna contestazione o altra versione dei fatti rispetto a quella appunto divulgata da coloro che ironicamente Gianpaolo Pansa definì i “custodi della memoria”.
Ricordo come Gramsci predicasse che la strumentalizzazione ai fini politici della storia e della sua memoria serviva a costruire l’egemonia culturale, essenziale per conquistare e mantenere il potere.
Ma il tempo è galantuomo e alla fine, mi auguro, la verità anche su questa pagina drammatica della nostra storia patria finirà per affermarsi.
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