9 Ottobre 2024
Tradizione

La mistica del ghiaccio: riflessioni dalla Terra dalla Luce Eterna – Svalbard 2021 – Emanuele Franz

Tutto il mondo ruota ma man mano che ci dirigiamo a nord raggiungiamo un punto fermo, allo stesso modo avviene all’interno della nostra coscienza: le distrazioni dei sensi e la vaghezza dei pensieri pian piano si acquietano avvicinandoci a quel Polo Nord interiore fino al suo massimo punto ove passa l’Asse, quello che gli antichi popoli del Nord chiamarono l’Axis Mundi. Qui, al Polo, si trova il vuoto della coscienza, il punto mistico per eccellenza, il deserto bianco, ciò che è effimero lascia il posto a ciò che è Eterno. Nord era uno dei nani che reggeva la volta del mondo secondo la mitologia norrena, Norðri viene chiamato nell’Edda poetica.

Ma, al di là di questo, Nord è la sommità, l’apice, la cima del mondo, la testa, la volta, il culmine di tutto il globo. Occupandomi di filosofia da una vita intera poi, e interrogandomi sul senso della vita e dell’Essere, fin dalla tenera infanzia sono rimasto affascinato dalle leggende sul Dio Apollo, che i greci consideravano venire da una terra all’estremo nord del mondo dove non tramontava mai il sole. Ὑπερβόρεoι erano, per i Greci, “coloro oltre βορέας”, un popolo cioè che viveva oltre Borea, ovvero sia il Dio rappresentante il vento del Nord. Erodoto, ma anche Plino, Ecate di Mileto e altri scrittori antichi, ritenevano certa l’esistenza di un’isola, a Nord del mondo, ove viveva il Dio Apollo, Dio della Luce, e in questa terra il sole non tramontava per sei mesi all’anno. Stavano, appunto, parlando del circolo polare artico. Terra considerata patria stessa di Apollo, tanto che questi sovente veniva chiamato Apollo Iperboreo. Per il Greco Ecateo di Abdera (IV-II secolo a.C.) sull’isola di Iperborea i tre figli di Borea rendevano culto ad Apollo, accompagnati dal canto di una schiera di cigni originari dei monti Rifei. Per secoli si tentò di identificare quale che fosse questa leggendaria isola, senza però giungere a una conclusione certa. Già il poeta greco Pindaro scriveva: “né per mare né per terra troverai il cammino che conduce agli Iperborei”, e questo per indicarne l’inarrivabilità e la condizione animica e interiore più che quella terrena. Quel che è certo è che i Greci arrivarono a superare i circolo polare artico, come suggeriscono alcuni studiosi. I resoconti parlano infatti del navigatore Pitea, un contemporaneo di Aristotele, che, circa nel 325 a.C, oltrepassando le Colonne d’Ercole, raggiunse la Bretagna e anche la Cornovaglia, infine circumnavigò le isole britanniche.

Sentì dalla popolazione locale notizie della misteriosa terra di Thule, ancora più a nord. Dopo sei giorni di navigazione, raggiunse una terra sul bordo di un mare ghiacciato (da lui descritto come “cagliato”), e descrisse ciò che si crede sia l’aurora boreale e il sole di mezzanotte. Mentre alcuni storici sostengono che questa nuova terra di Thule fosse la costa norvegese o le Isole Shetland, sulla base delle sue descrizioni e delle rotte commerciali dei primi navigatori britannici, è possibile che Pitea fosse giunto alla lontana Islanda, se non, addirittura, alle Isole Svalbard, anche perché, affinché sia possibile essere testimoni del sole di mezzanotte e dell’aurora boreale, e, più in generale, dell’assenza delle notti per sei mesi, è necessario essere al di sopra del circolo polare artico. L’astronomo francese Jean Sylvain Bailly nel 1779, facendo degli studi sull’Atlantide platonica, dichiarò Iperborea un’isola che diede origine a tutta la civiltà umana con saggezza e perfezione, al pari di quanto Platone scrive della famosa Atlantide. Per Bailly questo popolo originario e mitico che forgiò tutte le civiltà doveva collocarsi nell’isola di Spitzbergen, ovvero alle Isole Svalbard. Dopo di lui il filosofo Friedrich Nietzsche accusò tutto il sud di essere scirocco, ovvero di essere popolato di virtù moderne putridi e vili e che per un filosofo è  “meglio vivere in mezzo ai ghiacci che tra le virtù moderne e gli altri venti del sud”:

Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità… Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita” (Friedrich Nietzsche)

Insomma per me il Nord doveva essere il punto finale, o iniziale che dir si voglia, di un cammino mistico e filosofico alla scoperta della verità originaria, il luogo che contiene tutti i luoghi, il Topos, per dirla alla greca, nel quale assiso gioca l’Eterno. Di per sé, e per estensione, tutta la zona al di sopra del circolo polare articolo è considerata, a diritto, polo nord, poiché la zona è contraddistinta da specifiche peculiarità climatiche, faunistiche e geo-grafiche tali da farne, appunto, una zona polare, similmente a quanto si può dire, altrove, delle zone tropicali. Naturalmente, come noto, vi è anche un Polo Nord geografico, uno magnetico, uno geomagnetico e così via, e questi si spostano a cangiano posizione nel tempo. Su questo non ero nelle condizioni di entrare in dispute, perlopiù legate a una mentalità cartesiana che mistica, per il filosofo il Polo Nord è un punto interiore, non un punto esteriore, il Polo Nord per me è un luogo dell’Animo, un Topos della Psiche in cui si trova il luogo dell’inalterabilità, il punto fisso, il nocciolo d’oro che mai cambia di fronte al mutare del mondo. Ed è quindi indifferente se tale nocciolo d’oro lo si trova qui oppure a 200 km più a ovest. Perdipiù l’esploratore avido di ricchezze e visibilità che cerca solo la conquista e non la conoscenza, può anche arrivare al polo nord geografico cento volte, senza per questo trovare l’Aurum nordico della coscienza, che è frutto, anzi, di un atto interiore. Posso con chiarezza dire che la Stella Polare di questo Aurum nordico della coscienza è rivolgersi all’Immutabile e all’Assoluto, questo per me è il Polo Nord Interiore ed è questo che l’avventuriero della verità sempre va cercando e ricordando.

Le Svalbard erano per me come una voce nel cuore che mi sussurrava parole di ghiaccio, ma un ghiaccio che scaldava gli Ideali. Non a caso è detto polo magnetico e tutti gli aghi della bussola puntano al nord, perché ogni direzione è lì e da quella e solo da quella solo decise tutte le altre. Il Nord pertanto è il metro, l’unità di misura per stabilire tutto il conseguente ordine del mondo. E nel mio petto era assiso come l’ago di una bussola, la bussola dei miei sogni, e questo ago, naturalmente, puntava al Polo artico. Vi è un magnetismo della verità al quale la mia coscienza risponde come se il mio cuore fosse di magnetite. La verità è un magnete adornato di ghiaccio, la verità è il nord brinato che echeggia al di sopra del mare di Barents, ove gli antichi collocarono gli Iperborei. La bussola della coscienza non può che puntare al Polo Nord interiore che, per analogia e affinità, si inanella al nord esteriore. Parimenti alle leggi del magnetismo, nelle quale gli antichi videro i segni di un altissimo simbolismo e il linguaggio stesso di Gaia, i Poli Nord e Sud, su un più alto livello metafisico, rappresentano le forze dell’emissione e dell’assorbimento, dell’espansione e della contrazione alle quali tutto il cosmo è assoggettato. Come le potenti forze divine dell’Apollineo e del Dionisiaco, del solare e del lunare, così sulla terra i Poli incarnano un equilibrio globale fra l’Idea e la realtà, fra luce et ombra e tal gioco, tal movenza, in occulto equilibrio, genera tutto il mondo visibile. Lì al Polo, pertanto siamo vicini all’epicentro di una foggia di Forme, da lì sgorga sorgivo l’Eidos che delimita il mondo.

Quando la coscienza si è, per così dire, magnetizzata alla Verità, non può che sentire un inevitabile richiamo al ghiaccio del nord così come s’inerpica la falena sulla luce, gittando, anche a rischio di donarne le sue spoglie, uno sguardo su una luce che non è dei mortali, ma respiro dei Beati e palpito di Numi celesti. Si dice che i Vichinghi approdarono alle Svalbard all’inizio del XII secolo, anche se non vi sono prove certe di questo fatto. I racconti norreni parlano di una terra chiamata Svalbarð, letteralmente “coste fredde” che forse potrebbero essere state le attuali Isole Svalbard. Ad ogni modo l’olandese Willem Barentsz fu il primo occidentale moderno a scoprire l’arcipelago nel 1596 mentre si trovava alla ricerca di un passaggio verso il Polo Nord. Il nome di Spitsbergen ebbe origine dallo stesso Barentsz, il quale così descrisse delle “montagne appuntite” che vedeva sulla costa occidentale dell’isola, anche se la sua mappa dell’Artico del 1599 riporta l’area col nome più generico di Het Nieuwe Land (“La nuova terra”). Ma il mistero di queste terre a nord del mondo e i leggendari testi che ne parlano, risalgono secoli addietro e questi testi sono avvolti dall’occulto e dalla magia. Uno fra questi è l’Inventio Fortunata, un libro perduto che si dice narrasse i viaggi nell’Atlantico settentrionale di un frate sconosciuto, questi descrive, in una sintesi scritta da Jacobus Cnoyen, ma trovata in una lettera di Mercatore, i viaggi fino al Polo Nord. È straordinariamente significativo, e degno di nota, che la menzionata lettera del celebre geografo Mercatore sia indirizzata niente meno che all’oscuro e misterioso alchimista John Dee e sia datata 1577.

Qui si menziona, come si diceva, l’Inventio Fortunata  (Scoperta fortunata) un’opera perduta, risalente probabilmente al XIV secolo, nella quale il polo nord viene descritto come un’isola magnetica (la Rupes Nigra) circondata da un gigantesco vortice e da quattro continenti. Anche se non sono mai stati scoperti frammenti diretti del documento, la sua influenza sulla percezione occidentale della geografia dell’Artico persistette per diversi secoli. Stando alla lettera di Mercatore, la Rupes Nigra era un’isola fantasma, costituita da una gigantesca montagna di roccia nera magnetica, con una circonferenza di circa 180 chilometri, che si ergeva al centro del mare polare, nella posizione occupata dal Polo Nord. Dotata di immensi poteri soprannaturali e di conferire conoscenza e forza al suo detentore, come anche si riteneva nella grecità classica riguardo alla magnetite, questi studi hanno destato il grande interesse, come si accennava, di John Dee, uno dei più celebri alchimisti e occultisti del suo tempo che si dice che addirittura sia riuscito a convertire il piombo in oro. Nel 1909 Robert Edwin Peary dichiara di essere il primo uomo al mondo ad aver raggiunto il Polo Nord geografico, quando, successivamente, viene messo in discussione tale risultato, ed in verità si ritiene sia arrivato vicinissimo ma non esattamente al Polo, cioè che lo avesse mancato di appena qualche decina di kilometri. Trovo assai sterili queste disquisizioni, anche nell’alpinismo ci sono dei gialli insoluti e forse insolubili, come se fosse veramente importante se era sulla cima o a 30 metri da essa, sono pietose queste analisi perché sono fatte da gente comoda-mente seduta al caldo dietro una scrivania mentre questi eroi sono stati massacrati da privazioni, hanno sfidato situazioni che gli altri miliardi di esseri umani non hanno mai provato. Comodo criticare un Eroe e dire che non è arrivato all’obiettivo, quando si sta seduti al caldo e con la pancia piena, mentre questi temerari hanno sofferto, hanno sfidato la sorte, rinunciato a tutto per coronare i loro sogni. Robert Edwin Peary aveva 52 anni quando arrivò al Polo Nord ed erano decenni che tentava e ritentava l’impresa senza mai rassegnarsi. Arrivò a vivere con gli eschimesi, a farsi accettare come uno di loro, e infine, dopo 22 anni di tentativi, riuscì a raggiungere il punto che contiene tutti i punti, la sommità del mondo. Vi dedicò una vita intera, vi perse otto dita dei piedi per assideramento, e poi arriva il tecnocrate, seduto dietro a un microscopio che dice: eh no, i conti non tornano! A costui è da rispondere: vacci tu allora! Che motivo avrebbe un Peary di mentire, non al mondo, ma a se stesso, dopo aver sacrificato tutto quello che aveva e rischiato la vita per un sogno? No, non c’è menzogna nel ghiaccio, il ghiaccio non può contenere menzogna, esso è l’araldo della verità e chi lo ha amato non può conoscere falsità.

 

La terra della Luce Eterna.

In un qualsiasi punto della terra l’uomo può orientarsi perché ha quattro punti cardinali che gli conferiscono una esatta posizione nello spazio. Cartesianamente egli sa dove si trova, è sicuro, orientato, proprio perché guarda a nord e quest’ultimo lo colloca in una posizione precisa. Ma quando si è al Nord stesso è come se tutte le direzioni si annullassero. Se si è al nord dove è il nord? Le bussole iniziano a impazzire. Il sotto e il sopra appaiono eguali, l’alto e il basso. Il Polo Nord è spazio senza spazio, il punto che contiene tutti i punti, la dimensione senza dimensione, pare quasi che le cose qui siano proiettate in un’altra profondità, aliena rispetto al mondo che siamo abituati a conoscere, fatto di direzioni e di orari. Il tempo pare annullarsi ed essere immerso in un luogo Eterno. Questa sensazione è stata forte in me. La Luce perpetua, mentre il luogo dal quale venivo era scandito da giorni e notti, albe e tramonti, qui mi conferiva una sorta di Eternità. Una volta tornato sotto il Polo artico mi è parso come fosse trascorso un solo giorno. Parimenti, occorre trovare la medesima Luce eterna nel cuore e far di sé stessi un Polo Nord senza che alcuna oscurità dettata dalla menzogna possa inficiare il nostro Asse interiore. Il Deus Sol Invictus, il sole invincibile, il sole di mezzanotte cantato dai poeti era in me, sopra di me e dentro di me. Fu una sensazione potentissima. Mi sentivo eterno, invulnerabile. In quei giorni non ebbi stanchezza, nemmeno un mal di testa né un mal di pancia, anzi, camminato anche 15 kilometri al giorno senza alcun risentimento. Stranissimo, mentre a casa, al sud, avrei avuto mille fastidi come sovente accade nella quotidianità. In quelle terre nord del mondo il mio corpo intero, ogni mia cellula era pervasa di una tal chiarità da darmi vigore, lucidità, fierezza e prontezza.

Qual magia si compiva era sovra la mia razionalità Chissà qual magnetismo era entrato in me. Percepivo che il nucleo di ogni singola mia cellula era divenuto un Sole, pertanto in me vi erano cento miliardi di astri luminosi e scintillanti. La carne, fondamento della mia esistenza, era vibrante, diafana, penombra in me ormai non vi era e nemmeno l’ombra dell’ombra, ma soltanto plenitudine senza tempo. La temperatura non si misura con il termometro, essa è una Energia! Il clima è una interrelazione di Spiriti. Il clima non è, come banalmente viene ridotto dallo scienziato moderno, una serie di misurazioni e di dati, esso è una connivenza fra potenze viventi, esso è una coalescenza d’infinito che si nutre delle creature che ospita. Balene, beluga, foche, trichechi, orsi polari sono un sistema che dalle carni volge alle Idee e quest’ultime sono un clima, un clima metafisico che pone le fondamenta del Genius Loci che abita una terra. La scienza moderna, nel tentativo, inane, di capire il mondo terreste, il suo clima e i suoi cambiamenti, si è arrestata ai microscopi e ai termometri, facendo l’errore di non interrogare più il vivente.

Ma la natura vive, non è morta. Allorché occorre sapere che lì, al Polo Nord, il clima è parte naturale di un fatto Simbolico. Il ghiaccio infatti non è soltanto acqua rappresa, è Totem, Potenza, Memoria e cosmo. In altre parole il ghiaccio è Verità! Circondato da scoscese pareti innevate e aderso di un silenzio diafano mi inoltravo a piedi verso i sentieri di quella terra polare scoprendo animali mai visti e una flora e una fauna così specifici da apparire meravigliosi ai miei occhi. Un sidereo biancore lattescente bagnava i miei sguardi or ora languiti d’artici bagliori. Tutto m’appariva eterno e senza tempo: dalle renne che giocavano con l’erba ai trichechi che spiaggiavano sul molo tentennando con l’infinito orizzonte, dolcemente merlato di diamantine vette senza crepuscolo. Mi spingevo per kilometri nella tundra ghiacciata, da solo, disarmato, consapevole dei rischi che correvo, ai limiti dell’incoscienza, assetato di smarrimento volontario, chiamavo col petto il vuoto brinato, il silenzio tagliente, il vento del Nord che possente e carnato sfiorava i miei nervi. E i nembi biancastri e le pietre coeve d’eterno che ora reggevano il passo mio e il sospiro che m’innalzava il cuore, e tutto il deiforme paesaggio solare che mi vestiva di forme empiree era un tutt’uno con l’universo polare in cui ero immerso. Si, ero al Polo Artico, e in ogni pietra scorgevo Cariatidi fidenti che d’una seta di ghiaccio cingevano il manto, e del febeo afflato loro respiravo colla mia bocca sitibonda d’eterno. Il problema oggi del cosiddetto riscaldamento globale, e il tema di come l’attività umana possa modificare il pianeta è proprio al Polo artico che si sente in particolar modo ed è proprio lì che viene studiata approfonditamente. Ricercatori da tutto il mondo vengono a studiare il clima e lo scioglimento dei ghiacci ed è proprio il quelle terre che mi trovavo ed era con le persone che vivono e lavorano lì ogni giorno che mi trovavo a parlare. Dubito che un qualsiasi professore di geologia all’università di Roma o Milano, senza aver mai visto un ghiacciaio in vita sua, dal riparo di una scrivania, possa percepire che cosa significa il ghiaccio, che cosa significa vivere nel ghiaccio e per il ghiaccio. È lì, al Polo artico, e non altrove, che occorre porre delle domande, non solo alle persone che vivono intrinseche a quella realtà naturale, ma finanche alla natura stessa. Mi sono ben presto reso conto che per affrontare il problema dello scioglimento dei ghiacci occorreva fare l’unica cosa che nessuno vuole fare: interrogare il ghiacci, il diretto interessato, e non con strumenti di misurazione, molle, viti e ingranaggi, ma con la parola, come se esso fosse non solo un’entità vivente, e lo è, ma addirittura una persona.

Ma perché il ghiaccio si scioglie?

Dopo una vita di ricerche nella filosofia ho capito una cosa: la verità è il ghiaccio, la verità è la luce brinata del Nord, per questo il mondo intero è vittima del cambiamento, dello scioglimento dei ghiacci: è la verità a sciogliersi di fronte all’egoismo umano. La verità è il ghiaccio che si scioglie di fronte all’egoismo umano. Pensiamoci bene: il ghiaccio è perfettamente consustanziale alla luce, esso ha la proprietà del fissare, del conservare, del rallentare il divenire. Questo è così noto che ognuno di noi nella vita quotidiana mette a congelare i cibi per conservarli e pure nel modo di dire si dice congelare un ricordo, un istante e così via. È la proprietà stessa del ghiaccio quella di rendere eterne le cose. Il ghiaccio conserva, fissa, rende stabile la forma, contrariamente il caldo liquefa, dissolve, rende putrescenti, corrompe. Guardiamo i corpi di animali conservati nel ghiaccio intatti per decine di migliaia di anni, pare che per quei corpi il tempo si sia fermato. Il ghiaccio pertanto è memoria. La parola che gli antichi greci usavano per indicare la verità era ἀλήθεια (Aleteia) alfa privativo e Lete, per cui “privo di oblio” quindi: memoria. Il ghiaccio è immagine della verità trascendentale. Questa verità è nicchiata ovunque gli antichi abbiano collocato le dimore del divino. Le alte montagne dell’Himalaya, ad esempio, come le più alte montagne in generale, sempiterne dimore degli Dei, ammantati di nevi perenni. Ovunque ci sia ghiaccio l’uomo ha rinvenuto i segni di un più alto ordine del cosmo. Le comete trasportano il ghiaccio negli spazi siderali e, come noto, il ghiaccio è composto di cristalli. κρύσταλλος (Cristallos) era la parola greca per indicare il ghiaccio appunto. I cristalli di neve visti al microscopio appaiono un tempio di forme perenni, un codice della natura. Geometrie frattali, esagonali, fogge che rimandano a un’armonia cosmica e detentrici di una memoria universale. Si pensi solo al fatto che gli eschimesi hanno ben dodici parole diverse per indicare la neve. In buona sostanza si può affermare che dove c’è ghiaccio c’è verità e man mano che la menzogna e l’inautenticità avanzano si frantuma il ghiaccio.

Il problema dello scioglimento dei ghiacci e dei cambiamenti climatici è stato affrontato dalla scienza dall’unico e dal mero punto di vista materiale, che ha considerato il ghiaccio solo un grumo d’acqua rappreso anziché considerarlo per quello che è: un Simbolo. Ovvero sia un Symbŏlum dal greco sýmbolon, che deriva a sua volta da symbállō “mettere in comunione”. I ghiacciai reagiscono, inevitabilmente, a quella che è un’Epoca al declino, imputridita dalla menzogna e dall’avidità.

(Estratti dal libro: -Polo Artico. La verità del ghiaccio- di Emanuele Franz. Audax Editrice 2021. Per info e approfondimenti: www.audaxeditrice.com)

Emanuele Franz

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