“11 Ottobre 1916 . A sera sono nuovamente di corvè. Avrei voglia di andare in fureria a protestare contro il modo di fare del furiere che continua a comandarmi di corvè anche quando non mi spetta; vorrei dire al furiere di fare le cose con un po’ di maggior giustizia e che uscisse dalla sua tana profonda situata nel Vallone, dove neanche un 305 potrebbe penetrare; ma non è questo il momento di protestare. I miei compagni aspettano il rancio, e compio anche questa volta, silenziosamente l’ordine ricevuto. Parto con cinque compagni.” dal diario del caporale Arienti.
Eroi o vili, combattenti o di corvée furono sempre giovani ragazzi che si immolarono per la Patria o che vi furono costretti da decisioni prese dai loro comandi militari.
In ambito militare, la frase “essere di Corvée” designa un’ antico costume ancora in uso presso le Forze Armate, mediante il quale vengono stabiliti dei turni speciali per i militari, finalizzati a effettuare mansioni o servizi vari, quali compiti di pulizia delle camerate, dei bagni, oppure per la preparazione di pasti o di operazioni analoghe. In senso figurato, come nella vignetta sottostante, corvée significa anche “Qualunque lavoro pesante e ingrato”
Nel libro “Oscuri eroi con la fronte imperlata di sudore” è stata raccolta una sorprendente testimonianza scritta da Giovanni Biondi. La stesura è stata possibile grazie ai fogli manoscritti che la figlia dell’autore ha donato al Museo della Guerra Bianca.
Emerge dalle descrizioni precise e meticolose un’esperienza di guerra vissuta in prima persona da un militare arruolato nel Genio zappatori. Un uomo scrupoloso e bonario, animato da sinceri sentimenti di patriottismo, che prima della guerra era un impiegato di banca. Sono le vicende quotidiane di un semplice soldato e tutte le esperienze che aveva vissuto: le marce estenuanti, le corvée, le fatiche nel lavoro di “zappatore”, le sofferenze fisiche come fame e freddo, ma anche le soddisfazioni per i risultati ottenuti ed emerge, di volta in volta, il toccante racconto delle emozioni vissute alla vista della distruzione, della morte così presente e vicina, ma anche degli spettacoli della natura e della incontenibile gioia alla notizia della vittoria.
Per i militari al fronte furono corvée, fatiche, marce, servizi, ma non solo, fu anche e soprattutto l’esecuzione di ordini che conducevano al massacro. Come ho già ribadito, la grande guerra impose armi innovative usate con vecchie mentalità e tattiche militari superate, che erano alla base della formazione di gran parte dei generali, primo fra tutti Luigi Cadorna, un personaggio senza dubbio carismatico ma anche molto discutibile. Sono pochi i giudizi positivi espressi a favore del generalissimo, ma qui vorrei ricordare un episodio che lo vide protagonista e dove dimostrò la sua partecipazione alle sofferenze dei soldati e delle loro famiglie.
La storia è quella dei fratelli Pasquale di origine calabrese. Allo scoppio della guerra lasciarono la madre vedova, gli studi, il lavoro e partirono per compiere il loro dovere tutti e tre pieni di ardore e slancio verso la Patria.
Amedeo Pasquale morì in combattimento, si legge nella motivazione della medaglia d’oro al valor militare “tre o quattro volte conduce all’assalto i suoi soldati fedeli e prodi, finché conquista il trincerone, ne fuga i difensori e vi pianta le sue mitragliatrici che li fulminano. La ferita che gli sanguina non lo turba, egli incita i suoi soldati a resistere ad un ritorno offensivo degli austriaci, redire non est necesse, come il tribuno romano, cade ma si sorregge ancora per tenere ferma la vittoria, quando una nuova palla gli spegne per sempre i battiti del nobile cuore.”
Il fratello Vincenzo morì invece sul Rombon colpito da un proiettile in fronte, e venne insignito di medaglia d’argento al valor militare.
Fu così che il terzo fratello Giuseppe, come un antesignano soldato Ryan, mentre stava combattendo sul Carso venne convocato dal generale Cadorna. Il generale abbracciandolo, come un figlio, lo congedò dicendo “Vada a fare compagnia alla degna sua mamma, alla quale tanto dobbiamo“.