Io la chiamerò Vittoria.
Modì l’avrebbe eternata in un ritratto, il lungo collo sinuoso, il triangolo smussato del volto perimetro di un incarnato diafano eppure intenso di luce emanata dall’anima, quasi un dono di grazia per di chi ne osservi l’immagine tutt’ora. Esiste una bellezza mondana fatta di curve appetitose, ostentata chirurgia di perfezione animale, ce n’è un’altra che t’ avvolge col suo intenso chiarore ed esclami stupito come S. Giovanni: Dio è luce. E’ una bellezza rarissima, quanto una perla rosa oltre il distratto vedere dell’homo tech, questo era Cristina Campo. Aveva nello sguardo anche il segno lasciato dal suo cuore malato, nido insicuro racchiuso nel suo seno, non cosa di poco conto per una bimba lasciata fuori dai banchi della scuola, dai giochi, dalle amicizie, perché no dalle birichinate, da tutto quello che noi docenti chiamiamo socializzazione. Era nata il 29 Aprile del 1923 nella Bologna nera del Sindaco neo eletto Umberto Puppini fascista ma anche del neo Cardinale G. B. Nasalli Rocca di Corneliano già arcivescovo della città felsinea. Il Resto del Carlino cambiava proprietario con l’arrivo di Tomaso Monicelli e soprattutto mutava la sua linea editoriale, il Bologna FC, quel che il mondo fa tremar, arrivò terzo nella Prima Divisione della Lega Nord nulla a che fare con Bossi e Maroni, affare assai più serio il pallone. Fu figlia unica Vittoria Guerrini ( in arte Cristina Campo ) dei coniugi Guido Guerrini musicista, figlio di uno scaltro fattore, e di Emilia Putti, una gran bella coppia, salda in amore, cementata da valori forti conditi dalle brume dell’arte. Lei respirò dense arie di antiche fiabe
Famiglia immaginifica quella materna dei Putti con radici nell’arte, nella medicina come nell’ardimento militare, quasi una saga dei Buddenbrook da narrare a puntate. Due zii materni incisi nella Storia, Emilio e Marcello Putti, bersaglieri, combattono con valore nella battaglia di Mola di Gaeta del 1860, Emilio, divenuto ufficiale, morirà in mare a Massawa, Eritrea, nel 1885, in circostanze mai chiarite. Tullio Putti, partito volontario a soli 14 anni, perde la vita per le conseguenze di una ferita riportata nella battaglia di Mentana del 1867. E poi il nonno Marcello è un luminare della scienza medica primario dell’Ospedale Maggiore di Bologna, Vittorio, fratello di Emilia, dirige l’Istituto ortopedico Rizzoli, la nonna, una Panzacchi, è imparentata coi Respighi, il bisnonno Massimiliano era stato il migliore scultore neoclassico, poi purista, della Certosa di Bologna figlio di Giovanni anch’egli valente scultore. Aneddoti, ricordi vivi o in dissolvenza, erano il pane quotidiano dei racconti che popolavano l’animo e la fantasia di quella bimba costretta ad imparare a leggere e far di conto tra le mura domestiche con “ insegnanti geniali “, un mondo fiabesco narrato nel suo unico racconto autobiografico il Pomo d’oro. A ragione della professione paterna di Maestro al Conservatorio, la sua infanzia è pellegrina, da Bologna dov’è nata, la famiglia si sposterà dapprima a Parma nel ‘25 e poi a Firenze, lei cresce minuta ma ricca di interessi affrontati con energico entusiasmo, non mancano però le fragilità di un’esistenza segnata dalla malattia. La notte non scioglie le stringhe della paura per un’apnea improvvisa, sovente in famiglia si veglia con apprensione al capezzale del suo letto. Vittoria legge tantissimo, divora la grande biblioteca paterna, si costruisce da sé una cultura, per l’età, sterminata, applicandosi nella conoscenza delle lingue originali degli autori. Appena adolescente ha divorato tutto Dante, Omero, Leopardi, Sheakespeare, la Bibbia intera più quei russi che fanno tanto soffrire ma non fanno male. Eppure immersa in questa letteratura “pesante” la sua fantasia si aggrappa alle ali delle fiabe francesi, alle Mille e una notte, i tappeti la conducono in alto, oltre mura e giardini, in un mondo leggero della stessa materia dei sogni eppur ricco di metafore, simboli, insegnamenti morali. Nella città gigliata finalmente stringe amicizia con una quasi coetanea Anna Cavallotti, giovinetta proiettata a dar corpo ai propri desideri tanto in amore come nella futura professione, entrambe fantasticano di diventare affermate scrittrici. Le bombe alleate del ’43 su Firenze colgono Anna e la mamma a Campo di Marte, il rifugio è dentro un portone, esile foglia dietro cui coprirsi, muoiono entrambe, Anna aveva soli diciotto anni. Unica vera amica tanto desiderata ed improvvisamente persa, sarà un vuoto incolmabile.
La vita di Vittoria è la metamorfosi della crisalide che si trasforma in una farfalla, processo di perfezione nei mutamenti fino alla liberazione in volo. Già il suo chiodo fisso è in questa parola in apparenza algida, distante: perfezione. Vittoria credeva nella kosmokalokagathia come legge universale di simbiosi tra bello e bene, idea dei pitagorici ancor prima che di Platone. Il bello è ovunque nel corpo come nella parola, nel pensiero come nell’azione, seguendo l’euritmia armoniosa, regolare del battito del cuore espressione del creato. “ Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? E’ un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei… regni della conoscenza e del destino “. E’una porzione scelta di un suo aforisma, spiega che il mistero della bellezza ci spinge nei cunicoli delle miniere alla ricerca della sapienza primigenia sua generatrice, processo ontologico per il quale vale spendersi in vita, altezza aristocratica di contro al grigio modello borghese. Con Vittoria si attuò quella rivoluzione conservatrice, di cui a destra tanto si ciancia, una scelta netta che la pose ai margini delle case editrici, assai attente al vento della letteratura appagante i gusti del dopoguerra, intrisa com’era di contaminazioni servili con la politica gramsciana del pensiero unico. Lei fu reazionaria per le sue tesi, quanto rivoluzionaria nel combattere quel ben remunerato asfittico pensiero. In più, per certi suoi aspetti, fu catalogata fascista figlia di un fascista, papà Guido aveva subito sette mesi di prigionia con gli inglesi per i suoi trascorsi di regime, lei stessa provocatoriamente lodava a gran voce a Mussolini nelle strade della Firenze partigiana. Poi c’era quell’amore con Elémire Zolla che l’aveva coinvolta nel vortice di tematiche “ inattuali “ pregne di ricerca spirituale, conducendola per mano nei meandri degli asceti e delle religioni in un tempo di aperto, voluttuoso quanto agnostico consumismo.
Il suo lavoro per anni era stato di “ operatrice culturale “ consistente in saggi e traduzioni di autori ignoti o quasi al grande pubblico. Nel ‘44 traduce Una tazza di tè più altri racconti della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield, nel dopoguerra le Poesie del tedesco Eduard Mörike. Gli anni fiorentini furono ricchi di conoscenze “ ermetiche” col poeta Mario Luzi, Carlo Bo, il grande traduttore Leone Traverso, il caro Bui, al quale si legò con laccio dell’amore. Fu lui a suggerirle la lettura di Hugo von Hoffmansthal assurto a suo maestro di pensiero, fu il viennese a coniare, per primo, il temine Konservative Evolution ( Rivoluzione conservatrice ) nel 1927 durante una conferenza a monaco di Baviera. Vittoria partecipa e promuove un piccolo cenacolo esclusivo di poeti, critici letterari, traduttori, personalità emergenti nel panorama fiorentino cui si aggiungono musicisti conoscenti del padre. Nel 1953 si tuffa, col suo puntiglio, nel progetto di una raccolta poetica tutto al femminile Il libro delle ottanta poetesse per l’editore Casini, ma l’opera verrà cancellata dalla scaletta, ci restano solo alcune schede di preparazione del lavoro.
Il 1955 è l’anno del suo arrivo a Roma a seguito del trasferimento di papà Guido, nominato Direttore del Conservatorio di S. Cecilia e presidente del Collegio di Musica. Finalmente nel 1956, l’anno della storica nevicata sulla Città Eterna, vede la luce editoriale la sua prima raccolta di liriche Passo d’addio per le edizioni Scheiwiller, solo 11 poesie racchiuse in un libricino, il passo del titolo è quello della danza, la ballerina si accommiata dalla scena, nel caso di Vittoria da un amore impossibile, dicitur per il poeta Mario Luzi, ne riportiamo qui il testo:
Si ripiegano gli abiti estivi
Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.
Trema l’ultimo canto nelle altane
dove sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.
E mentre indugia tiepida la rosa
L’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.
In verità la poetessa canta l’ineluttabile dissolversi delle cose che siano gli abiti da riporre negli armadi non diversamente dalla vita stessa, un aprirsi dell’aria al suo passaggio, seguito da un richiudersi, poi è il silenzio, “tutti viviamo di stelle spente”.
La storia sentimentale con L. Traverso è in evaporazione, lui vive a Venezia, nell’Urbe incontra un nuovo amore, anche intellettuale, Elémire Zolla, uomo già sposato, un guru nella ricerca sulla Storia delle Religioni, il loro legame, inviso ai genitori, durerà quasi vent’anni. Lui la introduce nel mondo scintillante, felliniano, della dolce vita romana che pullula di personaggi i più disparati. Vittoria che è schiva di carattere, compresa nell’odissea solitaria del suo viaggio ma pur sempre attiva, curiosa, intelligente, conosce Curzio Malaparte, Ignazio Silone, Roberto Blazen, Corrado Alvaro, Guido Ceronetti e molti altri fino al sommo poeta dei Cantos Ezra Pound. Lavora alacremente fino a notte inoltrata come saggista e traduttrice; nel ’58 per l’editore Scheiwiller esce la raccolta poetica Il fiore è il nostro segno del medico poeta statunitense W.C.Williams inventore della metrica variabile a suo dire, assai più adeguata a cogliere, in versi, la vita quotidiana. Dello stesso autore curerà la traduzione anche per la raccolta Poesie nel ’61. Nel ’59 la A. Mondadori aveva pubblicata la sua traduzione del Diario di Virginia Wolff, un’antologia di appunti, saggi, riflessioni della grande scrittrice inglese morta suicida nel ’41 nelle acque del fiume Ouse con le tasche piene di sassi. Fu l’amato coniuge Leonard Wolff, nel ’53 a raccogliere e selezionare gli scritti del diario della consorte per darli poi alle stampe come fosse un testamento letterario.
Nel 1962 viene pubblicata la prima raccolta di saggi campiana dal titolo Fiaba e mistero, silloge di scritti sull’universo, da lei adorato, delle fiabe francesi facenti parte di quel gigantesco corpus che sono les Contes des Fées ( i Racconti di Fiabe ) a partire dalla Corte du Roi Soleil. L’anno che segue verga l’introduzione alla novella Storia della città di rame, estrapolata dalle Mille e una notte, famosa antologia di novelle orientali ( divenute nel tempo appunto 1.000 ) che l’aveva affascinata sin da bambina. Traduce poi Venezia salva di Simone Weil, frammenti poetici di amara riflessione su un fatto storico, la congiura spagnola del 1618 per impadronirsi della perla Venezia, metafora della tragedia umana tutte le volte che con la forza e l’inganno si cerca di uccidere la bellezza. Della stessa autrice fornisce la traduzione di due saggi pubblicati con il titolo di La Grecia e le intuizioni precristiane scritti da Simone tra il 1939 ed il 1942 su un tema d’indagine, molto caro a Vittoria, la ricerca delle tracce dell’amore di Dio nella religione come nella filosofia nell’antica Grecia. Nel ’71, a distanza di otto anni, esce una seconda raccolta di saggi Il flauto e il tappeto, riflessioni profonde sui significati nascosti nelle fiabe sia occidentali che orientali. Il mondo fantastico delle novelle può essere accumunato a quello dei miti e delle religioni, le fiabe sono dispensatrici di risposte ai nostri eterni interrogativi esistenziali, dal significato di nascere fino al morire, passando per lavoro, amore, dolore, desiderio innato della felicità. Vittoria scava nei racconti traendone insegnamenti pedagogici di ancestrale sapienza permeata da un profondo significato religioso, in fondo in Toscane le fiabe vengono chiamate novelle stesso significato di Vangelo.
Nel frattempo i genitori sono morti in sequenza nell’arco brevissimo di un anno 1964-’65. Il vuoto è enorme, si rinnovano i passi di addio, nel contempo cresce la riflessione sul significato della vita che spinge Vittoria ad una profonda adesione al cristianesimo, in assonanza col percorso ascetico di Simone Weil, stimolata, in questo, anche dalle ricerche del suo amante E. Zolla, sua era stata l’antologia I mistici pubblicata nel 1963. Vittoria nuota calma ma ben diritta verso la sua Itaca, si immerge in testi editi sempre da Rusconi in anni di piombo, scrive l’introduzione a Attesa di Dio dell’amata S. Weil, ai Racconti di un pellegrino russo e Detti e fatti dei Padri del deserto. La bellezza le si svela nel misticismo degli eremiti, nella volontà di togliere, levare, fino ad arrivare all’anima cristallina ripulita d’ ogni scoria. Frequenta l’Abbazia di S. Anselmo sull’Aventino ( piccola nota autobiografica, anch’io la frequentavo ai tempi del mio insegnamento a Testaccio, quando il Superiore era un mio collega tra i banchi ), ama il rintocco della campana che accompagna le sue ore invitandola a guardare verso il cielo. «Il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte – questa esistenza infine, quasi di oblati in ritiro – è puro olio soave sull’anima e il corpo». Ma il Concilio Vaticano II, già nel ’65, aveva promulgato il Novus Ordo Missae definito da Vittoria “ l’apostasia liturgica del secolo ”. La perfezione millenaria dei riti era distrutta, via il latino come lingua aggregante e universale della chiesa, via la profondità celeste dei canti gregoriani, stravolta la somministrazione sacramentale, saltano sul presbiterio laici supponenti, complessini di schitarranti giovanotti, chiasso e balli, concessione evidente alla liturgia riformata dei protestanti, lei riflette mestamente: «A Sant’Anselmo è giunta la lebbra (microfoni da per tutto, parti della Messa in volgare, discussioni penose là dove era silenzio e sorriso) ed io non vi metto più piede se non per vedere il buon padre, che non può nulla se non soffrire in silenzio. […]. Nel 1969 aveva preso carta e penna per scrivere un testo al veleno contro la riforma liturgica conciliare e, al contempo, si schierò apertamente con le posizioni tradizionaliste di monsignor Lèfebvre che porteranno allo scisma con conseguente scomunica vaticana. Ricorda in proposito Alfredo Cattabiani:
Aveva fondato Una Voce, aveva attaccato il pontefice.
Dal punto di vista religioso aveva una sensibilità
molto tradizionale. Era un’estremista. È stata lei a
curare un libro di Lefevbre […] e a spingerlo a
posizioni di rottura. Direi quasi che fu Lefebvre ad
essere un discepolo di Cristina.
Ma la frittata liturgica è fatta ed andrà sempre peggio per chi segue le cose di chiesa, Vittoria scende dall’Aventino fino al Pontificio Collegio Russicum di via Carlo Cattaneo, fondato nel 1929 da Pio XI per la preparazione dei seminaristi russi, adesso chiuso dai gesuiti di Bergoglio. Lì si mantiene inalterato il rito bizantino e lei ritrova quella bellezza della perfezione che tanto aveva inseguito nella vita, tutto gliela ricorda, dalla liturgia, ai canti, dai gesti meditati, ai paramenti fino alle sacre icone appena illuminate dal tremulo fiammeggiare delle candele, lì riscopre la metafisica della bellezza. Purtroppo la salute è malferma, Vittoria trascura di curarsi, è sola sulla barca o forse più semplicemente vede la luce del suo porto e freme di arrivare. La mattina del 10 gennaio 1977, per un ennesimo attacco cardiaco, l’artiglio sinistro si ferma, la farfalla lascia la crisalide per il volo, l’aria dietro di lei subito si richiude.
Come abbiamo visto Vittoria non scrisse mai racconti e romanzi, ma saggi, fiabe, traduzioni e poesie trovando nel dopoguerra un ambiente molto ostile perché era di destra, reazionaria per le sue posizioni nette non trattabili, lei tra l’altro profondamente antiborghese contro la diffusa cultura della mediocrità che uccide i cigni. Contribuì a questo isolamento politico anche il suo carattere schivo, umile, si lamentava persino d’aver scritto troppo e la sua dedizione fu agli ultimi, ai diseredati assai più che ai salotti pseudointellettuali. L’ostracismo avrà termine post mortem, negli anni ’80 quando la Adelphi pubblicherà i suoi scritti raccolti ne Gli imperdonabili edito nel 1987 e la raccolta delle sue poesie in la Tigre assenza. Chiudiamo con una sua lirica tratta dalla breve raccolta il Passo degli addii intitolata:
Moriremo lontani
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…
O signore e fratello! Ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
“[…] La meta cammina dunque al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. […] In realtà egli l’ha in sè da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta – là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto”.
Bibliografia
– Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, Milano, 2002.
– Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987.
– Cristina Campo, Il flauto e il tappeto, Rusconi, Milano, 1971.
– Cristina Campo,Il flauto e il tappeto, Rusconi, Milano, 1971
– Andrea Zanni, La perfezione di Cristina Campo, il Tascabile, Letterature. 2017
– Marina Zaffagnini, Campo Cristina detto Vittoria Guerrini, Storia e Memoria di Bologna
– Arturo Donati, sito www.cristinacampo.it
Emanuele Casalena