Creatura instabile e pericolosa, l’Occidente minaccia il mondo minacciando se stesso di distruzione. In particolare, sembra entrata in crisi una delle sue narrazioni più credute, la democrazia. Una delle classificazioni più comuni della psicologia è quella tra apocalittici e integrati. Non abbiamo il minimo dubbio di appartenere alla prima categoria, ma una notizia ci ha restituito il buonumore e un po’ di speranza. Sembra proprio che la democrazia “reale” abbia perduto molto del suo fascino, non solo agli occhi degli europei e degli occidentali che affermano di averla inventata e la esportano con la canna del fucile, sotto forma di polizia internazionale, ristabilimento della pace, lotta ai tiranni, liberazione. Molti – speriamo sia vero – non ci credono più. E’ quanto afferma un rapporto dell’Università di Cambridge, pubblicato dal Bennet Institute for Public Policy, un’istituzione operante con fondi statunitensi.
Gli studiosi britannici affermano che dopo il 2005 la popolarità della democrazia è in costante discesa. Quindici anni or sono solo il 38 per cento degli intervistati di tutto il mondo si dichiaravano insoddisfatti della democrazia; oggi, sarebbero ben il 57, 5 per cento gli abitanti del pianeta delusi dal principio, o dal metodo chiamato democrazia. La maggioranza assoluta del mondo globalizzato. Tra gli Stati che guidano il disincanto, spiccano Stati Uniti, Brasile, Messico e Nigeria. Ci guardiamo bene dall’attribuire perfezione predittiva allo studio. Civiltà, culture, religioni, popolazioni tanto diverse non possono essere interpellati sullo stesso tema senza sorprese. Inoltre, diffidiamo per principio delle statistiche anglosassoni, che tendono a generalizzare, ridurre problemi complessi a schemi semplicistici, binari, sì, no, mi piace non mi piace, il modello delle reti sociali.
Tuttavia, merita riflettere su questo dato. Iniziamo dai tempi: nel 2005 non era ancora esplosa la crisi finanziaria globale, che ha lasciato sul terreno troppe vittime per non determinare conseguenze nella percezione comune. La globalizzazione era certo già in atto, ma non aveva ancora dispiegato l’immenso potenziale di cui siamo testimoni e vittime. I popoli dell’Europa orientale, ad esempio, finivano di digerire la sbornia del dopo comunismo, ma avevano già sperimentato i guasti del liberismo e della disgregazione sociale. A milioni avevano dovuto emigrare, con devastanti conseguenze su quelle società e su quelle di destinazione.
Il potere finanziario, da allora, ha guadagnato ulteriore terreno: le grandi banche sono “troppo grandi per fallire” e i costi sono stati addebitati ai popoli, attraverso i bilanci degli Stati. La dominazione attraverso la creazione monetaria, l’inganno del debito, la morsa del mercato misura di tutte le cose e ora della tecnologia diventata biopotere, non ha cessato di schiacciare i popoli. I governi, gli Stati nazionali non hanno mai contato così poco. Gli unici poteri che restano loro sono i più indigesti: impongono tasse sempre maggiori in cambio di quasi nulla- sanità, scuola, protezione sociale ai minimi – e gestiscono l’ordine pubblico senza assicurare giustizia, sicurezza, imparzialità. Il dissenso è represso in maniera sempre meno soft. Non si può in alcun modo contestare il modello sociale, politico, economico, finanziario e culturale dominante, che si afferma unico, naturale, privo di alternative.
Gli strumenti di partecipazione popolare alle grandi decisioni sono esauriti o pressoché impossibili da concretizzare. Trionfa su tutta la linea la libertà dei moderni, teorizzata due secoli fa da Benjamin Constant. Liberazione dai vincoli, preferenza assoluta della dimensione privata, con il suo precipitato di indifferenza per il bene comune, egoismo, disinteresse per la cosa pubblica. La libertà e la democrazia degli antichi, al contrario, era soprattutto partecipazione, esercizio di responsabilità e decisione. Pessime cose, dal punto dei padroni del vapore. La democrazia, dunque, si è ridotta sempre più a vuota procedura, formalità, gioco di ruolo, circo equestre in cui si combattono non idee o progetti, ma gli interessi più potenti, industriali, finanziari, tecnologici. La politica scade ad amministrazione, il governo diventa governance, gestione.
Si finisce per dare ragione al vecchio Rousseau, allorché avvertiva che la democrazia rappresentativa e la sovranità popolare, vanto e fiore all’occhiello dei popoli d’occidente, funziona per un solo giorno ogni quattro o cinque anni.
Nel momento delle elezioni, il popolo esercita un fugace potere di scelta di rappresentanti, ai quali cede immediatamente le sue prerogative. Addio partecipazione, addio alla volontà generale, qualunque cosa voglia dire.
Per di più, pur essendo evidente l’impossibilità di fuoriuscire da forme di rappresentanza, e che il potere sarà sempre in mano a oligarchie, i sistemi democratici si impegnano con successo a negare se stessi. L’ingegneria politica applicata alle tecniche elettorali fa sì che vinca non la maggioranza, ma la minoranza meglio organizzata, che significa inevitabilmente la più ricca. Il potere del denaro svuota la democrazia, scriveva Giano Accame.
Oggi in nessun grande Stato occidentale è al potere chi rappresenta la maggioranza aritmetica non dei cittadini, ma dei votanti, che diminuiscono a ogni tornata. Donald Trump è stato eletto da circa il 25 per cento degli americani, la metà dei quali non si è recata a votare. Il recente, largo successo di Boris Johnson in Gran Bretagna è legato al sistema maggioritario inglese. Il partito conservatore ha ottenuto meno del 44 per cento dei voti, con un terzo dei britannici lontano dai seggi. Lo stesso in Francia e in Italia, dove è macroscopica la distanza dei partiti di governo dal sentire maggioritario dei cittadini. Incredibile il caso della Spagna: il governo è al potere nonostante non abbia conseguito la maggioranza parlamentare. Si regge sull’astensione di movimenti diversissimi e opposti. I due partiti di governo, i socialisti e i neo comunisti di Podemos non hanno che il 40 per cento dei voti; un terzo abbondante dei cittadini non ha votato.
Persino Norberto Bobbio, dopo una vita di studi e dopo aver importato in Italia il positivismo giuridico di Hans Kelsen, ovvero la norma elevata a puro potere, ha dovuto ammettere che la democrazia è una procedura. Non ci si innamora delle procedure, ancor meno si è disposti a dare la vita per esse. Di più: quando ci si accorge che le carte sono truccate e la nostra volontà conta meno di niente, si cercano altre forme per far sentire la propria voce. Grottesca è la realtà americana, il paese che si considera il leader della democrazia, investito del destino manifesto di imporla a tutti i popoli dell’orbe terracqueo. Molti ricorderanno che George Bush jr fu dichiarato presidente nel 2004 solo dopo settimane di lotte sanguinose- e certamente di imbrogli da una parte e dall’altra, relative al conteggio dei voti in Florida. Il più potente Stato del mondo non fu capace di stabilire quanti voti avessero ottenuto non cento candidati, ma due.
Addirittura comico, se non risultasse l’evidenza di un inganno generalizzato, è il recentissimo caso delle elezioni primarie nello stato dello Iowa. Hanno votato 170 mila elettori in tutto, iscritti alle liste del Partito Democratico in base alle leggi locali. Non è chiaro quanti voti abbiano riportato i vari aspiranti alla nomina di candidato presidenziale. Ci vuole tempo, tanto tempo, molto di più di quello che occorre per decidere un bombardamento con missili “intelligenti” diretti da remoto, o l’assassinio di un dignitario straniero. I candidati vincenti saranno comunque quelli in grado di raccogliere i finanziamenti più cospicui. Per arrivare alla Casa Bianca serve qualche miliardo di dollari. Dobbiamo spiegare da dove arrivano cifre tanto elevate e che cosa comporta il sostegno dei signori del denaro?
Eppure il gioco funziona e lo chiamano democrazia. E’ un’ottima notizia che siano sempre meno a crederci. I ricercatori di Cambridge, “sinceri democratici” sono inquieti. Soprattutto si preoccupano del disincanto americano. Gli Stati Uniti non sono più “la città splendente sulla collina”, portatori di una perfezione quasi ontologica. Stupisce che ai soloni detentori di prestigiose cattedre universitarie ci sia voluto uno studio scientifico per prendere atto con sgomento di ciò che è sotto gli occhi di chiunque viva e vesta panni. Viviamo in un sistema Zombie, rinserrato nella convinzione “scientifica” (o a-scientifica?) che le élite hanno della propria superiorità. Scambiano un simulacro per la realtà, una procedura per un principio universale. Fingono di crederci, il problema che ci credono sempre meno i sudditi, per i quali è stato creato il sistema. Ha ragione Massimo Fini, descrivendo ruvidamente la democrazia odierna come il regime in cui il popolo lo prende nel … con il suo consenso.
Eterotelia, cioè fini opposti a quelli dichiarati e originari. Questa è la democrazia postmoderna. Scriveva un intellettuale francese della prima metà del XX secolo, Jacques Barzun, a lungo prestigioso docente negli Usa: “Se ce n’era uno, l’obiettivo della guerra rivoluzionaria americana era reazionario: il ritorno ai bei vecchi tempi! I contribuenti, i funzionari eletti e i commercianti, i proprietari volevano un ritorno alle condizioni esistenti prima dell’istituzione della nuova politica inglese. I riferimenti erano i diritti classici e immemorabili degli inglesi: autogoverno attraverso rappresentanti e tasse garantite da assemblee locali e non arbitrariamente stabilite dal re. Non furono proclamate nuove idee che suggerissero un cambiamento nelle forme e nelle strutture del potere – il segno delle rivoluzioni. Il linguaggio della Dichiarazione di Indipendenza è quello di protesta contro l’abuso di potere e non quello di una proposta di rifondazione del governo su nuovi principi. “
Il 2005 segna l’inizio della recessione democratica globale. Negli Usa, dopo la seconda guerra mondiale, solo un quarto degli americani non si sentiva in sintonia con le istituzioni. Oggi la percentuale è del 55 per cento. La maggioranza dei cittadini della democrazia più grande, più ricca, più potente, non la pensa come il potere, come l’apparato culturale, la comunicazione, l’enorme struttura riservata di dominio del deep State, servizi segreti, sistema militare industriale, giganti tecnologici di Silicon Valley. Il problema è serio. Innanzitutto, una democrazia sana richiede che la maggioranza dei cittadini creda in elezioni eque e ritenga che la politica offra soluzioni ai suoi problemi. Controllo ed equilibrio, istituzioni di garanzia, stato di diritto, rispetto per i diritti delle minoranze. Se questa fiducia si perde, vince la fazione, la lotta di tutti contro tutti per dominare gli avversari a tutti i costi, con ogni mezzo.
Qualcuno lo chiama tribalismo, ma è il contrario: è il dominio di oligarchie padrone di tutto. La lotta politica si riduce ad una guerra spietata tra gruppi contrapposti di potere, per i quali i cittadini non sono che clienti, target da conquistare con operazioni di marketing pubblicitario, slogan suggestivi ma privi di contenuto. A parità di mezzi – a disposizione solo di chi è già inserito nei meccanismi del potere- vince chi conduce la più efficace campagna pubblicitaria. Rousseau viene superato: il popolo conta solo nell’attimo in cui pensa “mi piace”. Gioco finito, anzi game over.
Poiché l’America è stata costruita da immigrati, il suo successo si è fondato sull’ottimismo e su un idealismo fatto di integrazione ed assimilazione del modello dominante. Dopo la crisi finanziaria del 2008, tutto questo ha cominciato a cambiare, tutti i sistemi politici si sono deteriorati, tra agenzie di rating, debito sovrano, distruzione delle classi medie, polarizzazione della ricchezza e quindi del potere. Nel bene e soprattutto nel male, l’America è il modello di riferimento della nostra parte di mondo. Che cosa succederà quando la maggioranza dei cittadini della prima democrazia del mondo, la più grande economia e l’esercito più potente, perderà la fede nelle sua fondamenta? Forse è già accaduto e il sistema tiene attraverso l’imposizione, l’incapacità di progettare alternative, l’immensa macchina organizzativa, propagandistica, tecnica di cui dispone.
Quando il vento cambierà per davvero, forse potremo tentare una rivoluzione democratica, nel senso della partecipazione dei popoli al loro destino. Sino ad allora, vivremo sotto una tirannide rivestita degli abiti ingrigiti della democrazia formale. Paradiso e tomba dei popoli, il suo successo dipende dalle differenze che nega. L’istinto dei popoli sta comprendendo che i regimi democratici sono quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera sovranità sta in forze irresponsabili e riservate. Vale la pena sorridere dinanzi a una riflessione dell’economista Harvey Liebenstein: la democrazia è il principio di non minoranza.
Per Jean Baudrillard la vera apocalisse non era la fine del mondo fisica, materiale, ma l’unificazione in quello che lui chiamava “il mondo”, ovvero il globalismo che ha realizzato il simulacro definitivo, il “crimine perfetto”, la fine negando che sia tale, nell’illusione che tutto continui. Comandano da remoto, da Matrix. Non hanno quasi più bisogno della nostra democratica approvazione. Quasi…
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