10 Ottobre 2024
Linguistica

La natura della parola – Marco Calzoli

“Nec clipeus vasti caelatus imagine mundi

conveniet timidae nataeque ad furta sinistrae”

 (Ovidio, Metamorfosi XIII, 110-111)

Ovidio sta trattando del mito secondo il quale, dopo la morte dell’eroe Achille, le sue armi sono contese da Aiace da una parte e da Ulisse dall’altra. Aiace dice di essere un valoroso eroe, quindi in fondo se le merita, invece Ulisse è un vile che ha fatto solo inganni (come il furto del Palladio). Allora Aiace dice riferendosi a Ulisse: “E l’immane scudo, su cui è stato rappresentato il vasto mondo, non si adatterà a quella sinistra impacciata e capace solo di rubare”. L’allusione è al fatto che nell’Iliade Efesto ha rappresentato il mondo sullo scudo di Achille. Conveniet è un indicativo futuro, da convenio, che con il dativo ha il senso di “addirsi” a qualcosa.

Ovidio sta trattando della figura dell’eroe e di quella del sapiente, incarnati da Achille e Aiace da una parte e da Ulisse dall’altra. Questo bipolarismo ricorre spesso nelle letterature classiche. La letteratura greca ci è giunta con l’esordio rappresentato dalla celebrazione dell’eroe guerriero e delle gesta di conquistare Troia. È emblematico che sullo scudo di Achille vi sia l’effige del mondo intero: sono le armi ad assicurarsi il predominio sui popoli tutti della terra allora conosciuta. C’è chi ha visto nella vicenda della città straniera Troia assediata dai greci, così come raccontato nell’Iliade, la conquista da parte degli indoeuropei (i greci) dei territori stranieri. Gli indoeuropei sono una ipotetica popolazione preistorica che nel IV millennio a. C. si sarebbe spostata verso l’Europa. Si tratta di una congettura che nasce dal confronto con le lingue. Ci sono molte lingue che presentano somiglianze impressionanti anche se tra loro alquanto distanti e senza che ci siano stati contatti documentati storicamente: da qui nasce la teoria di una popolazione che abbia parlato una lingua comune e che, invadendo le popolazioni autoctone (simboleggiate da Troia), abbia portato questa lingua, detta indoeuropeo. L’indoeuropeo si sarebbe frammentato a contatto con le popolazioni autoctone determinando la progressiva nascita delle lingue indoeuropee antiche e quindi moderne. Gli studiosi ritengono che gli indoeuropei siano stati una popolazione di abili guerrieri, i quali, contando altresì su innovazioni tecniche come il potentissimo carro da guerra, siano riusciti a imporsi su tutto il territorio tra India e Europa. Per questo le letterature derivate da queste stirpi indoeuropee esaltano la figura del guerriero, dell’eroe, come Achille o Aiace, come Arjuna, e così via. Le divinità indoeuropee sarebbero per certi versi il riflesso di questo animo guerriero dei conquistatori, infatti si tratta di dei dall’aspetto fascinoso e terribile al tempo stesso, guerrieri come gli indoeuropei. Nel Ṛg-Veda il dio Rudra ha due epiteti principali: shiva, “benevolo”, e ghora, “terribile”.

Tutte le divinità indiane hanno questi due aspetti. Persino la Devi, la divinità femminile dell’induismo, la quale ha molti aspetti, certamente quello dolce e materno (Parvati), ma anche quelli terrifici, quando viene chiamata Kali. Come Shakti è venerata quale Potenza divina, senza la quale le divinità maschili sarebbero senza forza, dormienti. In india le pile a lunga durata, che noi chiamiamo Duracell, sono dette Shakti, letteralmente “forza”. Come Durga è venerata quale Guerriera, che uccide il dio bufalo (Mahishasura): questo demone (asura), molto devoto alle divinità, riceve da loro molti doni fino a diventare pericoloso per via del suo potere, allora gli dei maschili cercano di ostacolarlo. Come? Dalla loro rabbia nasce la dea Durga, con molte braccia: Durga prende per ogni braccio un’arma da ogni divinità maschile e uccide il dio bufalo.

Ma c’è di più. Tanto è radicata nella cultura indoeuropea la categoria della forza, della violenza e del combattimento che gli dei indiani, anche quando rappresentati come entità positive, hanno sempre qualche attributo terrifico, per esempio Shiva anche da buono ha il tridente. Bisogna aggiungere che l’India si evolve nel tempo. Nei Veda le guerre tra dei servono alla creazione. Ora, il periodo dell’India medioevale, quando sorgono i Purana, si caratterizza per una ripresa formale dei miti antichi ma attribuendo loro un contenuto diverso. Quindi la lotta tra dei assume un valore diverso rispetto al periodo vedico. Dal periodo Gupta in India sorge un nuovo mondo ideologico nel quale i miti puranici hanno uno schema fisso. Gli dei malvagi (asura) spodestano i deva (dei buoni), si impossessano del Triloka (i Tre Mondi)  e minacciano i brahmani. I re asura diventano dei sovrani universali (chakravartin) creando antimondi in cui si rinnega il dharma istituito dai buoni deva. Solo la lotta portata avanti dalle divinità supreme (Vishnù, Shiva, Devi) permette di ristabilire il dharma originario. Spesso nell’India medioevale le immagini terrifiche dell’iconografia induista possono essere lette in chiave antibuddhista e antijainista.

Addirittura in un testo ittita, al calare della sera il cielo si oscura, la luna si tinge del color del sangue e si cinge di armi spaventose: a tale spettacolo la partoriente è invasa dallo spavento, allo il Dio della Tempesta invia delle protettrici per salvare il neonato con degli unguenti. L’associazione del colore della luna al sangue è un topos ben collaudato nelle letterature indoeuropee, che ha in sé tanto di sacrale quanto di guerriero. In questo interessante testo ittita, come nota Dardano, “la luna indossa (gli abiti) del color del sangue”, -za ešhaniia uaššiia-. Anche vedere i fenomeni dell’alternarsi del giorno e della notte come un vestire abiti differenti è un topos indoeuropeo altrettanto ricorrente.

Sulla base di alcuni dati linguistici è possibile ipotizzare in qualche maniera anche la patria originaria deli indoeuropei. Se gli indoeuropei provengono dal Nord Europa, come proposto da Penka nei primi studi sull’argomento, è significativo che nelle lingue indoeuropee sono ben attestati termini di piante ben presenti in quei luoghi (come faggio, quercia), invece parole come leone non hanno termini chiari e univoci.  Ma sono state formulate molte altre ipotesi. Gamkelidze e Ivanov propongono  l’altopiano armeno. Gimbutas le steppe a sud della Russia. Renfrew l’Anatolia. Si tratta solo di ipotesi: ogni elemento che concerne una popolazione e una lingua non attestati, non si basa sui fatti ma sulla riflessione scientifica, quindi può evolversi in continuazione, per esempio con la scoperta del tocario e quella dell’ittita l’indoeuropeistica è stata rivoluzionata. In tocario esiste un fatto linguistico stranissimo che si riscontra solo in questa lingua: mentre in tutte le lingue indoeuropee i numerali hanno delle forme simili (tipo: uno, due, tre), in tocario hanno forme del tutto particolari. Il tocario perde la quantità vocalica e la opposizione tra consonanti sonore e aspirate: due fenomeni invece fondamentali nell’indoeuropeo fino ad allora ricostruito. Ma l’identità indoeuropea del tocario è evidente da altri fatti: per esempio, i dialetti tocari hanno un sistema verbale molto vicino a quello del latino; come il celtico e l’italico, il tocario ha un congiuntivo in *-ā. In ittita il verbo non presenta i classici tre temi come si riscontrano nelle altre lingue indoeuropee, ma è monotematico. Nelle lingue indoeuropee è molto attestata anche la parola mare. Sono state riscontrate altresì somiglianze con le lingue semitiche (cultura semitica e cultura indoeuropea hanno entrambe a che fare geograficamente con il mare). Silvestri dimostra come sia nelle lingue semitiche sia nelle lingue indoeuropee c’è un collegamento tra due concetti: dire e illuminare. Nel suo studio molto profondo Silvestri ricorda come nell’incipit del Vangelo di Giovanni si dice che la Parola era la Luce; in semitico la radice ‘mr significa in accadico vedere, in ebraico dire e in arabo ordinare; in una lingua indoeuropea come il greco il verbo del dire (femì) rimanda etimologicamente al brillare; e così via. Del resto uno studio di Torricelli mette in risalto come una stessa radice indoeuropea sta alla base di termini che indicano vista e sapere (latino video, “vedere”, tedesco wissen, “conoscere”), mentre video pare trasformarsi semanticamente da “vedere”, a “sapere” e poi a “sembrare” secondo l’evoluzione di una metafora per la quale la persona vede prima con gli occhi, poi con la mente (sapere).

Una popolazione nomade, che si sposta da Oriente a Occidente, ha un forte culto della parola, necessaria alla trasmissione del sapere da un posto all’altro: quindi le divinità indoeuropee creano mediante il canto e la vibrazione sonora. La divinità indiana Visnù è raffigurata con una conchiglia, śanka, che egli suona: è il simbolo del potere di creare che avviene mediante il suono.

Le lingue indoeuropee attestate sono:

  • Ramo indo-iranico (vedico, avestico, sanscrito classico, persiano);
  • Armeno;
  • Albanese;
  • Ramo balto-slavo;
  • Greco;
  • Lingue italiche (osco, latino, lingue derivate dal latino dette lingue romanze, eccetera);
  • Lingue germaniche (in linguistica “germanico” non è sinonimo solo di tedesco, in quanto inglese, nederlandese e lingue scandinave appartengono anch’esse alle lingue germaniche);
  • Lingue celtiche;
  • Tocario;
  • Ittita.

L’indoeuropeo ha un verbo dal valore aspettuale (presente=azione continuativa; aoristo=azione puntuativa; perfetto=azione risultativa), mentre quello temporale si aggiunge solo in seguito nelle lingue indoeuropee. Il futuro non c’è nell’indoeuropeo, ma è derivato dal congiuntivo.

L’indoeuropeo ha un sistema nominale basato sui casi, probabilmente otto (nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo, ablativo, strumentale, locativo), così conservati in vedico e in sanscrito classico. Invece nelle lingue indoeuropee si assiste a un graduale “sincretismo dei casi”, fenomeno per cui i casi si riducono e le funzioni del caso soppresso vengono attribuite ad un altro caso. Per esempio il latino perde strumentale e locativo, il greco perde anche l’ablativo, mentre nelle lingue romanze come francese o italiano i casi cadono del tutto. Facendo l’esempio del latino, lo strumentale e il locativo vengono assorbiti nell’ablativo, per cui nel latino arcaico abbiamo la presenza di un ablativo propriamente detto (che indica il punto di partenza), un ablativo-locativo (equo pugnare, “combattere da cavallo”), un ablativo-strumentale (superioribus proeliis exercitati, “esercitati per mezzo delle precedenti battaglie”). In seguito nel latino ci sarà sempre più la tendenza a svolgere le funzioni dei casi strumentale e locativo per mezzo di sintagmi preposizionali (per esempio: ex + ablativo).

Secondo una antica tradizione i 4 Veda, cioè i testi sacri dell’induismo, sarebbero i libri più antichi dell’umanità. Oggi tuttavia da più parti si ridimensiona questo dato tradizionale. Sono scritti in vedico, come abbiamo detto una lingua indoeuropea, molto complessa e affascinante. Per alcuni tutte le grandi storie e idee delle letterature successive, sia indoeuropee sia mondiali, deriverebbero dalle storie dei 4 Veda, della successiva letteratura vedica, dei Purana e della letteratura epica indiana. Oggi si ridimensiona anche questa evidenza, in quanto si sostiene che molti temi ricorrenti siano analoghi solo di facciata, cioè in realtà siano molto diversi nella struttura e negli scopi, e certe inevitabili coincidenze vengono spiegate per esempio da Jung non come derivazioni dirette da un unico modello letterario bensì ricorrendo alla teoria degli archetipi. Le persone hanno sedimentate nel proprio inconscio delle idee comuni a tutte le popolazioni della terra, alle quali gli scrittori attingerebbero inconsapevolmente.

Recenti proposte di datazione fanno risalire il Ṛg-Veda al 1500 a. C., mentre di poco successivi sarebbero gli Avestā, il corpus dei testi sacri del mazdeismo, religione di origine iraniana, scritti in avestico, un’altra lingua indoeuropea, molto vicina al vedico. L’avestico è conosciuto secondo due tipologie principali: antico e recente. Si è molto discusso sui possibili rapporti tra le due tipologie, sulla storia, e così via. Comunque sia vedico sia avestico sono lingue artificiali, letterarie, mai parlate. Negli Avestā un indubbio tratto di artificialità sta nel nome Ahura Mazda, il dio supremo del mazdeismo, che si trova spesso separato nelle sue due componenti.

Un prezioso articolo di Panaino cerca di fare il punto della questione, proponendo variegati indizi di diverse teorie. Secondo molti autori, l’avestico antico eredita la forma originaria della lingua indo-iranica, al contrario dell’avestico recente. Ci sono, infatti,  molti indizi per i quali l’avestico antico non sarebbe successivo o contemporaneo all’avestico recente: valore bisillabico lasciato dalla laringale, gli effetti della legge di Sievers, forme arcaiche del verbo, e così via. Allora, quando l’avestico recente quando si collega al più antico vedico, non presenterebbe forme originarie indo-iraniche ma innoverebbe a modo suo e in maniera parallela rispetto al vedico, dal quale quindi non dipenderebbe. Sono tre i casi nei quali l’avestico recente si collega al vedico ma tutti e tre illusori, in quanto dipendenti da fenomeni linguistici indipendenti:

  • Lo strumentale plurale di a-/i-, “questo, quello” è in avestico antico āiš rispetto all’avestico recente aēibiš e al vedico ebhiḥ;
  • Il plurale di vispa, “tutto”, segue la declinazione nominale in avestico antico, mentre quella pronominale in avestico recente (come testimoniato in una sola attestazione in vedico in cui c’è declinazione pronominale);
  • Il genitivo singolare di xratu-, “intenzione”, è in un modo in avestico antico e in un altro in avestico recente e vedico.

A parte queste coincidenze particolarissime, bisogna dire che i linguistici parlano di una unità indo-iranica. Si ipotizza, infatti, che antico indiano e antico iranico siano all’inizio una unità linguistica. Pensiamo al fenomeno per cui la lettera l si rotacizza in r (comune alle due lingue). Gli studiosi hanno anche notato da tempo che il libro VIII del Ṛg-Veda abbia molte affinità lessicali con gli Avestā. Le ipotesi si sono sprecate, probabilmente il libro VIII è un inserto tardo, posto nel corpus vedico in una fase più recente, quando i circoli sacerdotali stanno elaborando la materia avestica. Certamente in seguito si fanno sempre più intensi i rapporti tra mondo indiano e mondo iranico. Facciamo solo un esempio pensando agli editti di Ashoka (304- a. C.-232 a. C.), il re buddhista che ha regnato su gran parte del subcontinente indiano dopo averlo unificato. Egli designa i suoi editti con la parola dhaṃmalipi, “testo del dharma”: lipi- sarebbe un prestito dell’iranico dipi-, “scrittura”, con la lettera l che compare per analogia con il sanscrito lip- “imbrattare”, e likh-, “incidere, scrivere”. In alcune copie nordoccidentali troviamo direttamente la forma  dhramadipi-.

Nel 1786 William Jones annuncia alla comunità scientifica che probabilmente sanscrito, celtico, gotico e antico persiano siano tra di loro imparentati. Nell’Ottocento Friedrich e Wilhelm von Schlegel e Franz Bopp approfondiscono i rapporti tra sanscrito, greco, latino, persiano e tedesco scoprendo numerose corrispondenze. Questi studi portano alla nascita della ipotesi indoeuropea. Con il lavoro di Jakob Grimm (1818) vengono elaborati criteri scientifici per lo studio comparativo delle lingue indoeuropee.

Le lingue semitiche oggi sono in tutto 18. Sono state così denominate da Schlözer nel 1781, che ne contempla all’inizio solo 6 (ebraico, siriaco, aramaico, arabo, fenicio, etiopico). Ma già da molto tempo giungono in Europa materiali semitici oggetto di interesse da parte degli studiosi. Tra 1614/1626 c’è il viaggio di Pietro della Valle (umanista romano) da Venezia in Oriente. Il suo viaggio precede l’idea del Grand Tour, ovvero la ricerca romantica dell’Oriente. Nel 1674 Chardin pubblica la prima iscrizione persiana (lingua indoeuropea ma in Oriente). Nel XVIII secolo si intensificano i viaggi a Persepoli, dove si trovano dei materiali cuneiformi. Nel 1850  viene  scoperta  Ninive  per  mano  di  Layard, assieme  ai  suoi  materiali cuneiformi. Tra il 1869/1870 Halevy viaggia in Arabia e trova materiali aramaici. Tra il 1876/1877 Doughty viaggia in Arabia e altri testi semitici giungono in Europa per essere studiati. Nel 1764 Bourthelemy decifra il fenicio. Nel 1870  nasce  la  materia assirologia  (lo  studio  della lingua accadica). Nel 1784 Bourthelemy e Swiriton decifrano il palmiero (una fase dell’aramaico). Nel 1877 con  Wright  ci  sono  i  primi  corsi  di  lingue  semitiche  corporate  in Inghilterra e viene pubblicato anche un libro: Lectures on the comparative Grammar of the Semitic Languages. Con la aggiunta di più lingue semitiche ci si specializza sempre più. Le altre famiglie linguistiche del mondo sono: africana (per esempio lo swahili), uralica (per esempio finlandese, estone, ungherese), sino-tibetana (cinese mandarino, tibetano), altaica (mongolo, turco), dravidica (tamil, telegu), austro-asiatica (vietnamita), austronesiana (malgascio, bahasa), ci sono poi altre famiglie ma minori. Esistono inoltre lingue considerate isolate, cioè che pare non abbiano collegamenti con nessuna altra lingua: etrusco, basco, sumerico, giapponese, coreano. L’egiziano antico sembra collegato in parte con le lingue africane e in parte con quelle semitiche. L’elamico, lingua estinta che è stata parlata dagli elamiti (nell’attuale Iran occidentale),  per alcuni pare collegato in parte con le lingue dravidiche, per altri con il curdo (lingua indoeuropea iranica). Ma la situazione è più complicata.  Dalla riscoperta dei primi documenti cuneiformi nella prima metà dell’Ottocento a oggi, la civiltà elamita è rimasta “schiacciata” tra i progressi dell’assiriologia, la disciplina dedicata allo studio dell’accadico (famiglia linguistica semitica), e quelli degli studi iranistici, basati sugli Avestā. Nelle iscrizioni monumentali achemenidi, per lo più trilingui, l’antico persiano occupa la posizione di preminenza, seguito dall’elamico e poi dall’accadico. Anche da un punto di vista linguistico l’elamico si pone in posizione per così dire intermedia tra antico persiano e accadico, non appartenendo a nessuna famiglia linguistica. Ciò complica notevolmente lo studio di questa lingua, nonostante la presenza di iscrizioni trilingui (quelle achemenidi) e, in minor misura, bilingui (i più rari testi in accadico che traducono moduli delle iscrizioni medio-elamiche). A titolo esemplificativo presentiamo una iscrizione in elamico (CB 02-III-01), nella quale i termini vengono spiegati dagli studiosi ricorrendo a diverse lingue (semitica e indoeuropea). Il re Untas-Napirisa dedica alcuni edifici a una divinità. Tra questi edifici si sono: kukunum e sikratu. Queste due parole sono chiaramente accadiche: la prima parola indica il santuario alto posto sopra la ziggurat, la seconda parola è la trasposizione in elamico della parola accadica ziggurat. Il testo elamico recita: u sikratu-me kiki teh, “io (u) il sikratu ho posto (teh) verso il cielo (kiki)”, cioè “io ho innalzato il sikratu”. Ora, mentre sikratu deriva dalla lingua semitica, il porre è espresso da una chiara radice indoeuropea, per esempio condivisa dal greco istemi.

La linguistica storica, cioè che cerca di ricostruire la storia della lingua, quindi i suoi cambiamenti nel tempo, si basa sul metodo comparativo (confronto tra le fasi della lingua e tra una lingua e le altre lingue imparentate) e cerca di determinare delle leggi fonetiche. Quando una lingua si evolve nel tempo, questo mutamento fonetico sembra operare con regolarità tanto che i linguisti estrapolano delle leggi fonetiche. Se più lingue presentano le stesse leggi fonetiche, è possibile istituire una parentela.

Si è discusso moltissimo sulle leggi fonetiche: si possono paragonare a quelle delle scienze naturali? Come spiegare poi le sempre presenti eccezioni che accompagnano queste leggi? Von Humboldt con grande saggezza scrive: “Nelle lingue l’azione del tempo è ovunque congiunta con l’azione della peculiarità nazionale, e ciò che caratterizza le lingue delle orde selvagge d’America e del nord dell’Asia non per questo deve essere necessariamente appartenuto ai ceppi primitivi di India e Grecia. Né alla lingua di una singola nazione, né a quelle che sono passate per più nazioni è possibile assegnare un corso evolutivo perfettamente regolare e in qualche modo prescritto dalla natura”.

Proviamo ad applicare il discorso delle leggi fonetiche alle lingue germaniche, secondo l’ottica esposta da Fanciullo. Le lingue germaniche conoscono queste fasi:

  • Il germanico si stacca dall’indoeuropeo e inizia a fare alcune mutazioni linguistiche: è in questa fase che emerge la legge di Grimm, cioè il germanico crea le nuove fricative sorde (f, p, h) dalle occlusive sorde indoeuropee *p, *t, *k; facciamo questo esempio della legge di Grimm: l’indoeuropeo deve avere un termine per “pieno” che inizia con la consonante p, come il latino plenus, ma il germanico lo muta in full, come in inglese antico e moderno;
  •  In seguito si instaura le legge di Verner, che va a colpire tutte le fricative sorde del germanico, quale che sia la loro origine. Per esempio quando l’occlusiva sorda è preceduta da un’altra fricativa, non diviene fricativa (sorda) ma resta occlusiva: si tratta di una chiara violazione della legge di Grimm, che si ha per esempio nel tedesco ist, “egli è”, dall’indoeuropeo *esti, , dove l’occlusiva sorda t non passa a fricativa sorda (per esempio una ipotetica forma *isp) ma resta occlusiva in quanto preceduta dalla fricativa s.

Le legge di Verner è un chiaro esempio di una mutazione linguistica che è venuta dopo nel germanico ma non ha annullato del tutto gli effetti della precedente legge di Grimm. Per questa ragione nelle lingue germaniche è possibile trovare nello stesso paradigma di un verbo gli effetti sia della legge di Grimm sia della legge di Verner. Facciamo questo esempio. Il tedesco “tirare”, zieh-en (dove h è l’esito finale di una k per via della legge di Grimm), ha il participio p. (ge)zog-en. Perché? È successo questo: zieh-en mantiene la h, questa consonante non è mutata dalla presenza della fricativa z (come sarebbe dovuto essere per via della legge di Verner); la g di zog-en si spiega perché la k dapprima muta in x per via della legge di Grimm, in seguito la x muta in g per via della legge di Verner.

Certamente ci sono notevoli problemi per parlare del protogermanico, ma l’esistenza di leggi fonetiche che sembrano attestate in tutte le lingue germaniche fa propendere verso l’idea di una unità linguistica che si è staccata dall’indoeuropeo comune. Facciamo riferimento altresì a questi fenomeni:

  • Mutamento dell’accento con notevoli conseguenze sillabiche e quindi morfologiche;
  • Conversione delle vocali lunghe ō, ā indoeuropee nella vocale ō (mentre la situazione dell’indoeuropeo è attestata dal latino mater, in inglese invece abbiamo mother);
  • Esito delle sonanti indoeuropee in u (da cui il prefisso di negazione un-, attestato anche in inglese);
  • Riduzione dei casi a: nominativo, accusativo, genitivo, dativo;
  • Riduzione delle categorie verbali a due tempi (presente e preterito) e tre modi (indicativo, ottativo con funzione anche di congiuntivo e imperativo);
  • Una notevole parte del lessico, anche di origine non indoeuropea, trova corrispondenza in tutte le lingue germaniche e può essere quindi attribuita alla fase unitaria del protogermanico.  E così via.

Tra le lingue le comparazioni possono essere di due tipi: essenziali (certe somiglianze si spiegano con una parentela) oppure fenomeniche (certe somiglianze sono casuali, solo illusorie). È certamente indoeuropeo che sia l’italiano sia il tedesco hanno gli ausiliari “avere” e “essere” (anche se poi la struttura di ciascuna lingua li adopera in maniera originale: per esempio, come osserva  Serra Borneto, in tedesco haben ha come archetipo concettuale quello del modello canonico dell’evento, invece sein quello del movimento su un percorso).

Invece una comparazione fenomenica è quella tra germanico e tedesco. Martinet (2001) scrive che “il funzionamento del sistema consonantico ricostruito per il germanico comune, che si ritrova effettivamente in gotico, somiglia in modo sorprendete a quello dello spagnolo moderno”. Ma, stando alle conoscenze che abbiamo finora, tra il consonantismo delle lingue germaniche (che si è evoluto in maniera autonoma per via della legge di Grimm e della legge di Verner) e quello dello spagnolo (che è sì una lingua indoeuropea ma romanza) non ci sono rapporti di parentela ma solo fenomenici.

Le letterature antiche iniziano in forma di poesia. La poesia accadica non ha ancora una metrica vera e propria, ma si gioca sul parallelismo dei membri. Nelle lingue semitiche la poesia ha spesso una metrica confusa, la quale risulta più un impasto sonoro che retta da vere regole metriche, fatta eccezione per l’arabo, in cui è sempre rigorosa. La riflessione araba ha elaborato anche la scienza delle strutture di fine verso, detta qāfiya, che ha avuto notevoli sviluppi pure nel persiano.

Il Corano si può leggere in un senso letterale e in un senso spirituale, superiore, allegorico, dove la lettera è un simbolo percepibile solo dall’iniziato. Corano 41, 53: “Mostreremo loro i nostri Segni negli orizzonti e nelle loro anime”. Negli orizzonti (āfāq), cioè nel mondo esteriore, e nelle loro anime (anfos), cioè nel mondo spirituale. Per cui esiste il tempo storico (zamān āfāqī), cioè della storia esteriore, e il tempo spirituale (zamān anfosī), cioè il tempo degli eventi dell’anima. Per cui quando il Corano narra di una storia particolare, quella vicenda ha un senso esteriore (ciò che le parole dicono), ma ha anche un senso spirituale (ciò a cui quelle parole alludono). La metrica e le altre figure di suono possono essere dei segni che contribuiscono all’allusione, all’ammiccamento del dettato. Lo sciismo e il sufismo hanno trovato molte allusioni nelle vicende e nelle parole dell’Islam. La tradizione del sufismo afferma che il mondo è come due lettere dell’alfabeto arabo: ayn e ghayn, in quanto c’è da una parte la vera essenza (simboleggiata esotericamente dalla lettera ayn) e dall’altra la assenza (a cui allude la lettera ghayn per un gioco di suono con il termine arabo ghayaba, “assenza”). È significativo che la parola araba kaṭṭ, “scrittura”, è usata per indicare anche i solchi che si fanno sul suolo per il drenaggio dell’acqua, quindi per estensione indica anche i solchi in genere sulla sabbia. Per questo nell’Arabia pagana la parola significa altresì la linea di incisione della sabbia per le tecniche di psammomanzia, ragion per cui il ‘ilm al- kaṭṭ designa l’arte di interpretare i solchi lasciati dal vento sulla sabbia. La poesia biblica ebraica si basa sul parallelismo, la allitterazione e la metrica, quest’ultima solo quando gli studiosi la riconoscono. È un po’ come la metrica degli Avestā, ci sarebbe ma non sempre. Scrive, infatti, Schökel: “Nell’ambito degli studi sulla poetica dell’Antico Testamento l’ideale della regolarità ritmica accese polemiche infuocate e ipotesi contrastanti di soluzione. La discussione vide da una parte i difensori dell’assoluta regolarità (Grimme, Rothstein), dall’altra i moderati, più tolleranti e meno dogmatici (Haupt, Staerk, Gray, König). La correzione del testo ebraico metri causa, cioè per ragione di metrica, divenne una moda dominante e venne sistematicamente praticata senza senso critico. Quello che era accettabile come eccezione, si impose di fatto come ordinario. Oggi in materia di ritmo e di testo ci muoviamo con più cautela ed umiltà”. La poesia egiziana ha un numero regolare di unità accentuali. Grandet e Mathieu scrivono: “A differenza della poesia greca o latina, fondata su una concatenazione regolare di sillabe lunghe e brevi, o della poesia italiana classica, che si basa su un numero fisso di sillabe per ciascun verso e sull’impiego della rima, l’antica poesia egiziana presenta solitamente una successione di distici – il distico corrisponde a una coppia di due versi o stichi, e ogni stico comporta un numero fisso di unità accentuali. È su un numero definito di unità accentuali, ripartite all’interno di una successione di due versi, che si basa l’essenza della metrica egizia”.

I Veda sono in metrica, così come l’Iliade e l’Odissea. I filologi osservano come la metrica dei due poemi omerici, basata sull’esametro dattilico, è troppo elaborata per essere all’inizio della letteratura greca, cioè probabilmente l’esametro omerico è il prodotto finale di una lunga tradizione greca che però non ci è giunta (gli stessi poemi omerici testimoniano dell’esistenza di cantori che precedono Omero). Lo stesso discorso vale anche per il patrimonio mitico e letterario. Burkert sostiene che una prima classificazione degli dei appare già nelle tavolette micenee, le quali non hanno carattere letterario-artistico ma amministrativo.

Sono molte, inoltre, le coincidenze tra miceneo e greco omerico. In due tavolette micenee dell’archivio di Pilo è registrata la contesa giuridica tra una sacerdotessa e il collegio del damos. Lo scriba ricorda l’espressione con la quale la sacerdotessa esprime la rivendicazione: e-ke-que/eu-ke-to-qe/e-ke-e, identica alla formula greca echei te euchetoi te echeen.  Ora, il nesso euchomai + infinito è  ricorrente nei poemi omerici (per esempio in Iliade XVIII 499). Bisogna altresì ricordare che questi tratti caratteristici della lingua omerica si ritrovano già nelle tavolette micenee: genitivo plurale in -aōn, genitivo singolare in -oio, desinenza dello strumentale in -phi. Chantraine (1958) rileva come il greco omerico sia arcaico e abbia contatti con il miceneo, anche se le differenze tra queste due lingue sono profondes.  Per Chantraine molta fonetica in comune tra miceneo e greco omerico non si può ricostruire per via della inesattezza del sistema grafico della prima lingua, tuttavia egli segnala forme come ptolemos e ptolis (fenomeno che si ritrova in un nome proprio miceneo: potoremata). La morfologia mostra collegamenti migliori: oltre a quelli indicati, segnaliamo che in miceneo si trova il perfetto araruja identico a quello omerico araruia.

Conosciamo direttamente (cioè quando i greci antichi ce ne parlano) la metrica greca solo in parte. Rossi scrive: “Per capire la metrica antica è necessaria l’obserbatio (lo studio della prassi poetica) e la conoscenza della teoria antica; la teoria moderna è valida solo in quanto tenga presenti questi due fattori. Alla linguistica siamo debitori della nostra conoscenza, anche se incompleta, della prosodia e dell’accento. Poiché la poesia greca, a differenza di quella latina, era quasi sempre accompagnata dalla musica (almeno fino alla fine del IV secolo a. C.), e spesso anche dalla danza (lirica corale e cori del dramma), bisogna tenere conto anche di queste due ultime componenti, sebbene la documentazione sia scarsa”.

Dal confronto con le lingue indoeuropee è possibile ipotizzare la metrica dell’indoeuropeo, specie dal verso vedico e dal verso greco. Meillet scrive: “La metrica greca appartiene allo stesso tipo della metrica vedica. In tutte e due, l’accento proprio delle parole … non ha nessuna importanza. In tutte e due, il verso è definito soltanto dalla sua estensione e dall’alternarsi di sillabe lunghe e di sillabe brevi, tenuto conto della fine di parola, che nelle antiche lingue indoeuropee aveva un particolare valore: la metrica greca è quantitativa; il ritmo è fondato esclusivamente sull’alternarsi di sillabe di quantità diversa, come del resto ci si aspetta conoscendo la struttura quantitativa – e non accentuativa nel senso moderno della parola – dell’indoeuropeo comune”. Quindi Meillet conclude che la metrica vedica e greca corrisponda a quella indoeuropea.

West, riprendendo in seguito gli studi di Nagy, corrobora la tesi tradizionale che Meillet cita e la arricchisce di nuovi dati. In molti poemi epici dell’antichità, tra cui quelli indiani e quelli omerici, è ben attestata la legge di Behaghel, per cui entro un periodo le frasi sono poste in ordine crescente di lunghezza e complessità. West definisce Augmented Triad un caso particolare di questa legge, cioè quando c’è un elenco di tre sostantivi simili e solo all’ultimo di questi è assegnato un epiteto (Iliade 2, 498: “e Tespia e Graia e Micalesso spaziosa”).

I due poemi omerici sono scritti in un greco artificiale che è un insieme dei dialetti greci, però senza il dorico, questo perché l’epica nasce in una antichità remota, prima dell’invasione dei dori. Certamente Omero conosce i dori, però si tratta di un anacronismo, vale a dire che le tracce dei dori presenti nell’epoca omerica molto probabilmente sono state aggiunte in seguito.

Per gli stoici il mondo è retto da una Ragione divina (Logos), quindi tutto può essere segno di questa Ragione, basta saperlo interpretare. Oracoli Caldaici 108: “Il Nous paterno inseminò segni attraverso il cosmo”. Tutti noi conosciamo la parola “oracolo”, e quanto sia importante nel mondo greco antico che una divinità parli e predica il futuro, per esempio la Pizia è una sacerdotessa che parla in nome di Apollo. Oraculum deriva dal verbo latino orare, “parlare”, e dal suffisso strumentale –clo: all’inizio con la parola oraculum si intende non il responso ma lo strumento attraverso il quale il dio lo dà. Ma gli oracoli del dio vanno interpretati: anche le parole devono essere oggetto di interpretazione da parte di categorie di persone esperte nelle cose sacre. In greco “segno” è detto sēma: Chantraine (1999) osserva come i nomi in –ma (del tipo sōma) hanno etimologia oscura e per il “segno” richiama la spiegazione di Brugmann, il quale evoca un possibile accostamento con il verbo sanscrito dhyayati, “pensare”.  Quindi il segno per essere capito va pensato: ci si deve interrogare sul segno per capirlo pienamente.

Per gli stoici la parola è “un suono in forma articolata”, phonē eggrammatos (così Diogene di Babilonia, fr. DB 20 von Arnim).

La parola ha due livelli:

  • Significante: il suono delle lettere che formano la parola “gatto”;
  • Significato:  quando diciamo “gatto” ci riferiamo all’animale peloso a quattro zampe.

Martinet (1966) parla di una doppia articolazione del linguaggio verbale:

  • Prima articolazione: è formata dal morfema (che è grammaticale: nella parola “gatto” è la o finale che indica genere e numero) e dal monema (che è semantico: il significato, cioè l’aspetto semantico, è veicolato dalla prima parte della parola, cioè da “gatt-“);
  • Seconda articolazione: i fonemi, cioè singoli suoni corrispondenti alle lettere dell’alfabeto che, uniti, formano la parola (g/a/t/t/o).

Secondo altri autori, dal punto di vista funzionale, abbiamo questa suddivisione:

  • Morfema lessicale: quello che dà il significato di una parola (“gatt-“ dà il significato della parola “gatto”);
  • Morfema grammaticale: esprime le categorie grammaticali. Può essere morfema flessionale (la o di “gatto”) oppure morfema derivazionale (prefissi e suffissi delle parole).

Nel segno linguistico (parola) vi sono quattro tipi di arbitrarietà:

  • È arbitrario il rapporto tra il segno e il referente, cioè l’oggetto in carne e ossa, cioè tra la parola “gatto” e l’animale peloso a quattro zampe;
  • È arbitrario il rapporto tra significante e significato (dove per significato si intende l’idea che il significante ci fa venire in mente quando lo ascoltiamo);
  • È arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significato;
  • È arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significante.

Le lingue del mondo hanno molte risorse per esprimere il messaggio. L’elemento centrale di una frase è il verbo, il quale determina alcuni posti virtuali che possono essere riempiti solo da sintagmi specifici, cioè gli argomenti. L’insieme degli argomenti di un verbo si chiama struttura argomentale. Il verbo “vede” suppone due argomenti: un soggetto (il gatto) e un complemento oggetto (cosa vede il gatto? Il gatto vede le crocchette).

Una frase è costituita da questi elementi:

  • Costituenti: il nome per il sintagma nominale e il verbo per il sintagma verbale);
  • Funzioni grammaticali: soggetto, verbo e complementi;
  • Ruoli semantici: agente, paziente, destinatario, e così via.

Tesnière (1959) concepisce il verbo come il nodo che esprime un piccolo dramma. Ciò comporta un processo e degli attori o “attanti”: entità o cose che, a un titolo qualunque e in qualsiasi modo, anche come semplici figure e nel modo più passivo, partecipano al processo. A questa parte obbligatoria si possono aggiungere degli elementi circostanziali: esprimono le circostanze di tempo, luogo, maniera o altro secondo le quali si svolge il processo.

Il concetto di valenza corrisponde a questo: come un atomo esercita la sua attrazione su altri elementi per formare una molecola, così il verbo esercita la sua attrazione per legare a sé, o “saturare”, una serie di elementi nominali (attanti) e così formare una frase.

Tesnière distingue:

  • verbi senza attanti (o avalenti o impersonali). Sono per esempio i verbi meteorologici che non hanno né soggetto né complemento (grandina);
  • verbi a un solo attante (o monovalenti): Paolo dorme;
  • verbi a due attanti (o bivalenti transitivi): il ragazzo studia la lezione;
  • verbi a tre attanti (o trivalenti transitivi): hanno sia oggetto diretto che indiretto, oltre al soggetto: Luigi ha inviato una lettera a Laura;
  • verbi a quattro attanti (tetravalenti), sono pochi, come Maria sta traducendo la versione dal greco all’italiano.

Si distingue  fra lingue a soggetto nullo (o pro-drop: cioè il soggetto sottinteso della grammatica tradizionale) e lingue a soggetto non nullo (o non pro-drop: le quali non permettono la sua omissione).

Nelle lingue a soggetto nullo (italiano) dove esso non compare superficialmente abbiamo in sintassi una posizione vuota o non realizzata foneticamente (per esempio quando si dice sottintendendo il soggetto: dorme). Con i verbi impersonali abbiamo posizioni di soggetto non realizzate né foneticamente né semanticamente. Si tratta infatti di posizioni “vuote” che in italiano comportano una flessione fissa alla terza persona singolare (per esempio:  piove).

Nelle lingue a soggetto non nullo (inglese) si ha l’obbligo di realizzare sempre foneticamente un soggetto. Anche con i verbi impersonali è obbligatoria una forma pronominale che stia per soggetto (detto fittizio o fantoccio),  cioè semanticamente vuoto.

In tutte le lingue, anche quelle a soggetto nullo, alcuni ritengono che ci sia sempre a un livello di Base (o Profondo) un soggetto.

La tipologia linguistica distingue nella struttura della frase tra:

  • ordine di verbo (V) e oggetto diretto(O);
  • struttura del sintagma adposizionale: preposizioni (Pr) vs. posposizioni (Po);
  • ordine di nome e genitivo nel sintagma nominale (NG vs GN);
  • ordine di nome ed aggettivo nel sintagma nominale (NA vs AN).

I tipi logicamente possibili sono svariate decine, ma quelli  effettivamente attestati tra le lingue del mondo sono circa 18. Tuttavia, la maggior parte delle lingue parlate al mondo tende a concentrarsi in tre tipi:

  • VO, Pr, NG, NA: ebraico, aramaico, arabo, berbero; masai; lingue polinesiane e probabilmente altre lingue austronesiane; la maggior parte delle lingue del gruppo benue-congo incluse tutte le lingue bantu; la maggior parte della famiglia camito-semitica; vietnamita, le lingue tailandesi;
  • OV, Po, GN, AN: hindi, bengalese e altre lingue arie dell’India; armeno moderno; coreano, giapponese, molte lingue caucasiche; lingue dravidiche;
  • OV, Po, GN, NA: birmano, tibetano classico; la maggior parte delle lingue australiane.

Per Austin la produzione (=l’uso) di un enunciato coinvolge tre atti linguistici allo stesso tempo:

  • Atto locutivo: formazione della struttura frasale (Gianni ha preso un bel voto all’esame).
  • Atto illocutivo: significato fondamentale dell’enunciazione = scopo fondamentale del contenuto dell’enunciato (dichiarazione, richiesta, ordine).
  • Atto perlocutivo: scopo ultimo dell’enunciato nell’interazione = effetto che si vuole causare nel ricevente (per esempio, il parlante vuole stupire il ricevente che non sia aspettava un esito positivo dell’esame di Gianni).

I Significati Impliciti favoriscono l’efficienza della comunicazione perché trasmettono informazione senza che questa debba essere sottoposta all’articolazione del suono. Nello stesso tempo i significati impliciti possono sfavorire l’elaborazione dell’informazione da parte del ricevente: la comunicazione, infatti, è sempre ricerca di un equilibrio tra sintesi e perspicuità.

Sono due i tipi fondamentali di significati impliciti:

  • presupposizioni: parte del significato resta vera anche se si nega la frase (Francesco ha smesso di fumare = Francesco fumava);
  • implicature: inferenze non necessariamente logiche (= non necessariamente vere) ricavate attraverso l’applicazione di alcune massime d’uso della lingua (massime di Grice). Esempio. Il mittente dice: Hai portato giù la spazzatura? Il destinatario risponde:: Il camion dei rifiuti passa tra due ore. L’implicatura è questa: Non ho portato giù la spazzatura. Mentre la presupposizione è sempre ancorata alla forma linguistica, le inferenze sono per lo più fondate sulla nostra conoscenza del mondo.

La Frame Semantics è una semantica che nasce in particolare con Fillmore, che tra l’altro è uno dei fondatori della Construction Grammar. Si tratta dello studio di come associamo forme linguistiche (parole, sintagmi, schemi grammaticali) con le strutture cognitive – i frames – che determinano in gran parte il processo di interpretazione di queste forme (e i loro risultati).

I verbi sono provvisti di un significato lessicale. Questo significato lessicale, per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, è stato considerato prevalentemente come analizzabile in modo rigido. La cosa importante, che è emersa in questo periodo (che è quando nasce la linguistica cognitiva, di cui la Frame Semantics fa parte) è che bisogna mettere in relazione i significati con gli schemi concettuali che da essi sono presupposti. La Frame Semantics si riferisce non solo ai significati di parole ma anche di sintagmi, forme

grammaticali, costruzioni. Tutti questi significati non vanno intesi singolarmente ma solo in base a un contesto più ampio, cioè i frames.

La Frame Semantics si oppone alla semantica strutturale e si riferisce a un’ampia gamma di approcci che mirano a descrivere in modo sistematico i significati delle lingue naturali. La cosa importante, comune a tutti questi approcci, è che meanings are relativized to scenes, cioè che i significati sono relativizzati rispetto a scene. Questo vuol dire che i significati per essere compresi vanno messi in relazione con questi scenari/schemi concettuali, formati su basi esperienziali, che si presuppongono.

Nell’ambito di queste teorie che riguardano questo approccio alla semantica, quella di Fillmore è particolarmente importante. Questa nozione di frame, cioè di scena di fondo/inquadramento concettuale, è stata molto in voga nelle teorie sull’intelligenza artificiale degli anni Ottanta.

Fillmore e Baker (A Frames Approach to Semantic Analysis, 2011) affermano che in quanto esseri umani abbiamo accesso a ciò che ci consente di costruire questi frames, quindi:

  • alcuni frames derivano dal fatto che viviamo sulla terra e interagiamo con altri esseri viventi;
  • altri derivano dalla nostra corporeità, es. il frame del calore o del dolore;
  • altri hanno basi socioculturali, es. il frame del matrimonio;
  • altri ancora derivano dall’essere parte di una data comunità linguistica

Per esempio la parola “torta” non ha solo un significato (il classico dolce rotondo), ma può essere compresa pienamente solamente al frame specifico, per esempio al frame della festa di compleanno oppure a quello del matrimonio. Noi non pensiamo mai, quando diciamo la parola “torta”, solo al significato, ma inquadriamo la scena mediante i frames, cioè un contesto più ampio.

La categorizzazione è un processo con cui gli esseri umani raggruppano in classi le entità del mondo che li circonda in base alle somiglianze/differenze che percepiscono tra loro. Se ci sono somiglianze inseriamo queste entità in una stessa categoria; viceversa, se ci sono differenze, una certa entità la metteremo in un’altra categoria.

Organizziamo nella nostra mente il mondo che ci circonda e in questo modo riusciamo a ragionare in modo più agevole e pratico, alleggerendo il carico della nostra memoria. Quando parliamo di categorie, facendo riferimento a categorie di pensiero, facciamo riferimento a categorie concettuali, cioè chiamiamo la costruzione mentale astratta categoria concettuale.

La categorizzazione è stata oggetto di studio sin dall’antichità classica: Aristotele elabora il cosiddetto “approccio classico” o “teoria classica della categorizzazione”. La teorizzazione di Aristotele prevede delle categorie con confini netti e un’appartenenza ‘sì’ o ‘no’ a una categoria. Si basa su tre punti:

  • Le entità che appartengono a una categoria condividono tutte allo stesso modo gli stessi tratti necessari e sufficienti: per “tratti necessari” si intende che qualsiasi entità che non ne esibisca l’intero insieme non è membro della categoria; Per “tratti sufficienti” si intende che possedere tutte le caratteristiche garantisce l’appartenenza alla categoria.
  • Se tutte le entità che appartengono a una categoria condividono esattamente le stesse proprietà necessarie e sufficienti, significa che sono tutte allo stesso livello: non c’è una gerarchia/strutturazione interna.
  • Se una categoria è definita dal fatto che le entità condividono tutte le stesse proprietà necessarie e sufficienti, i confini della categoria sono netti. Le categorie hanno un confine netto e rigido (=discrete) e non esistono gradi di appartenenza.

Una teoria come questa è rigida, non permette sfumature e gradualità. Però, c’è differenziazione all’interno di una categoria, ci sono confini sfumati. Ragionare in linguistica con categorie aristoteliche funziona fino a un certo punto. Funziona bene nella descrizione dei tratti binari dei fonemi. Per le altre aree non è valida, soprattutto per quanto riguarda la vaghezza dei significati. A questo punto, non solo linguisti, ma anche psicologi e antropologi, si sono resi conto che classificare in modo rigido non era funzionale. Dagli anni Settanta nasce questa nuova teoria della categorizzazione, che si chiama teoria dei prototipi.

La teoria dei prototipi si contrappone punto per punto alla teoria aristotelica:

  • Una categoria è definita sia da proprietà necessarie e sufficienti (nucleari) che da tratti graduali e non essenziali (non devono essere tutti condivisi). Ad avere tutte le caratteristiche tipiche della categoria è il prototipo, che per questo viene percepito dai parlanti come il miglior esemplare.
  • I membri non sono equivalenti (categorie internamente strutturate). Man mano che gli elementi condividono meno caratteristiche con il prototipo, si allontanano dal centro categoriale e vanno a spostarsi verso le periferie. Questo fa sì che i membri non abbiano tutti lo stesso status.
  • Una categoria è delimitata da confini sfumati che si sovrappongono parzialmente a quelli di altre categorie. Le categorie non nascono in base alla forma che la lingua strutturalmente dà alla massa del pensiero, ma sono condizionate da principi percettivi e cognitivi, che si formano su base bio-esperienziale.

Anche la Linguistica cognitiva, pur nel suo fiorire di teorie, condivide tre assunti fondamentali:

  • Il linguaggio non è una facoltà autonoma: concetto che si oppone alle teorie precedenti (strutturalismo e generativismo). C’è quindi un legame indissolubile tra il linguaggio e le altre facoltà cognitive (comprensione, concettualizzazione, categorizzazione, percezione, e così via). Noi non esprimiamo eventi nelle lingue, ma concettualizzazioni di eventi: descrivere uno stato di cose o esprimere la concettualizzazione che un parlante fa di uno stato di cose non è la stessa cosa. Un evento viene espresso in modo dipendente/conseguente dal modo in cui un parlante lo concettualizza.
  • I concetti/significati hanno un radicamento esperienziale e corporeo (teoria dell’embodiment). Concettualizzazioni e processi cognitivi sono il risultato dell’interazione mente-ambiente mediante il nostro corpo. Vi è quindi opposizione alla concezione algoritmica della mente (quella chomskiana ma soprattutto della linguistica computazionale, che vede la mente come una macchina).
  • Centralità della semantica. Con un totale capovolgimento di prospettiva rispetto al generativismo, la semantica diventa prioritaria rispetto alla sintassi. Questo raggiungerà il suo culmine nella Construction Grammar, dove tutto nella lingua diventa un segno (associazione di significante e significato). Questo approccio si collega al fatto che il costituirsi dei concetti (quindi della componente mentale), e il loro organizzarsi in significati, è fortemente collegato a questa esperienza psicofisica, alle basi bio-esperienziali. Per questo la Semantica cognitiva, così come è stata sviluppata da Lackoff, è chiamata Semantica esperienziale.

Ci sono tre principali direzioni di ricerca della semantica cognitiva:

  • Indagine sulle strutture preconcettuali esistenti nella nostra esperienza corporea. Quando si costruiscono i concetti, ci sono differenti livelli di elaborazione concettuale, per cui a un primo livello ci sono delle strutture che richiedono un’elaborazione minima o addirittura si costruiscono direttamente; queste strutture preconcettuali sono chiamate schemi di immagine o image schemas. Casadei ne dà questa definizione: strutture in cui sono rappresentate, in forma non proposizionale ma appunto di immagine, conoscenze esperienzialmente salienti, che ricorrono frequentemente nell’esperienza quotidiana. Per Casonato e Cervi: gli schemi di immagine sono modi di costruire il significato, costituiti da un’immagine che proviene dall’esperienza della realtà che l’uomo fa in virtù del fatto di vivere in un corpo umano in un ambiente terrestre. Un esempio di schema di immagine è quello del contenitore, frequentissimo nelle metafore. Non c’è elaborazione, è qualcosa che si costruisce con un’esperienza (il nostro corpo è un contenitore). Quando diciamo “Siamo in pericolo!”, una situazione di pericolo viene vista come un contenitore (quindi qualcosa di concreto, a noi noto per le nostre basi bio-esperienziali) in cui ci troviamo a stare (usiamo la parola “siamo”). Quando diciamo “Mario è in anticipo!”, essere in anticipo significa che ci si trova in una porzione di tempo che ci sta contenendo (verbo “è”).
  • Indagine dei meccanismi che consentono lo sviluppo di concetti astratti a partire da concetti legati all’esperienza corporea. Il centro di questa indagine sono i meccanismi metaforici. Per i cognitivisti le metafore non sono espedienti retorici o stilistici, ma meccanismi concettuali che permettono di organizzare il nostro sistema concettuale e si riflettono a livello linguistico. Le metafore consentono di concettualizzare ed esprimere concetti astratti e lontani dall’esperienza fisica.
  • Analisi del mutamento semantico o della polisemia. Si considera sia l’analisi diacronica (mutamenti di significato che avvengono nello sviluppo di una lingua) che sincronica (all’interno della stessa lingua in un dato lasso di tempo). Il significato è considerato una categoria prototipica. Particolarmente rilevante è lo studio della polisemia, trascurato dagli approcci precedenti.

Le lingue del mondo hanno diversi sistemi di scrittura. Nel 1883 Taylor li divide in tre tipi:

  • Scrittura logografica (in cui i segni esprimono idee, come quella cinese, il geroglifico egiziano);
  • Scrittura sillabica (in cui il segno esprime una sillaba, pensiamo alla scrittura del sanscrito o a quella del miceneo);
  • Scrittura alfabetica (in cui ogni segno è una lettera, sistema inventato dai fenici sul modello di alcuni segni geroglifici egiziani).

In seguito gli studiosi portano all’attenzione della comunità scientifica altri due tipi di scrittura:

  • Scrittura abjad (per esempio quella di molte lingue semitiche, che segna solo alcuni fonemi ma non tutti: la maggior parte delle lingue semitiche ha il cosiddetto “scheletro consonantico”, cioè scrive unicamente le consonanti e può indicare le vocali con segni non alfabetici);
  • Scrittura abugida (per esempio quella dell’etiopico, in cui un segno fonde assieme consonante e vocale).

Oggi gli studiosi datano la nascita della scrittura (e quindi della storia) dal III millennio a. C. con quella sumerica e quella egiziana. Nella Valle dell’Indo compaiono nello stesso periodo dei segni che non è facile intendere. Masson tuttavia ha inteso i segni della cultura danubiana tra VI e IV millennio a. C. quasi come un tipo di scrittura, in quanto si leggerebbero da sinistra verso destra.

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Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 35 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

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