19 Novembre 2024
Cogitamenti

La guerra e, è, la morte – Renato Padoan

 

 

 

Può iniziarsi con la certezza di perdere e condurre egualmente una guerra con la certezza di perderla?

Pare ovviamente di no.

Una tale conduzione di guerra è inconcepibile.

Se non vi è certezza per l’esito se non quella di una perdita e di una disfatta come definiremmo una tale condotta di guerra? Tratterebbesi di un puro suicidio diverso dal suicidio del singolo per essere un suicidio di massa deliberato. Se tali proposizioni sono irricevibili perché insensate non resta che definire la guerra come un azzardo ed una scommessa. La certezza del futuro sarebbe comunque paralizzante per rispetto a un’iniziativa di guerra. Ma non si è ancora definita propriamente la guerra.

Né la perdita né il guadagno è bene siano per ora definiti.

Perdita e guadagno possono intendersi come salvezza, sopravvivenza o morte.

Dev’essere però chiaro sia ai superstiti che ai perdenti che di li a poco o tanto di tempo vitale che sia morranno comunque.

E’ questa una condizione insopprimibile che concerne sia una guerra decisa che una guerra comunque procrastinata.

Tutti coloro che intraprendono una guerra con l’incertezza di vincerla o di perderla sono in possesso di una sola certezza e cioè che oltre alle cause naturali di morte se non morranno di guerra morranno comunque.

La scelta si pone dunque se si debba morire di guerra o non morire di guerra ma soprattutto se si possa vincere la scommessa di essere vincitori o perdenti.

Morire di guerra non è così atroce a volte come il morire di una morte propria in un letto d’ospedale circondati dalla vita persistente di chi si addolora per noi. Morire di vecchiaia circondati dalla cura di giovani sani non è uno spettacolo edificante o perlomeno è uno spettacolo di cui si farebbe volentieri a meno.

Non vi è definizione delle molti che ho sentito, letto e trascritto per mio conto della guerra di una che colsi alla TV in un’intervista a un soldato giapponese. A questo soldato giapponese reduce dagli eccidi della seconda guerra mondiale per la conquista del Pacifico fu chiesto dall’intervistatore cosa fosse e fosse stata per lui la guerra condotta. Egli rispose semplicemente che in guerra si ha il permesso di uccidere. E’ questo un permesso che il gruppo non concede all’individuo ma ritiene per sé soltanto qualora si preveda la pena di morte od un suo equivalente estremo come nel caso dell’ergastolo per mezzo di una segregazione definitiva dalla vita del gruppo di cui fece parte donde la mortificazione più completa fino alla morte inevitabile perché umana.

In un film dedicato alla figura di Yukio Mishima si ha a necessario complemento di questa definizione la risposta che l’eroe diede a un membro della sua setta che gli chiese se fosse lecito uccidere qualcuno. Yukio rispose al seguace che sì si può dare la morte purché si sia disposti a morire di quella stessa morte.

 Renato Padoan

2 Comments

  • Dodici 14 Novembre 2024

    Nella mia ignoranza non ricordo dove l’ho letto ma era un brano a proposito degli opliti greci. Si diceva che nella falange la maggior parte degli armati è gente che si trova li senza sapere perché e che non ha alcuna volontà o capacità di uccidere. Poi ci sono quei pochi che invece sono bravi ad uccidere e se va bene salvano la pelle a tutti gli altri, vincendo la battaglia. Questa verità è stata provata quando nei tempi recenti si è misurata la “performance” dei soldati e si è visto che c’era un enorme spreco di munizioni perché il soldato sparava a caso nella generica direzione del nemico senza la volontà di ferirlo, tanto che in certi casi in cui soldati nemici si incontravano per sbaglio, spesso e volentieri cercavano di sottrarsi gli uni agli altri senza farsi del male a vicenda. Se avevano il tempo e il mondo, finivano per familiarizzare.

    La ragione è ovvia. Se una persona viene educata per tutta la vita in funzione di una “norma”-“normalità” in cui certi comportamenti sono tabù e uccidere è uno dei tabù massimi, quando la si mette in un contesto in cui uccidere è “norma”-“normale” è inevitabile che questa persona non riesca ad adattarsi. Gli viene imposto un comportamento che è sbagliato per tutto quello che gli è stato insegnato fino a quel momento.

    Il risultato è l’addestramento. L’addestramento dei soldati idealmente punta a cancellare la personalità costruita dalla educazione “civile” per sostituirla con una personalità robotica in cui si esegue l’ordine, si uccide, come un comportamento condizionato, automatico, senza passare da una censura che sia emotiva o peggio razionale. Dato il fatto che questo addestramento deve “bilanciare” molti anni di condizionamento, necessariamente risulta traumatico. Non può essere come l’esperienza che facevano gli aristocratici della antichità che venivano educati ad uccidere fino dalla prima infanzia. Volendo anche i contadini che uccidevano per sopravvivere e che erano comunque avvezzi alla morte come esperienza quotidiana ed onnipresente.

    La conseguenza della conseguenza è che il soldato addestrato in modo da uccidere in maniera robotica non riesce ad adattarsi quando viene re-inserito nella società “civile”. Sarebbe necessario il ri-condizionamento a ripristinare la “norma-normalità” cancellata dall’addestramento. C’è un limite alla quantità di traumi che una persona può ricevere e infatti un’altra conseguenza ovvia è la pazzia, ovvero il fatto che andare e venire dalla guerra produce degli psicopatici.

    Riguardo invece la “guerra” come proseguimento della diplomazia con altri mezzi, è ovvio che siccome lo scopo della azione è guadagnare un vantaggio, fare la guerra con lo scopo di ottenere un danno è una idea assurda, paradossale. A me non sembra che la spiegazione sia l’idea del suicidio collettivo quanto più semplicemente l’ignoranza e/o la scemenza. Tipo io invado l’Unione Sovietica perché sono convinto che la popolazione non aspetti altro che essere “liberata” dal Partito Comunista e/o perché sottovaluto enormemente le risorse dell’Armata Rossa, tipo non so quanti e quali carri armati possiede e/o quante e quali divisioni di fanteria può mandarmi contro. Da cui si ricava che il successo o l’insuccesso dipendono dalla “intelligence”, sia intesa come servizio di informazioni che come capacità dei “capoccia” di interpretare queste informazioni.

  • Renato Padoan 17 Novembre 2024

    L’osservazione di 12 mi è preziosa e torno sul concetto. Meglio di me ancora si esprime nel suo Almanacco Erh Sheng cui devo la mia propensione allo studio del fenomeno della guerra.

    I perdenti, gli sconfitti non possono che essere taluni morti ma non tutti i morti dacché i morti dei vincitori, sono morti vincenti dal momento ch’ essi hanno accettato la Guerra con la speranza della Vittoria. Si può pensare veramente a un Gruppo che scenda in Guerra con l’assoluta certezza della sconfitta prima che della morte? Se non vi è alcuna speranza di poter vincere chi parteciperebbe a un tale Gioco? Se la struttura della Guerra è il Gioco e il Gioco è “game” non è “pastime” passatempo, come dire che non si va in Guerra tanto per passare il tempo, a meno che non si sia dei militari di carriera verrebbe fatto di dire, che tali rimangono anche in assenza di Guerra! Sono vincenti sia i sopravvissuti vittoriosi che i morti vittoriosi mentre sono perdenti soltanto i sopravvissuti dei perdenti. I morti dei perdenti sono egualmente vittoriosi per non aver conosciuto la sconfitta e per aver sperato nella Vittoria.
    Renato Padoan

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