L’esame dei diari dei protagonisti dell’avventura fascista tra il 1919 e il 1922 consente un approccio diverso ad uno dei più noti miti “in negativo” della recente storia italiana
di Giacinto Reale
Il recente, rinnovato successo anche dell’ultimo libro di Gianpaolo Pansa, basato in gran parte su racconti di prima mano o testimonianze dirette dei parenti delle vittime dei giorni della “liberazione”, ha riproposto – con le sdegnate reazioni di qualche accademico di professione – il discorso sull’attendibilità e sul valore dei contributi orali e della memorialistica per la ricostruzione di eventi storici.
Forte è, infatti, il dubbio che nel “testimone”, soprattutto se abbia ricoperto un ruolo di primo piano anche nelle vicende successive rispetto a quelle di cui parla, prevalga la tentazione di abbellire o drammatizzare il resoconto dei fatti, a seconda che lo abbiano visto “eroe” o vittima.
Di contro, appaiono più sinceri i contributi dei “gregari della storia”, ai quali si possono piuttosto addebitare imprecisioni derivanti, in genere, dalla scarsa conoscenza del più generale contesto nel quale la loro stessa azione si svolgeva.
La testimonianza che costoro ci offrono, sembra, peraltro, più probante per ricostruire stati d’animo, sentimenti, intenzioni che li animarono, speso meglio di ciò che potrebbe far pensare la sola realtà dei fatti così come si svolsero o le conseguenze che la loro azione provocò.
Ecco perché l’indagine condotta su tale tipo di testimonianze risulta particolarmente utile per la conoscenza e la valutazione di momenti di storia nei quali l’iniziativa di minoranze, più o meno consistenti, abbia fatto da innesco per l’esplodere di situazioni che, se hanno rappresentato una netta cesura rispetto a ciò che c’era prima, spesso hanno anche visto il successivo travisamento delle speranze di chi si adoperò a crearle, in nome di qualcosa che “avrebbe dovuto essere e non è stato”.
Non è un caso che tali momenti di solito coincidano con quelli nei quali sono stati i giovani a cimentarsi con realtà contingenti di eccezione: i volontari del Risorgimento, gli squadristi del quadriennio 1919-22, i combattenti – nella loro parte migliore – della Resistenza.
Tra i tre esempi sopra indicati, l’esperienza dello squadrismo è l’unica ad essere stata vittima di un duplice pregiudizio: assolutamente positivo durante il “ventennio”, allorché la qualifica di “squadrista” ambiva indicare un tipo umano diverso e migliore (e aiutava ad “aprire” molte strade), e negativa “senza se e senza ma”, nel dopoguerra, quando, invece, ai rivoluzionari in camicia nera sono state addebitate nefandezze di vario genere, attuate in un crescendo di ingiustificata violenza, motivata, non di rado, con il ricorso a patologie caratteriali.
Solo di recente, studiosi più attenti, come Mario Isnenghi, hanno rilevato l’opportunità di: “…andare oltre il ruolo d’ordine ricoperto alla fin fine dai fascisti, muovendosi in quella fase aurorale in cui essi possono viversi invece come protagonisti di un’azione diretta, innovatori radicali, militi di un ideale, ultima espressione di un volontariato insito nella migliore storia nazionale; e – dal garibaldinismo all’interventismo – sempre agli estremi confini della legalità, e disponibile a prendere le armi contro i “nemici interni” e le maggioranze torpide”. (1)
Su tale strada il percorso è ancora tutto da costruire, e, per iniziare, sarebbe estremamente utile un’indagine sui giornali e giornaletti della galassia squadrista, da quelli più noti come “L’Assalto” di Bologna, fino a quelli minori, a tiratura e diffusione limitata e locale, ma comunque spesso partecipi di un dibattito politico e culturale che cercava di superare la dura, contingente realtà fatta di violenze subite ed imposte. (2)
Tale indagine potrebbe riservare sorprese per la vulgata corrente, e soprattutto confermare che, pur nella crudezza dei tempi, due erano i valori di riferimento essenziali che sempre ebbe l’azione squadrista: la Nazione intesa come realtà da (ri)costruire nella tradizione mazziniana e garibaldina, dopo le offese patite all’esterno (vittoria mutilata) e all’interno (sovversivismo antinazionale dei neutralisti di ieri, oggi ispirati dall’esempio sovietico) e il Popolo, inteso come comunità da (ri)fondare, con uno spirito non alieno, talvolta, come è stato detto, da “volontà redentrice da missionari in terra di colonia”.
Nell’attesa, per chi si interessi a quel particolare fenomeno squadrista, al quale – come rilevato da Isnenghi – va ormai riconosciuto pieno diritto di cittadinanza nella tradizione politica italiana, e che può essere letto anche come autentico fatto “rivoluzionario” (3), sul piano dei comportamenti e dei contenuti, viene in aiuto il ricorso alle fonti memorialistiche (stante l’evidente indisponibilità, ormai di ogni contributo orale)