9 Ottobre 2024
Giustizia

La legge italiana fa vomitare? Roberto Pecchioli

 

Un indiano clandestino in Italia, pregiudicato, destinatario di espulsione mai eseguita, forse cerca di rapire una bimba di pochi anni su una spiaggia siciliana. L’intervento del padre e degli altri bagnanti impedisce la consumazione dell’odioso crimine, ma il gentiluomo asiatico, dopo i primi accertamenti, torna a casa. Una seconda indagine, disposta a seguito del clamore della prima decisione, conferma la denuncia a piede libero. Il delitto, se c’è stato, è solo tentato, la reclusione non è un obbligo. L’episodio, a dire il vero, pare ridimensionato, ma resta lo sconcerto della madre della bimba, che dice in TV: se questa è la legge italiana, fa vomitare. Sarà il cuore di mamma, ma finalmente ascoltiamo parole di verità e di senso comune, anziché il buonismo peloso dei perdonisti di professione.

In ogni caso, lo straniero protagonista è clandestino e pregiudicato. Perché si trovava in Italia? Per quale motivo l’espulsione non risulta eseguita, ovvero, se è rientrato nel Bel Paese, perché non ne è stato allontanato immediatamente? Forse erano tutti in ferie, o si attenevano alle parole d’ordine dell’immigrazionismo più disgustoso, secondo cui ogni straniero è una risorsa. In questi giorni, decine di clandestini africani sono ospitati in una struttura nella via principale di Genova, destinata in origine ad un’importante iniziativa imprenditoriale con creazione di posti di lavoro. L’assessore, un ex comunista d’antan, tale Crivello, ha pronunciato la fatale sentenza: sono una risorsa! C’è un giudice a Berlino, o, più modestamente, nella ex Superba?

Procuratori e giudici hanno troppo potere, ma sono le leggi ad essere assurde. Troppo spesso ci accorgiamo quanto diritto e comune sentire siano distanti tra loro. Per questo ha ragione la mamma che temeva di vedersi strappata la figlioletta, ed hanno ragione i tanti che cercano di difendersi da soli, regolarmente tacciati di praticare il far west, quando la violenza la subiscono da gentaglia multietnica incurante della vita altrui e disposta a tutto. Le norme tutelano i colpevoli e beffano le vittime, salvo diventare durissime, inflessibili, inderogabili quando si vuole colpire qualcuno o qualcosa.

Esempi? Pensiamo ai numerosissimi omicidi stradali, spesso commessi da persone in stato di ubriachezza o sotto l’effetto di droghe, che poi fuggono dalle proprie responsabilità. Ben raramente trascorrono più di qualche ora in gattabuia, l’omicidio colposo non autorizza l’arresto se non in rare circostanze, e, dopo la condanna definitiva, presumibilmente assai clemente (se ci sarà, tra prescrizione, errori formali o procedurali, eccezioni e cavilli), difficilmente si apriranno le porte del carcere per il colpevole, il quale, non dimentichiamolo, ha spezzato una o più vite. Coglieva nel segno la vecchia saggezza popolare, chi muore giace, chi vive si dà pace, e, soprattutto, non paga il conto. Non potrebbe essere altrimenti, in un clima che aborre le responsabilità e sa sempre trovare attenuanti, esimenti, giustificazioni per qualunque condotta, non solo nell’ambito del processo penale.

Se poi l’accusato è straniero, razzismo alla rovescia; scarcerazioni facili, espulsioni rare e di difficile concretizzazione, la “coscienza infelice” secondo cui il reato commesso dai poveri “migranti” è sempre meno grave di quello dei cittadini, si sprecano le motivazioni di bassa sociologia (povertà, disagio, sradicamento sociale). Specularmente, il reato commesso nei confronti dello straniero è oggetto della più assoluta riprovazione, di specifiche aggravanti stabilite per legge, e un’inedita severità impedisce agli accusati di attendere il processo a piede libero, come quasi tutti gli altri.

Emblematico è il caso di Fermo, in cui il pugno sferrato dall’ultras della squadra locale in odore di estremismo di destra che, disgraziatamente, ha provocato la caduta di un nigeriano e poi la sua morte ha sollevato un enorme polverone mediatico, con i funerali del poveretto alla presenza delle massime autorità della repubblica. Le indagini stanno escludendo la volontà omicida, ma il cattivo, esemplarmente, resta in carcere. Sia chiaro: è giustissimo che il responsabile di un atto dalle conseguenze tragiche sia in carcere, ma il principio sembra valere solo per alcuni casi, e, diciamolo, solo per taluni soggetti, ma è difficile gettare la croce addosso ai giudici di prime cure travolti dal clamore mediatico e dallo schieramento istituzionale avverso all’indagato.

La discrezionalità di procuratori e giudici resta assolutamente abnorme, simboleggiata dalle affermazioni dei magistrati milanesi di qualche anno fa, decisi a “rivoltare l’Italia come un calzino”, e dalle esternazioni di Piercamillo Davigo, presidente dell’associazione magistrati, rivolte soprattutto alla corruzione, purtroppo diffusissima in Italia, ma che non è certo l’unico reato di cui soffriamo. Esigono con toni da vendicatori dell’universo il rispetto del loro ruolo e l’obbligatorietà dell’azione penale, sancita costituzionalmente, ma sono scarsamente interessati a difendere i cittadini da furti, rapine, violenze e prepotenze, adesso sappiamo anche dai tentati rapimenti. Vorrebbero scegliersi gli imputati preferiti, in nome di un ideale moralistico ideologico della giustizia, di fronte al quale cadono i garantismi e si conquista il favore di certa stampa e dei Robespierre da mercato rionale, trascurando il diritto alla sicurezza della gente normale.

Gli spaccavetrine anarco-comunisti, davanti ai quali la polizia ha l’ordine di usare cautela e mano morbida, se fermati, sono prontamente rilasciati, in attesa di processi che, se si celebreranno, vedranno derubricati i reati contestati e riconosciuti tutti i benefici di legge. Quei benefici che vengono negati a ragazzotti che urlano slogan da stadio, stupidi quanto si vuole, ma non certo pericolosi. La legge Mancino colpisce ogni discriminazione, ed i tifosi, già schedati con la tessera omonima, perquisiti e fatti passare attraverso i tornelli, adesso sottoposti ad identificazione digitale allo stadio Olimpico di Roma, sono il vero problema dell’Italia odierna, e con loro un’altra bieca categoria, quelli che vanno a visitare la tomba di Mussolini e vi comprano calendari e gadget legati al deprecato ventennio (esauritosi da appena 71 anni), che potrebbero essere vietati per legge. La nazione intera tira un sospiro di sollievo, tra le risa degli imam guerrafondai e dei delinquenti abituali.

Ennio Flaiano, uno dei più fini polemisti del Novecento, scrisse che se l’Italia è indubbiamente la patria del diritto, lo è anche del rovescio. Nel febbraio scorso, un tabaccaio veneto è stato condannato a risarcire con 325.000 euro la famiglia di un rapinatore da lui ucciso nell’esercizio della legittima difesa. Un altro cittadino veneto ne ha ottenuti solo 125.000 per la morte della moglie, madre di tre figli, investita da un ubriaco. Chi pronuncia certe sentenze è quel che è, ma il problema sono le normative entro cui si muove. La nostra legislazione è afflitta da una bulimia quantitativa impressionante, per cui nessun giurista è in grado di indicare il numero esatto di disposizioni attualmente vigenti, a conferma del brocardo romanistico “summum ius, summa iniuria”, più leggi, massima ingiustizia.

Anni fa, l’autore di queste note constatò in ambito professionale che tra il gravame giacente in ufficio, una causa civile risaliva agli anni Cinquanta del secolo scorso! Non è un caso che i contenziosi tra aziende importanti si risolvano tanto spesso in arbitrati o lodi, con grande vantaggio per i più prestigiosi studi di avvocati d’affari, e che, al contrario, un numero immenso di cause di cittadini comuni e piccole imprese giacciano, con i loro faldoni, negli archivi polverosi o nei corridoi dei palazzi di cosiddetta giustizia per lustri e decenni. Nell’ambito penale, in cui le denunce devono essere trasmesse ai tribunali “senza indugio”, la prescrizione azzera migliaia di procedimenti ogni anno, anche se il mese di agosto non viene conteggiato. Anche la giustizia chiude per ferie…

In compenso, la sua mano diventa durissima quando gli ordini superiori premono o gli interessi in ballo sono importanti. I No Tav, ovvero i valligiani valsusini ed i loro fiancheggiatori che osteggiano la realizzazione della ferrovia ad alta velocità, si sono visti appioppare l’accusa di terrorismo per gli atti di sabotaggio dei lavori. Intimidazione pura, sproporzionata ai fatti. Del resto, un braccio teso nel saluto romano può costare molto caro, e nell’epoca del politicamente corretto può succedere anche che un giornalista perda il lavoro per avere definito “cicciottelle” le tiratrici olimpiche della squadra nazionale, il che è rigorosamente vero. Dovrà rivolgersi al tribunale del lavoro per essere reintegrato o almeno risarcito, ma potrebbe anche perdere la causa. Chi lo sa, un giudice obeso o una toga femminista potrebbe condannarlo, ed oltre il danno avrebbe la beffa.

Molti temono l’esito, nel diritto italiano, dell’azione di classe (“class action”), le cause di gruppo intentate contro aziende o persone da chi si sente leso in un diritto o in un interesse: molti studi si specializzano, e le assicurazioni vendono nuove polizze a tutela delle parti convenute.

In compenso, solo il due per cento dei furti denunciati si conclude con la condanna dei responsabili, mentre per rapine, scippi e truffe le percentuali sono un tantino superiori. Tuttavia, si può essere perseguiti per “vilipendio”, una fattispecie legata ad una concezione personalistica e notabilare delle istituzioni, ad esempio del capo dello stato, anche se si è inteso criticarne esclusivamente l’azione politica. Pubblici funzionari e pubblici ufficiali, però, riescono molto spesso a conservare le loro scrivanie nonostante pesanti condanne, ottenendo nel frattempo le stesse promozioni dei colleghi onesti. Dura lex, sed lex, o meglio, pessimo sistema, ma le cose stanno proprio così. Il ritardo nel deposito delle sentenze sfinisce chi attende giustizia, però favorisce la scarcerazione per decorrenza dei termini.

Rudy Guedé, che è povero, sta scontando una pena tutto sommato mite – 16 anni – per l’omicidio “in concorso” della studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia, per il quale i suoi coimputati più ricchi e mediatici sono stati assolti con sentenza definitiva.

Sorvoliamo sulla legge Severino che prevede l’ineleggibilità dei condannati, applicata in via retroattiva a Berlusconi, in barba a principi proclamati più che due millenni fa, giacché sappiamo che politica e giustizia viaggiano su parallele che si incontrano solo all’infinito, come insegna la geometria.

Stupisce invece la storia del concorso esterno in associazione mafiosa, reato non presente nel codice penale, che definisce e colpisce l’associazione mafiosa (art. 416 bis C.P.) ed il concorso di persone (art. 110), ma tace sull’ invenzione giurisprudenziale dell’ex magistrato comunista e politico Luciano Violante. Intanto, si può essere condannati a pene pesantissime per un reato che non è espressamente previsto dal codice. Anche in questo caso, sconfitte le garanzie “romane”: nullum crimen, nulla pena, sine lege stricta et scripta, non c’è crimine o pena se non è previsto da una legge precisa e scritta. Anticaglie, smascherate però in sede europea dal ricorso vincente di Bruno Contrada, l’ex dirigente di polizia e dei servizi segreti pesantemente condannato. Insomma, in questo sfortunato paese, non c’è mai equilibrio: da un minuto all’altro passiamo dal garantismo esagerato all’eccitazione forcaiola e ritorno.

E poiché ogni diritto ha il suo rovescio, l’evasore fiscale viene denunciato se sottrae determinate somme all’erario, ma l’autotrasportatore che si attribuisce per le stesse cifre compensazioni tributarie indebite delle accise sul gasolio no, poiché non espressamente previsto dalla normativa di settore.

Un ginepraio che sarebbe divertente se potessimo osservarlo da spettatori, anziché da protagonisti e vittime. Ma ogni popolo ha le leggi che merita: il nostro, composto da milioni di furbetti del quartierino che amano la legge e l’onestà solo se si ferma sulla soglia di casa, sta bene così. Inutile ribellarsi, se ogni regola ha le sue eccezioni, ogni legge possiede esimenti, attenuanti, complesse circolari esplicative, decreti attuativi (quando li fanno). Viviamo nel paradiso degli avvocati, dei volponi, di chi vive sul filo del rasoio, dei mascalzoni.

Le carceri sono piene, ma evidentemente insufficienti a tenere sottochiave delinquenti di tutte le risme e di circa duecento diverse nazionalità. Ci si ribella esclusivamente quando capita a noi, e si tocca con mano, si soffre, si paga il conto, si subisce sotto i colpi di una macchina tritacarne impersonale, nemica.

Sì, cara signora siciliana che ha temuto il rapimento di sua figlia: comunque sia andata sulla spiaggia di Scoglitti, la legge italiana fa vomitare. Ma solo le vittime.

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