9 Ottobre 2024
Julius Evola

La lettera di Julius Evola all’astrologo Tommaso Palamidessi – Seconda Parte. A cura di Gaetano Barbella

Un mistero racchiuso in una donna,

“suo fedele corpo di guardia”

 

  1. Evola ermetista
Illustrazione 1: La carta del Matto dei Tarocchi.

Dell’Evola “storico” si può dire che si conoscono morte, vita e miracoli, come si suol dire, ma dell’Evola “ermetista”, ovviamente poco o niente. E allora che dire sugli ermetisti, cercando di comprendervi anche Evola?

Normalmente si cerca di intravederlo nell’uomo storico, ma l’ermetista di cui si sta parlando è diverso, si capisce che è cosa vana cercare di sondarlo con lo stesso criterio. E così si arriva a capire la follia che il Matto (illustr. 1) delle carte dei Tarocchi, vuole indicare sostanzialmente partendo da zero e questo è vero.

Quante volte, e non si contano, egli ricomincia daccapo e riprende la posizione persa sopravanzandola di slancio! Infatti per questo, Il Matto è la carta numero zero. L’animale che gli morde la gamba lo lega alla necessità delle discusse “azzoppature” e il fagotto sulle spalle è quella caparbia memoria che deve a tutti i costi trattenere al terribile Guardiano della Soglia che è Saturno, accennato in precedenza.

«Il Tempo dice Kremmerz è una divinità saturniana; vi si agita dentro lo stesso Saturno. A mezzanotte, la falce dell’inesorabile e famelico Dio si solleva e cade sulle cose compiute che non hanno più ritorno: L’onnipotenza di qualunque Nume non può distruggere né cancellare le cose che sono passate realmente nella vita. L’uomo può dimenticarle, ma nessun Dio distruttore può fare che non siano state. Saturno solo può troncarle, falciarle, farle spegnere, ma non può decretare che non siano esistite. È lui stesso che vi si oppone – ..10.

Ecco il lato importante, che ora ho posto in grassetto, una carta che vale oro e che l’ermetista deve saper trattenere per sé, perché è la sua carta vincente per ottenere un certo trono.

Di qui il procedere del nostro Matto, “storico” ed ermetista” dall’altro, che cerca sempre con affanno nel suo “fagotto” frammenti di memoria per riordinarla. Di qui un “copia e incolla” di puzzle da comporre, dei quali se ne perde il conto perché la sua mente (diventata un vero e proprio atanor alchemico) è continuamente messa a soqquadro. Ed è come un certo “scolaro” che dimentica continuamente la formula matematica per risolvere questo e quel problema. Tuttavia il nostro Matto è abile a “rigenerarla” e per questo lo aiuta la facoltà sempre più spiccata di essere veloce, perché è l’unico modo per stare al passo con il regime turbolento in lui che si velocizza sempre più. Sono gli occhi in lui a fare tutto, di conserva alle mani, assai operose come quelle del dio Vulcano. La sua mente è come quella di un laboratorio, per nulla ordinato, e pieno di materiali di scarto e attrezzi rudimentali fatti da lui con pochi mezzi, poiché la sorte (quel diabolico cane della carta del Matto) lo ha continuamente “azzoppato” impedendogli di procedere nell’agiatezza e in un mondo luminoso. La notte è il suo giorno.

Si capisce che sto anche parlando per esperienza personale, ma niente sgomento per chi come il Matto, in genere si trova in questo stato, poiché è previsto per gli alchimisti di trovarsi impediti fino a questo estremo.

Ce lo fa vedere il maestro Michael Maier al quale sono ricorso nel mio articolo ALCHIMIA DELLA “LEGGE DEL CASO” IN “MAZZO DI FIORI” DI JULIUS EVOLA annotato sul mio blog11.

Illustrazione 2: Michael Maier. Atalanta fugiens, emblema XXVII.

Egli si serve dell’emblema XXVII per questo scopo e lo fa seguire dal seguente epigramma che dice così:

Chi cerca di penetrare nel Roseto dei Filosofi senza la chiave, sembra un uomo che voglia camminare senza i piedi.”

L’illustr. 2 mostra lo scenario del citato emblema, il ventunesimo di cinquanta, che l’alchimista Maier ha concepito per mettere sull’avviso l’incauto che si avventura per piegare al suo volere il giardino che si vede in figura, bel protetto da solide mura e da grossi catenacci.

E trattandosi di entrare nel giardino della geometria alchemica di cui ci occuperemo, allora è meglio desistere dal cercare di valicare la sua entrata senza possedere i giusti “piedi” (che “prima” riteneva di avere), sembra avvisare al profano. Infatti è così che normalmente viene interpretato questo emblema. Tuttavia, come ho detto in precedenza, col procedere nelle diverse fasi alchemiche il percorso diventa sempre più arduo e si arriva all’inevitabile “incidente” dei “piedi”, ma la provvidenza vi ha posto rimedio, mettendo al riparo la “culla” dove verrà deposto il Rebis filosofale (lo scopo dell’alchimista) fuori dal Roseto dei Filosofofi (ma è un modo ingannevole di definire la cosa). Infatti il buon “geometra” (e qui risiedono le sue chiavi), che Maier raccomanda di essere con l’emblema XXI (vedi sempre anche nel saggio prima citato: ALCHIMIA DELLA “LEGGE DEL CASO” IN “MAZZO DI FIORI” DI JULIUS EVOLA), si accorge osservando l’emblema XXVII, di un’indicazione posta lì come segnale. L’arcata sopra la soglia del giardino, sovrastata da tre pinnacoli, con la direttrice della sua base, sembra decisamente che voglia indicare a destra un gruppetto di cinque personaggi seduti alla base di un piccola altura alberata con altri esseri anch’essi seduti. Di qui (sempre andando a vedere nel suddetto citato saggio) la spiegazione sui 5 personaggi ci è data dall’emblema XLV e dal Rebis Filosofale di Basilio Valentino. Ho scritto in proposito:

«Si noterà nel glifo di Basilio Valentino che la coppia del Rebis (scritto a rovescio, quasi un parallello alla definizione della citata “ombra” dell’emblema XLV di Maier) che ha intorno 5 stelle più il Sole e la Luna in alto. Ed è pur visibile che M. Maier ha posto appunto all’“ombra” altrettante cinque stelle. Insomma tutta la zona ombrata in questione non è altro che il Mercurio filosofale in cui nasce il Reuccio, come una sorta di Culla dalle peculiari caratteristiche. Ma la tradizione ci descrive questa Culla, che l’alchimista dovrà intravedere per capire di essere giunto al traguardo dorato della sua opera d’arte. Notare che nelle iconografie le “culle” sono le classiche ceste di vimini intrecciati dove è adagiato il bambino appena nato. E domani è un altro giorno, con un altro “Roseto dei filosofi” da dover sperimentare, naturalmente con nuovi “piedi”.

Per questa ragione, torno a ripetere, a garanzia dell’intoccabilità del mistero racchiuso nella zona “densa”, ed è cosa vana tentare di intravedere il procedere della nascita del Rebis.  Ma per via alchemica si può sorvegliare il procedere di questa nascita, poiché la Culla mercuriale che vi attiene, a detta di Fulcanelli, rivela la cosiddetta Stella del Nord. Se ne è parlato ampiamente nel mio studio sul Tavolo di Evola, pubblicato sul sito EreticaMente net. Di qui ha grande rilevanza tutta la tematica inerente l’apparizione della suddetta stella, il cui processo alchemico si dispone una mirabile geometria consistente in una tessitura che è chiamata in più modi e uno di questi è noto col nome di Sigillo di Hermes.».

Capito ora l’arcano di chi è incidentalmente “azzoppato”, che è poi il segno della “Stella del Nord”?

E fu così che si delineò in Julius Evola il “Roseto dei filosofi“ maierino con il gruppo futurista, per esempio quello di Balla e Ginna, con i quali intrattiene rapporti di amicizia e si sviluppa il suo idealismo sensorialesintetico. Siamo nella seconda metà degli anni Dieci, a Roma (è incluso infatti nel futurismo romano), dove opera e in cui è inserito con i suoi rapporti artistici. Interessi di natura esoterica, anche se con sviluppi differenti, sono diffusi in questi ambienti culturali d’inizio secolo. Nei primi anni Settanta Arnaldo Ginna è testimone del coinvolgimento di Evola e di un certo Futurismo verso le relazioni esoteriche:

Evola dipingeva un astrattismo di stato d’animo molto vicino a quello che facevo io, con quel pizzico di sentimento profondo animico occulto. Ciò veniva dal fatto che Evola, come me, si interessava di occultismo traendone, s’intende secondo la propria inclinazione, un succo personale. Non so precisamente definire gli studi e le esperienze di Evola, so soltanto che ciascuno di noi aveva tra le mani i libri di teosofia della Besant e della Blavatsky, e poi le opere di antroposofia di Rudolf Steiner”.

Nel lavoro artistico di Evola emerge la condizione di chi incontra le forze occulte trascendentali e le allucinazioni visionarie. Le vicende e i transiti, molto personali fra Futurismo e Dada, costituiscono un aspetto rilevante, non certo marginale, della sua complessa e versatile personalità: sintomatici anche negli aspetti intellettuali, che sono presenti e illuminanti nella stessa pratica artistica. In questi passaggi inizia a formulare un procedimento-percorso di pensiero, attraversando le istanze (pittoriche e poetiche) di avanguardie radicali, come quelle futuriste e dadaiste, confrontandosi con il nichilismo e i limiti della ragione. Questi movimenti infatti sono protesi a “recidere”, con innocente crudeltà, i miti dell’arte (passata e presente), confrontandosi con la sua crisi, i suoi sistemi e la società12.

Ma Evola, ben presto si stacca da questo movimento per ragioni che lui stesso espone (certi “piedi” che egli non ha più: l’argomentata “azzoppatura” di rito) e si prepara in lui un successivo stadio evolutivo:

«Non tardai però a riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l’orientamento dei futurismo si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell’istinto curiosamente mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo. A quest’ultimo riguardo la divergenza mi apparve netta allo scoppio della prima guerra mondiale, a causa della violenta campagna interventista svolta sia dai futuristi che dal gruppo di Lacerba. Per me era inconcepibile che tutti costoro, con alla testa l’iconoclasta Papini, sposassero a cuor leggero i più vieti luoghi comuni patriottardi della propaganda antigermanica, credendo sul serio che si trattasse di una guerra per la difesa della civiltà e della libertà contro il barbaro e l’aggressore»

(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 8.)

A questa prima fase, definita dallo stesso Evola idealismo sensoriale, appartengono le opere: Fucina, studio di rumori (1917 ca.), Five o’clock tea (1918 ca.) e Mazzo di fiori (1917-18)13.

  1. La stella del Nord

E qui comincia a delinearsi la sintomomatologia dell’argomentata “azzoppatura” alchemica per fasi, con l’avvento della prima guerra mondiale.

Frequenta a Torino un corso per allievi ufficiali e partecipa alla Prima guerra mondiale come ufficiale di artiglieria sull’altopiano di Asiago dal 1917 al 1918.

Intanto già si delinea una prima sofferenza in lui con lo solfo e mercurio alchemico (la salamandra e la remora) che si azzuffavano dilaniandosi.

Questi due principi “abitano” il vaso alchemico e la lebbra che affligge la Materia Prima, più che identificarsi con il fisso o con il volatile, col corpo o con lo Spirito, risiede nella loro mancata integrazione, nella loro separazione. L’alchimista, quindi, non potendo rinunciare né all’uno né all’altro, deve riuscire ad amalgamare e fondere insieme Spirito e Corpo, realizzando la conciliatio oppositorum. Gli opposti devono prima lottare divorarsi ed uccidersi a vicenda perché la loro unione possa realizzarsi. Questa operazione ha due aspetti, quello del costringere la terra corporea e pesante ad elevarsi verso le regioni dello Spirito e quello consistente nell’obbligare lo Spirito ad abbandonare i “cieli filosofici”, ove può spaziare liberamente, costringendolo a discendere nelle regioni più pesanti e condizionate dai vincoli terrestri perché possa vivificare rivitalizzare e “rendere consapevole” il corpo. Questo potrebbe spiegare la “lotta” dei due gemelli romani, Romolo e Remo per dar origine a Roma, e finì, come si sa, con la morte di Remo. Tuttavia l’alchimia potrebbe far supporre che Remo non “morì” ma si unì per sempre col fratello spiritualmente. Ecco il lato divino di “Romolo” che, “unito a Remo”, lo fa intravedere come un vero e proprio “Rebis”, ma è anche la presa di coscienza del come va vista la definizione di Roma Città Eterna.

Nel caso di Evola in esame, prima interrotto, i due principi in opposizione sono, da un lato la posizione nettamente filo germanica – particolarmente affascinato dai grandi imperi come quello austro-ungarico e dall’idea di un ritorno ai valori tradizionali che esso rappresentava, e dall’altro lato, la decisione di diventare ufficiale dell’esercito italiano, dovette corromperlo nella sua interiorità. Alchemicamente, per conseguenza dovette influire su un’“azzoppatura” di “riflesso” che l’anticipò con una grave implosione in lui non tanto avvertita.

Si tratta di un famoso episodio legato ad una grande tragedia dell’esito della prima Grande Guerra che nessuno racconta in questa circostanza, ma è posta comunque in memoria con la sua foto scattata sul monte Cimone di Tonezza (illustr. 3).

Illustrazione 3: L’ufficiale di artiglieria Julius Evola sul Monte Cimone di Tonezza.

Oggi, visitando questa vetta si legge: Sepolti da mina nemica qui dormono mille figli d’Italia – monte Cimone (m.1226) a Tonezza del Cimone.

Come tutte le montagne dell’altopiano e dei gruppi limitrofi, il Cimone costituì l’ultimo baluardo contro l’avanzamento delle truppe austriache durante la spedizione della primavera 1916, la Strafexpedition.

Il 23 settembre 1916 alle ore 5.45 gli austriaci con una mina di 14.200 kg. d’esplosivo fecero saltare la vetta. La cima del Cimone scomparve e con essa le truppe della Brigata Sele, della 136 Compagnia Zappatori del 63o Battaglione del Genio, composta da 10 ufficiali e 1118 soldati.

Ma Julius Evola fu lì quando tutta la tragedia si era consumata, nondimeno, come supposto, dovette coglierne in qualche modo il riflesso in lui, cosa che, poi, in seguito, molti anni dopo, sperimentò a sue spese vittima di un altro tremendo scoppio di un bomba a Vienna…

Intanto accanto a Evola, baldo ufficiale di Artiglieria della foto, una scala, forse dovette servire come segno emblematico per la scalata di chissà quale “vetta”… o quale “cielo” come quella biblica scala di Giacobbe del suo sogno?…

Tuttavia la memoria della tragedia del Cimone, che valse come una certa “Caporetto” della Grande Guerra, venne posta per iscritto da Ekatlos nel libro già citato, del libro del Gruppo di UR (perché non venisse dimenticata, così come dice Kremmerz: cfr. 10):

«1917. Vicende varie. E poi il crollo: Caporetto.».

Come si può capire questo episodio, riportato con poche scarne parole, simile ad uno dei soliti « casi », nello strano circolo “ombrato” del Rebis in gestazione, non deve benché pesare, se non per la storia ordinaria. E così il Rebis atteso nasce, racchiuso nella descrizione (un certo uovo filosofale) che segue «1917. Vicende varie. E poi il crollo: Caporetto », poc’anzi detto:

« Un’alba. Sul cielo tersissimo di Roma, sopra il sacro capitolino, la visione di un’Aquila; e poi, portati dal suo volo trionfale, due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri. Un senso di grandezza, di resurrezione, di luce. In pieno sgomento per le luttuose notizie della grande guerra, questa apparizione ci parlò la parola attesa: un trionfale annuncio era già segnato negli italici fasti. ».

Intanto ci fu veramente in lui un’esplosione che poteva farlo morire rientrando a Roma dopo il conflitto. Infatti egli attraversa una profonda crisi esistenziale che lo porta al bordo del suicidio, come egli stesso riporta ne “Il cammino del Cinabro”:

« Questa soluzione […] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi »

(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.)

Il passo cui si riferisce Evola è il seguente:

«Chi prende l’estinzione come estinzione e, presa l’estinzione come estinzione, pensa all’estinzione, pensa sull’estinzione, pensa “Mia è l’estinzione” e si rallegra dell’estinzione, costui, io dico, non conosce l’estinzione »14.

Ma quale fu la Stella del Nord che lo trasse in salvo elevandolo ad un nuovo stadio evolutivo in relazione al processo alchemico da tempo avviato in lui? È facile dirlo e con molta semplicità: fu la visione “buddica” che in Evola rimase impressa a suo modo. In realtà, esaminando tutto il panteon del corredo genetico alchemico, fino a quel momento, legato all’interiorità di Evola c’era comunque quello permeato durante il soggiorno nel “Roseto dei Filosofi” al contatto con amici d’arte tutti con certi libri di esoterismo fra le mani. Tutto questo restava latente in Evola, ma lui non lo ravvisava nemmeno ritenendolo come conoscenza culturale. Uno di questi era l’Antroposofia di Rudolf Steiner15, la cui filosofia era decisamente favorevole al cristianesimo, naturalmente esoterico, ma c’è di più per far luce sulla relazione del bodisatva Budda con la nascita di Gesù di Betlemme, il futuro Redentore.

Questo lato particolare dell’Antroposofia forse doveva essere poco noto a Evola (altrimenti da buon filosofo vi avrebbe fatto riflessione) ma fu tale da far balenare comunque in Evola un certo “cristianesimo” (una sorta di sotterranea iniziazione), cui egli però riesce a tener lontano, rifiutandolo, ma vediamo di che si tratta.

  1. La leggenda della lepre e il sacrificio di Budda

Il Tutto del buddismo, cioè il sentimento dell’amore e della compassione, che poi vedremo si lega indissolubilmente al cristianesimo, portatore della forza dell’amore, la “spada(Matteo 10,32-36), si connette al cosiddetto “corpo buddico16 contemplato nelle diverse culture esoteriche e vedremo perché. Il modo semplice per immaginare come si sia disposta l’azione del bodisatva Budda nel genere umano al suo nascere, può essere immaginata attraverso una leggenda sul suo conto, cioè del come influì l’azione di compassione che il suo spirito promanava nell’anima umana attanagliata dall’egoismo.

« Queste cose generalmente – dice Rudolf Steiner commentando il vangelo di Luca – non sono ancora riconosciute dalla scienza esteriore. Spesso però fiabe infantili e leggende vi alludono. […] L’anima umana ha sempre sentito, nel suo profondo, l’importanza del fatto che prima qualcosa fluisce dall’alto, che poi diventa possesso dell’anima umana, e che da questa irraggia nuovamente nello spazio universale. […] Questa verità sul bodisatva, nei paesi in cui egli visse, si espresse in una strana leggenda:

Un tempo il Budda visse in forma di lepre; il quel tempo tutti gli altri esseri viventi cercavano alimenti; ma ogni alimento era esaurito. I vegetali, che per la lepre rappresentavano il nutrimento adeguato, non servivano a tutti gli altri che erano carnivori; allora la lepre (che era in realtà Budda) vedendo un bramino, decise di sacrificarsi e di offrirsi come alimento. In quell’istante giunse il dio Sakra che vide il sacrificio della lepre, Nel monte si formò allora una fenditura che accolse in sé la lepre. Poi il dio Sakra prese una tintura e dipinse sulla Luna l’immagine della lepre.  Da allora in poi, sulla Luna si può vedere l’immagine del Budda in forma di lepre. (In Occidente si usa parlare invece di un uomo che si vede sulla Luna).

Ciò è narrato ancora più chiaramente in una leggenda calmucca: nella Luna dimora una lepre che giunse una volta lassù, perché il Budda si sacrificò e lo spirito stesso della Terra disegnò sulla Luna l’immagine della lepre. Così viene espressa l’alta verità del bodisatva che diventò Budda, e del sacrificio del Budda che consiste nell’aver dato all’umanità, come alimento, quello che prima era il proprio contenuto. In tal modo questo contenuto può irraggiarsi ora nel mondo movendo dai cuori degli uomini. »17.

Ecco, finalmente il nesso fondamentale sulla reale consistenza del simbolo della lepre costituitasi nel tempo nella mente umana, al punto farla imprimere anzitempo come “segno” sulla sfera terrestre, fra il genere umano, è fu la venuta del Redentore.

  1. L’apparizione buddica a Evola fu come quella ai pastori di Betlemme

« Il vangelo di Luca ‒ dice Rudolf Steiner commentando  questo vangelo (pp. 28 e 44) ‒, in un suo passo mirabile, ci narra che ai pastori nei campi apparve un angelo, il quale annunziò la nascita del Redentore del mondo; e dopo che l’angelo ebbe dato il suo annunzio, ecco associarsi a lui una moltitudine delle schiere celesti. Pensiamo dunque i pastori che guardano in alto e hanno la visione del cielo aperto e delle entità del mondo spirituale che si manifestano a loro in possenti immagini. […]

Che cosa è questa moltitudine celeste?

La moltitudine che appare in immagine ai pastori è il Budda glorificato, è bodisatva degli antichi tempi; la figura spirituale che appare ai pastori è l’essere che, per millenni e millenni, aveva portato agli uomini il messaggio dell’amore e della compassione. Dopo la sua ultima incarnazione sulla terra, quell’essere spirituale si librava nelle altezze spirituali, e apparve in cielo ai pastori accanto all’angelo che annunciava loro l’evento di Palestina.

Questo c’insegna l’indagine spirituale. Essa ci mostra aleggiante sui pastori, il bodisatva degli antichi tempi, glorificato. La cronaca dell’Akasha ci dice che in Palestina, nella città di Davide, nacque un bambino da una coppia che discendeva dal ramo sacerdotale della casa di Davide. Questo bambino che, si noti bene, almeno dal ramo paterno discendeva dalla linea sacerdotale della casa di Davide, era prescelto ad accogliere in sé, fin dalla nascita, la luce e la forza che il Budda irraggiava dopo essere innalzato alle altezze dello spirito. Se dunque, insieme ai pastori, contempleremo il presepio dove nacque Gesù di Nazaret (come usualmente si chiama), e guarderemo all’aureola di gloria che si irraggia sul bambino, noi sapremo che in quell’immagine si esprime la forza la forza del bodisatva diventato Budda; la forza che prima era fluita nell’umanità e che ora agiva su di essa da altezze spirituali; la forza che esercitò la sua massima azione quando s’irraggiò sul bambino di Betlemme, affinché esso potesse prendere il giusto posto nell’evoluzione dell’umanità. »18.

A questo punto che implicazione può derivarne in stretta relazione profonda crisi esistenziale che porta Julius Evola al bordo del suicidio? Come egli stesso riporta ne “Il cammino del Cinabro”, e che in seguito dice:

«Questa soluzione […] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi » (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.).

Fu la forza della compassione e dell’amore di Budda, ma non da solo, perché a quel momento era saldamente legata alla forza della amore del Cristo, la spada (Matteo 10,32-36), suo tramite, dal quale poteva agire in coloro che per generazioni professavano la fede cattolica. Questa è la versione delle concezioni antroposofiche di Rudolf Steiner.

Se poi a questa “forza”, che Evola ebbe in sé in modo provvidenziale, si aggiunge l’agio ad ospitarla in virtù dei suoi genitori cattolici19, allora non è da sottovalutare che essa, in modo latente, sia potuta restare attiva per poi emergere, chissà in qualche occasione favorevole…

D’altronde al cfr. 18 viene detto per bocca di Rudolf Steiner:

« La cronaca dell’Akasha ci dice che in Palestina, nella città di Davide, nacque un bambino da una coppia che discendeva dal ramo sacerdotale della casa di Davide. Questo bambino che, si noti bene, almeno dal ramo paterno discendeva dalla linea sacerdotale della casa di Davide, era prescelto ad accogliere in sé, fin dalla nascita, la luce e la forza che il Budda irraggiava dopo essere innalzato alle altezze dello spirito. Se dunque, insieme ai pastori, contempleremo il presepio dove nacque Gesù di Nazaret (come usualmente si chiama), e guarderemo all’aureola di gloria che si irraggia sul bambino, noi sapremo che in quell’immagine si esprime la forza la forza del bodisatva diventato Budda; la forza che prima era fluita nell’umanità e che ora agiva su di essa da altezze spirituali; la forza che esercitò la sua massima azione quando s’irraggiò sul bambino di Betlemme, affinché esso potesse prendere il giusto posto nell’evoluzione dell’umanità. ».

Dunque non può essere che anche Julius Evola “sia stato prescelto” per chissà quale destino guidato dalla stella del Nord di un certo filone esoterico buddico? Ed è una prospettiva che potrà emergere nei prossimi capitoli grazie all’indagine sulla misteriosa donna che Evola definisce “appartenente al suo fedele guardia del corpo”, citata in precedenza. Per farvi luce è possibile fare delle osservazioni da una finestra storica, l’unica di cui si dispone, un’emblematica lettera che, il 20 gennaio 1972, Evola invia a Tommaso Palamidessi, un noto astrologo romano col quale si era incontrato in precedenza.

« Nelle contrade “occulte’’ dell’Italia contemporanea si sono incrociati personaggi originali, talora estremamente distanti in termini di formazione culturale, di personalità e di ruolo svolto nel tessuto della cultura italiana. Tra questi singolari incontri, non sempre pacifici, vorremmo prendere in esame quello avvenuto tra Julius Evola e Tommaso Palamidessi, noto soprattutto per aver fondato, nel 1968, l’associazione cristiano-esoterica Archeosofica, tuttora attiva. Grazie all’analisi dei rapporti tra Evola e Palamidessi, è possibile non solo ricavare un profilo biografico ed intellettuale più netto di entrambi, ma anche estrapolare lo schema di un dialogo, talora spigoloso, avvenuto tra diversi orientamenti della cultura esoterica italiana del Novecento. Il dibattito esoterico contemporaneo, svoltosi in luoghi poco frequentati dalla critica storica, è ancora poco conosciuto. »20.

Ma si tratta anche di uno “schema di un dialogo” concepito da uno scrittore sotto il profilo storico, il noto prof Francesco Baroni di cui parlerò in seguito, che però non trova modo di coincidere con quello che deriva dal processo alchemico che vi attiene. È cosa acquisita, giusto in relazione allo scritto di Ekatlos del Gruppo di UR, Ekatlos, in LA « GRANDE ORMA »: LA SCENA E LE QUINTE del libro, INTRODUZIONE alla MAGIA (vedasi capitolo 3), in cui vengono minimizzati i fatti storici come « casi » addirittura “insignificanti”. Ma questo si allinea alla « legge del caso » di Hans Jean Arp del dadaismo, di cui si innamorò il primo Julius Evola storico, cosa già rilevata. E allora conta ipotizzare la situazione del processo alchemico in relazione all’ormai noto “Roseto dei Filosofi” in cui interagiscono le varie “piante” alchemiche per dar luogo poi alla nascita del Rebis filosofico, presumibilmente l’IO di Julius Evola da individuare. Ma sappiamo che la “terra” in cui dovrà germinare il Rebis è fuori portata del “Roseto dei filosofi” (ovviamente quello al momento coincidente alla data della lettera, cioè 20 gennaio 1972) e per via alchemica si può sorvegliare il procedere di questa nascita, poiché la “culla” mercuriale che vi attiene, a detta di Fulcanelli, rivela la cosiddetta Stella del Nord. Se ne è parlato ampiamente nel mio studio ALCHIMIA DELLA “LEGGE DEL CASO” IN “MAZZO DI FIORI” DI JULIUS EVOLA annotato sul mio blog (cfr. 11). E procedendo per questa strada si può immaginare che la preziosa “terra”, o “culla” mercuriale, risieda proprio nella misteriosa donna “appartenente al corpo di guardia” di Julius Evola, ed è come dire bingo! Ecco una solida ragione, però “velata”, come si vedrà, che indusse Evola a chiedere all’astrologo Palamidessi l’oroscopo natale di “lei”. Però quale “rospo” dovette ingoiare Evola nel mettersi nelle sue mani per ottenere questa notizia che poteva rassicurarlo interiormente, possiamo immaginarlo sin da ora sapendo che l’esoterismo di Palamidessi era chiaramente allineato al cristianesimo, mentre lui vi era notoriamente avverso, a parte altre cose, come si vedrà! Ecco la presumibile lotta acerba fra la sua infuocata salamandra e fredda remora dell’altro, che preludeva quella lettera!

A questo punto, prima di entrare nel merito della fondamentale lettera del 20 gennaio 1972, per poter fare le opportune riflessioni, resta da illuminare a giorno la visione esoterica della donna “appartenente al corpo di guardia” di Julius Evola.

 

NOTE

10 Fonte: La scienza dei Magi di Giuliano Kremmerz, pag. 56, vol. III. Ediz. Mediterranee)

11 Fonte: natività romana

12 Cfr. V. Conte, Evola e l’arte-poesia, in AA.VV., Julius Evola e la sua eredità culturale, Edizioni Mediterranee, Roma 2017.

13  filosofico.net

14  Ibidem cfr. 10

15  Rudolf Joseph Lorenz Steiner (Murakirály, 25/27 febbraio 1861 – Dornach, 30 marzo 1925) è stato un esoterista e teosofo austriaco.

     È stato il fondatore dell’antroposofia, dottrina di derivazione teosofica che concepisce la realtà universale come una manifestazione spirituale in continua evoluzione, che può essere osservata e compresa mediante l'”osservazione animica” (una sorta di chiaroveggenza) e che può essere studiata, assieme al mondo fisico, con un approccio (a suo dire) scientifico (mediante la cosiddetta “scienza dello spirito” o antroposofia).

16  Secondo la teosofia l’essere umano è costituito da sette corpi differenti la cui sostanza, la cui composizione atomica, è diversa per ogni corpo. Il corpo fisico, il solo visibile durante la vita terrena – eccetto per i “sensitivi” che percepiscono anche gli altri – è animato da un secondo corpo: il doppio eterico che lo compenetra essendo una sostanza più sottile della materia fisica. Questo doppio eterico sarebbe in qualche modo la sede della forza vitale. Avremmo inoltre un corpo “astrale”, centro della sensibilità fisica e psichica, più sottile ancora del doppio eterico e che pervade il doppio come fa con il corpo fisico. Il “doppio” degli esperimenti di esteriorizzazione della sensibilità e dello sdoppiamento post-letargico mi sembra essere identificato con il corpo eterico e quello astrale della teosofia. In seguito vengono, secondo un ordine di progressiva sottigliezza, il corpo mentale, sede dell’intelletto; il corpo causale, centro della coscienza psicologica; poi i corpi “budhi” [il corpo buddico – N.d.A.] e “atma”, ancora poco sviluppati nell’uomo attuale, e che racchiudono uno stato latente delle potenzialità superiori. (Magnetismo, ipnotismo e suggestione di P. G. Jagot – Books Google Play).

17  Rudolf Steiner, Il vangelo di Luca, pp. 62-63. Editrice Antroposofica.

18  Rudolf Steiner, Il vangelo di Luca, pp. 62-63. Editrice Antroposofica.

19  Da una ricerca a questo link: “Julius (Giulio Cesare Andrea) Evola nacque a Roma il 19 maggio 1898 da Vincenzo e da Concetta Frangipane, in una famiglia aristocratica e cattolica, di lontana ascendenza spagnola”. Ignoro quale sia la fonte di Luca Lo Bianco che ha redatto la voce e che sembra proprio riferirsi alla famiglia paterna di Evola.[www.treccani.it] Andreas de Florentia –  venerdì 28 novembre 2008, 3:21 – Località: Faesulae

20 Fonte: Julius Evola e Tommaso Palamidessi. Con una lettera inedita di Julius Evola di Francesco Baroni fondazionejuliusevola: Sulle varie correnti dell’esoterismo italiano del XX secolo, il lettore potrà consultare il volume collettivo Storia d’Italia. Annali. Esoterismo, Torino: Einaudi, a cura di G. Cazzaniga, la cui pubblicazione è prevista per il 2010.

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