«La nostra politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo le conferenze di pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto possa ottenere guadagni territoriali. Le guerre devono essere dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre più nel loro debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere»
Amschel Mayer Rothschild, 1773
Senza girarci attorno Carl von Clausewitz risponde in modo circostanziato alla domanda da lui stesso posta in apertura del famoso trattato, Della guerra. Difatti nel Libro primo il Primo capitolo è: “Che cosa è la guerra?”.
Carl von Clausewitz esplicita così la natura della guerra tra le cosiddette popolazioni civili: la politica, che nella sua forma elementare è un «duello su vasta scala», prevede e consente un’attività bellica, la quale «comprende due forme, l’attacco e la difesa».
In definitiva: «Lo scopo politico, motivo primo della guerra, darà dunque la misura, tanto dell’obiettivo che l’azione bellica deve raggiungere, quanto degli sforzi che a ciò sono necessari».1
Ed ecco che cos’è la guerra, nella sua essenza più intima, ecco che cos’è la vera costituente di quest’atto formale esteso su macro scale e coinvolgente ogni aspetto del vivere civile, comunitario e sociale: «la guerra non è un passatempo, un divertimento consistente nel rischiare e riuscire, un’opera di libera ispirazione; è un mezzo serio inteso ad uno scopo serio. Tutto ciò di cui essa si appropria nel giuoco variopinto della fortuna, degli slanci appassionati, del coraggio, della immaginazione, dell’intuizione, non costituisce che particolare del mezzo. La guerra di comunità – nazioni intere, e specialmente nazioni civili – nasce sempre da una situazione politica e vien provocata solo da uno scopo politico: costituisce dunque un atto politico. Se essa fosse una manifestazione completa, indisturbata, assoluta di forza, quale dovremmo dedurla dalla pura astrazione, allora, dall’istante in cui la politica le ha dato vita, si sostituirebbe ad essa come alcunché di assolutamente indipendente, la eliminerebbe, non seguendo più che le proprie intrinseche leggi, come la esplosione di una mina non è più suscettibile di essere guidata dopo che si è appiccato fuoco alla miccia. È in tal modo che fin’ora si è concepita la cosa, quando una disarmonia fra politica e condotta di guerra ha fatto pensare a distinzioni teoriche del genere. Tuttavia, non è così; anzi, questa concezione è radicalmente falsa. Nel mondo della realtà la guerra non è, come abbiamo veduto, una cosa così assoluta che la sua tensione si risolva in una sola decisione».2
Detto ciò Clausewitz porta la seguente considerazione conclusiva al paragrafo: «Così, la politica si estrinseca attraverso tutto l’atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo, per quanto è consentito dalla natura delle forze che nella guerra si manifestano».3
Nel paragrafo successivo, “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, riprende: «La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi» e fatte salve alcune eccezioni e particolarità, le quali non possono in alcun modo mutare il concetto, «il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi».4
In buona sostanza, nel disegno della politica la guerra è una sua creazione, ovvero è una sola ed esclusiva creazione politica, un semplice strumento, una delle sue espressioni nel comandare e per comandare un popolo, a proprio “uso e consumo”.
Nel 1939 il tenente colonnello di fanteria Emilio Canevari ha lasciato un’esposizione sintetica dell’opera di von Clausewitz, con una premessa lapidaria e disincantata riguardo la conoscenza dei suoi principi in seno innanzitutto al Regio Esercito Italiano e, certamente, non a caso: «Le idee di Clausewitz sono quasi completamente sconosciute in Italia “e questa lacuna – ha scritto S.E. il Maresciallo Caviglia – influisce sulla instabilità delle basi della nostra dottrina militare”. Infatti, quello che rende le idee di Clausewitz “definitivamente acquisite” come si esprimeva il generale Dragomirof, è che egli non ha cercato di stabilire una teoria transeunte della guerra, ma piuttosto ha determinato in quale senso debbono essere considerati e impostati tutti i problemi militari e d’altra parte, ha sceverato, con un lavoro puramente scientifico, quanto è temporaneo da quanto è continuativo nel fenomeno bellico, assegnando il giusto posto alla scienza, alle dottrine ed ai metodi. In Italia, invece, su questi argomenti si è ancora più o meno alle idee di Jomini sugli “immortali principi”: ancor oggi al nostro massimo Istituto di guerra si studia la storia cercando di trarne dei principi o delle conferme di principi. Noi, che ci siamo sempre opposti vivamente agli eccessi ed alle deformazioni degli studi storici ed abbiamo avuto la soddisfazione di vederli recentemente ridotti entro i giusti limiti, dobbiamo ancora dire che – se non si segue per essi un indirizzo realistico, come appunto propugnava Clausewitz – saranno sempre non solo inutili, ma dannosi in quanto generano negli allievi il convincimento che in guerra predomini l’elemento intellettualistico astratto, il che è in contrasto con la realtà più palmare. Molto ci sarebbe da dire sulla tendenza all’intellettualismo e all’astrazione, tendenza venutaci dalla Francia con l’illuminismo settecentesco, che ha impestato quasi tutta la cultura italiana, sviandola dalla sua via nazionale che è quella del positivismo critico, indicata da Machiavelli e Guicciardini. Ma per tornare a Clausewitz, è stranissimo che le sue idee, travisate dai commentatori di terza o quarta mano, siano state del tutto capovolte in Italia».5
Ovviamente occorre chiedersene il perché.
E tale domanda risulterebbe retorica se si comprendesse con la massima tranquillità e obiettività quello che, almeno dall’Unità d’Italia, nel nostro Paese s’insegni nelle scuole al fine di distogliere innanzitutto il corpo militare dalla comprensione del reale.
Difatti la forza militare (Esercito di terra, Marina ed Aviazione) deve solo ed esclusivamente eseguire gli ordini politici. Il Popolo deve solo subirli, senza contare alcunché.
Parlando poi di Antoine Henri, barone di Jomini, generale e scrittore militare svizzero di origine italiana, Emilio Canevari lo definisce «trionfatore nel campo teorico», inquadrandolo così, rispetto al pensiero di von Clausewitz: «già ufficiale dell’esercito napoleonico, poi passato al servizio dello Czar, il quale si era proclamato inventore del “sistema delle linee di operazioni” e limitava lo studio della guerra principalmente all’esame delle forme operative e cioè, insomma, all’elemento geometrico della guerra, senza curarsi di penetrare l’intima sostanza di questo complesso fenomeno. Tutte queste teorie sono per Clausewitz “saggi da respingere”; esse hanno dei meriti per avere analizzato alcuni lati del vasto problema della guerra, ma ne trascurano la parte fondamentale e cioè, da un lato, la connessione con la politica; dall’altro, le forze morali e intellettuali; esse “tendono verso grandezze determinate” mentre in guerra tutto è indeterminato; il calcolo non si può esercitare che sulle variabili; “la guerra è solcata in ogni direzione da forze morali”».6
Nella prima metà del XX secolo il Regno d’Italia ha intrapreso più guerre coloniali e due mondiali, partecipando alla Guerra Civile di Spagna, invadendo l’Albania, la Jugoslavia e la Grecia. Questi sono stati conflitti fermamente voluti dalla politica economica e industriale, direttamente intrecciata alle banche e alla Massoneria. Le ostilità sono state portate innanzi a totale discapito della popolazione che, scarsamente alfabetizzata e sostanzialmente ignorante di ciò che realmente animava (e anima) la politica, votava (e vota) nella speranza che i propri bisogni primari potessero essere soddisfatti. Il resto, perché sottacerlo, sono solo retorica e demagogia.
La guerra moderna si fa innanzitutto con i “soldi” e tali “soldi” sono di proprietà delle banche, non già degli Stati e dei loro Cittadini, come comunemente si crede. Questo è il primo e grande errore di partenza il quale, costruito ad arte dagli storici e dagli storiografi prezzolati, non consente alla gente comune, ovvero al Popolo, di comprendere nella sua cruda realtà il perché della guerra.
Il Popolo costretto alle armi è la “massa battente”, non l’intera forgia.
E la massa battente non può fare altro che consumarsi “battendo”, o meglio “battendosi” per il preordinato disegno della politica. Non può fare altro, se non è bene organizzata in proprio per ribellarsi, perché la pena per chi non si batte è il patibolo, o il plotone d’esecuzione.
Al di là delle “filosofie” la guerra produce situazioni le quali possono sia esulare dalla guerra stessa ed esserle avverse, sia essere in linea con il dettame della guerra in atto e quindi essere variamente utilizzate dalla politica che conduce le fila del conflitto.
Talvolta si verificano degli accadimenti imprevisti dalla politica dominante, i quali rimangono alla Storia. Sono esempi considerati pericolosi dalla politica, quindi da demonizzare con ogni mezzo.
E si lascia volentieri il tutto alle parole, ancora una volta, di von Clausewitz: «La risolutezza è, nel singolo caso, un atto di coraggio e costituisce un tratto del carattere, un’abitudine dell’animo. Qui non si parla della bravura o coraggio fisico, ma del coraggio di fronte alla responsabilità, e cioè, in certo qual modo, di fronte al pericolo minacciante l’animo. Talvolta lo si è denominato coraggio dello spirito; ma non si tratta di un atto di intelligenza, bensì del sentimento. L’intelligenza sola non implica il coraggio; spesso vediamo gli uomini più notevoli per intelligenza mancare di risolutezza. L’intelligenza deve dunque risvegliare il sentimento del coraggio, per essere a sua volta sostenuta e guidata, poiché sotto la pressione delle circostanze l’uomo è dominato assi più dai sentimenti che dal raziocinio».7
D’altro canto, dal momento che le banche emettono soldi con la “macchinetta” e senza un reale controvalore, è lecito domandarsi per quale motivo i governi dei vari Stati non riescano a fare vivere nel totale benessere i loro relativi Popoli, visto e considerato che la quasi totalità delle Nazioni non emette moneta, ma bensì la emettono le loro banche private.
Posso quindi pensare che se una larga fascia della popolazione la faccio vivere nell’indigenza potrò sempre avere “disperati” e non “patrioti” che verranno a mettere la loro firma nei miei centri di arruolamento. Avrò pertanto “cittadini-mercenari” sempre a disposizione.
Chiaro il concetto?
La guerra odierna è proprio solo ed esclusivamente una volontà politica, ovvero il preciso “intento-guadagno” di banche, industrie e imprenditori di cui i politici sono solamente i portavoce.
Note
1 Karl von Clausewitz, Della guerra, vol. I, Mondadori, Cles 1978, p. 28, I, I 11.
2 Ibidem, pp. 36-37, I, I 23.
3 Ibidem, p. 37, I, I 23.
4 Ibidem, p. 38, I, I 24.
5 Emilio Canevari, Clausewitz e la teoria della guerra, in Ministero della Guerra, Rassegna di Cultura Militare. Rivista di Fanteria – Rivista di Artiglieria e Genio, n. 2, febbraio, Roma 1939, pp. 135-136.
6 Ibidem, p. 141.
7 Karl von Clausewitz, op. cit., p. 39, I, I 27.
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