12 Ottobre 2024
Controstoria Storia

La Memoria e la Storia: un contributo al revisionismo? (parte prima)

L’esame dei diari dei protagonisti dell’avventura fascista tra il 1919 e il 1922 consente un approccio diverso ad uno dei più noti miti “in negativo” della recente storia italiana
di Giacinto Reale
Il recente, rinnovato successo anche dell’ultimo libro di Gianpaolo Pansa, basato in gran parte su racconti di prima mano o testimonianze dirette dei parenti delle vittime dei giorni della “liberazione”, ha riproposto – con le sdegnate reazioni di qualche accademico di professione – il discorso sull’attendibilità e sul valore dei contributi orali e della memorialistica per la ricostruzione di eventi storici.
Forte è, infatti, il dubbio che nel “testimone”, soprattutto se abbia ricoperto un ruolo di primo piano anche nelle vicende successive rispetto a quelle di cui parla, prevalga la tentazione di abbellire o drammatizzare il resoconto dei fatti, a seconda che lo abbiano visto “eroe” o vittima.

Di contro, appaiono più sinceri i contributi dei “gregari della storia”, ai quali si possono piuttosto addebitare imprecisioni derivanti, in genere, dalla scarsa conoscenza del più generale contesto nel quale la loro stessa azione si svolgeva.
La testimonianza che costoro ci offrono, sembra, peraltro, più probante per ricostruire stati d’animo, sentimenti, intenzioni che li animarono, speso meglio di ciò che potrebbe far pensare la sola realtà dei fatti così come si svolsero o le conseguenze che la loro azione provocò.
Ecco perché l’indagine condotta su tale tipo di testimonianze risulta particolarmente utile per la conoscenza e la valutazione di momenti di storia nei quali l’iniziativa di minoranze, più o meno consistenti, abbia fatto da innesco per l’esplodere di situazioni che, se hanno rappresentato una netta cesura rispetto a ciò che c’era prima, spesso hanno anche visto il successivo travisamento delle speranze di chi si adoperò a crearle, in nome di qualcosa che “avrebbe dovuto essere e non è stato”.
Non è un caso che tali momenti di solito coincidano con quelli nei quali sono stati i giovani a cimentarsi con realtà contingenti di eccezione: i volontari del Risorgimento, gli squadristi del quadriennio 1919-22, i combattenti – nella loro parte migliore – della Resistenza.
Tra i tre esempi sopra indicati, l’esperienza dello squadrismo è l’unica ad essere stata vittima di un duplice pregiudizio: assolutamente positivo durante il “ventennio”, allorché la qualifica di “squadrista” ambiva indicare un tipo umano diverso e migliore (e aiutava ad “aprire” molte strade), e negativa “senza se e senza ma”, nel dopoguerra, quando, invece, ai rivoluzionari in camicia nera sono state addebitate nefandezze di vario genere, attuate in un crescendo di ingiustificata violenza, motivata, non di rado, con il ricorso a patologie caratteriali.
Solo di recente, studiosi più attenti, come Mario Isnenghi, hanno rilevato l’opportunità di: “…andare oltre il ruolo d’ordine ricoperto alla fin fine dai fascisti, muovendosi in quella fase aurorale in cui essi possono viversi invece come protagonisti di un’azione diretta, innovatori radicali, militi di un ideale, ultima espressione di un volontariato insito nella migliore storia nazionale; e – dal garibaldinismo all’interventismo – sempre agli estremi confini della legalità, e disponibile a prendere le armi contro i “nemici interni” e le maggioranze torpide”. (1)
Su tale strada il percorso è ancora tutto da costruire, e, per iniziare, sarebbe estremamente utile un’indagine sui giornali e giornaletti della galassia squadrista, da quelli più noti come “L’Assalto” di Bologna, fino a quelli minori, a tiratura e diffusione limitata e locale, ma comunque spesso partecipi di un dibattito politico e culturale che cercava di superare la dura, contingente realtà fatta di violenze subite ed imposte. (2)
Tale indagine potrebbe riservare sorprese per la vulgata corrente, e soprattutto confermare che, pur nella crudezza dei tempi, due erano i valori di riferimento essenziali che sempre ebbe l’azione squadrista: la Nazione intesa come realtà da (ri)costruire nella tradizione mazziniana e garibaldina, dopo le offese patite all’esterno (vittoria mutilata) e all’interno (sovversivismo antinazionale dei neutralisti di ieri, oggi ispirati dall’esempio sovietico) e il Popolo, inteso come comunità da (ri)fondare, con uno spirito non alieno, talvolta, come è stato detto, da “volontà redentrice da missionari in terra di colonia”.
Nell’attesa, per chi si interessi a quel particolare fenomeno squadrista, al quale – come rilevato da Isnenghi – va ormai riconosciuto pieno diritto di cittadinanza nella tradizione politica italiana, e che può essere letto anche come autentico fatto “rivoluzionario” (3), sul piano dei comportamenti e dei contenuti, viene in aiuto il ricorso alle fonti memorialistiche (stante l’evidente indisponibilità, ormai di ogni contributo orale)

Esse risultano utili non tanto per la ricostruzione dei fatti storici in sé – peraltro già abbastanza approfonditi anche in quella dimensione “provinciale” che viene ormai riconosciuta come la migliore per parlare di “fascismo delle origini”, quanto piuttosto per la comprensione del fenomeno squadrismo come “fatto” umano, psicologico e culturale.

Ciò, a patto di evitare – anche per quanto sopra detto – ogni riferimento sia alla diaristica di personaggi destinati a ricoprire incarichi di rilievo nel regime (4), che al contributo di autori “letterariamente” riconosciuti, nei quali talora le esigenze di racconto rischiano di prevalere sulla sincerità della narrazione.(5)
Resta piuttosto da preferire il ricorso ad alcuni esempi tratti dai libri di personaggi subalterni e sostanzialmente marginali, che, pure quando sotto forma di diario seguono il cronologico svolgersi degli avvenimenti, mostrano piuttosto i toni romanzeschi dei racconti d’avventura, così come conosciuti all’epoca da adolescenti che, come si disseavevano letto troppo Salgari”.(6)
Per un primo approccio, si possono individuare tre esempi: “Diario di uno squadrista toscano” di Mario Piazzesi, Roma 1981 (pubblicato postumo, per volontà di Renzo De Felice, che ne affermò il valore come “documento di grande importanza”, ma sostanzialmente invariato nella forma in cui era stato scritto in contemporanea ai fatti); “Camions” di Adolfo Baiocchi, Milano 1932, e “Bagliori” di Emilio Santi, Milano 1930.
I tre “diari”, pur riferiti a realtà geografiche e umane diverse, presentano alcuni caratteri distintivi comuni, che non possono non confermare la sostanziale sincerità del racconto: la contrapposizione tra giovani rivoluzionari in camicia nera e vecchi borghesi in panciotto; l’assenza – pur nella dura realtà di uno scontro sanguinoso – di vero odio verso l’avversario, visto piuttosto come un “fratello” smarrito da ritrovare (7); il tono scanzonato e propenso alla beffa, con inclinazioni goliardiche, da studenti un po’ scapestrati; il forte senso di appartenenza, che si cementa nella vita di squadra e nelle “spedizioni”.
In più, il solo libro di Santi, scritto nel 1930, fa emergere, con particolare durezza, un ulteriore elemento: il senso di delusione e di profonda amarezza per come le cose erano poi andate, riproponendo comunque, anche in questo “sfogo”, un sentire comune a molti degli uomini delle (ex) squadre.
Fra i tre, quello più “vivace”, di piacevole lettura, per l’andamento del racconto e per lo stile, è sicuramente il volume di Piazzesi, che offre uno spaccato dello squadrismo fiorentino, noto per la sua “terribilità”, ma anche per la forte propensione a beffe e scherzi.(8)
Ecco, per esempio, la descrizione dell’incontro del giovane protagonista con alcuni “benpensanti” amici di famiglia:
“E’ vero che porti la rivoltella in tasca?”
“Ma come, hai anche sparato?”
Gelo per le risposte. Alcuni mi guardano un po’ di traverso. Devo apparire loro come quel brutto tipo che da tempo mi hanno catalogato. Meno male che ci sono altri tre o quattro fegatacci. Nel gruppo degli anziani si accende una viva discussione e questi parrucconi bizantineggiano se il movimento rosso sia o no legale, se all’Italia convenga questa politica di remissione di fronte all’Estero.
Il commendatore, con quella pancetta tonda sulla quale ballonzola la classica sterlina d’oro, dice che il movimento rosso è grave, ma che lui ha una salda, sì, una salda fiducia nelle patrie istituzioni (tutti sanno che ha trasferito un paio di mesi fa tutti i suoi averi nelle banche svizzere).
……
Gigi, con quella faccina da San Luigi strapazzato, mi tocca un braccio e mi dice che suo padre mi vuole parlare.
“Sì, ho da parlarti, Mario, e molto seriamente” e con un tono di voce grave, mi rivol
ge nel suo studio, una paternale filippica:
“Che era tanto che te lo volevo dire, e da quel bravo ragazzo che sei, devi farla finita di imbrancarti con quei facinorosi, e non protestare, che ti hanno visto correre verso le Cure con quegli Arditi, e che un ragazzo di buona famiglia non va in compagnia di quei tipi. E che tuo padre, scusa sai, non dovrebbe permettere che tu ti esponga e che il comune amico, il Conte Luigi, il Colonnello degli Alpini, che si vanta di andare con i suoi figli Giangiacomo e Giovanni a fare, come le chiamate? Le incursioni? E’ un vecchio pazzo e che Dio non gli debba un’amara sorpresa, ma credo che se la meriterebbe per tanta incoscienza. Perché lo sai che il Sommo Iddio vede e provvede…
E te lo dico con vero dolore, Mario, sai, anche per le ragazze è bene insomma che se non abbandoni quella compagnia, tu diradi le visite, perché (e qui rinforzò la voce) le Guardie Regie stanno nelle loro caserme, e non frequentano le nostre sale”.
Me ne vado mortificato, ormai siamo Guardie Regie, volgari prezzolati per gli uni e per gli altri. Si rompono i ponti con la cosiddetta buona società “.(9)
Dall’isolamento nasce la realtà di quella controsocietà che forma le squadre d’azione, retta da regole diverse, che non sono dettate dal ceto di appartenenza, dalla ricchezza vantata, e nemmeno dalla cultura posseduta; tale diversità è ribadita con orgoglio:
“E ci accorgiamo che questo buco (la sede della squadra ndr) fa da mescolatore, amalgama gli elementi socialmente più disparati, studenti con operai, commercianti con professionisti; unisce e smussa diaframmi tra le classi, che difficilmente in un altro modo potrebbero essere eliminati. Poi ci si tratta tutti col “tu”, come se fossero mill’anni che ci si conoscesse”.
……
“Abissi dovevano esistere, per esempio tra il “Pascià” e Francesco, che pure discutevano fitto fitto nell’angolo. Abissi morali, abissi di educazione, di ambiente; eppure la violenza fatta persona dell’uno, tozzo, sanguigno, con un sacco di nastrini sulla divisa di Ardito, che accusavano in lui il vero “homo d’arme” sembrava legare con la figurina sottile, del figlio unico, cresciuto nella bambagia e viziato dalla coccolatura del parentado.
Abissi pure tra il professore di matematica – quello che mi aveva firmato la domanda nell’ormai lontano 1920 – sempre in mezzo alle nuvole, raffinato esteta alla Oscar Wilde, e quel tanghero del tabaccaio di sotto i portici, di Beppe, lavandaio, cialtrone, che intontiva col suo vociare sguaiato”.(10)
(segue)


NOTE
(1)      Mario Isnenghi nella prefazione al volume: “Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-22”, di Giulia Albanese, Padova 2011
(2)    &nbs
p;
L’unico esempio in questo campo resta il volume “Alla conquista dello Stato: antologia della stampa fascista dal 1919 al 1925”, a cura di Stelio Solinas, Roma 1978
(3)      Se in questa fase iniziale solo di fascismo “rivoluzionario” si può e si deve parlare, anche per le fasi successive, con riferimento a quelle frange che, a vario titolo, porteranno avanti un discorso “di rottura”, collegato in modo speciale all’esperienza dello squadrismo, è da condividere l’opinione di Paolo Buchignani, che dichiara esistere: “…motivazioni sufficienti per preferire, all’espressione “fascismo di sinistra”, quella di “fascismo rivoluzionario” (adoperata, del resto, a suo tempo da coloro che vi appartennero), meno ideologizzata e forse più corretta per indicare un fenomeno così complesso e variegato”(Paolo Buchignani, “La rivoluzione in camicia nera”, Milano 2006, pag 5)
(4)      Vedasi, per esempio: Roberto Farinacci, “Squadrismo. Dal mio diario della vigilia”, Roma 1934; Italo Balbo, “Diario 1922”, Milano 1932; Raffaello Riccardi, “Pagine squadriste”, Roma sid, ma 1940
(5)      Si pensi, per esempio, al “selvaggio” Mino Maccari, al “fascista integrale” Curzio Malaparte e al “letterato squadrista” Marcello Gallian
(6)      Vale la pena di citare qualche titolo ancora reperibile nel circuito delle biblioteche antiquarie e pubbliche: Aurelio Pizzo, “Rivoluzione, squadrismo in cammino”, Roma 1932; Raffaele Vicentini, “Il movimento fascista veneto attraverso il diario di uno squadrista”, Venezia sid, ma 1934; Guido Fracastoro di Fornello, “Noi squadristi”, Verona 1939; Piero Girace, “Diario di uno sqaudrista”, Napoli 1941; Guido Strumia, “Venti su un autocarro”, Vercelli 1941; Fernando Bernabini, “Diario di uno squadrista qualunque”, Napoli sid, ma 1934
(7)      Altre volte io ero stato col fucile stretto in spalla, gli occhi e l’anima sul mirino; ma era un’altra lotta quella combattuta lassù in trincea; non faceva, come questa, sanguinare il cuore….Qui anche gli avversari erano nostri fratelli e bisognava essere armati di una grande fede per soffocare il grido di disperazione che saliva dalle viscere. Oh, come sanguinava il cuore ! Eppure bisognava andare avanti, come faceva il camion, senza fermarsi in quel triste andare” (Adolfo Baiocchi, “Camions”, Milano 1932, pag
(8)      Sulla stessa linea: Umberto Banchelli, “Le memorie di un fascista 1919-22”, Firenze 1922 e Bruno Frullini: “Squadrismo fiorentino”, Firenze 1933
(9)      Mario Piazzesi, “Diario di uno squadrista toscano”, Roma 1981, pag 107
(10)  Mario Piazzesi, op cit, pagg 85 e 130

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