IL “POLITICAMENTE CORRETTO” È FRUTTO DELL’OMOLOGAZIONE
Il ricorso all’espressione politicamente corretto non è un’invenzione dei giorni nostri, e nemmeno di una ventina d’anni fa. Ricordiamo di averla sentita già nei primi anni Settanta, anche se aveva il senso di un ricorso a un codice comportamentale, piuttosto che esclusivamente linguistico. Nacque quindi molto probabilmente intorno al 1968, e recentemente la comunicazione di Jezz Turner all’incontro di E u r h o p e tenutosi a Milano ne ha fatto l’oggetto principale, segnalandone la pervasività e il suo carattere particolarmente pernicioso. In effetti il criterio del politically correct si segnala sempre di più come una sorta di correttore automatico delle modalità linguistiche non conformi al linguaggio del potere, di per sè sempre più innovativo e staccato sia dalla retorica tradizionale che dal senso comune.
Ci si trova di fronte al più perfezionato e scientifico esperimento di creazione di una vera neo-lingua, diversamente dagli stessi linguaggi totalitari storicamente conosciuti, che si limitavano a creare una loro retorica enfatizzando alcuni aspetti ed eliminando termini non graditi, ovvero individuando quelli su cui insistere con toni negativi.
Il processo di omologazione e standardizzazione del linguaggio parte da lontano, e in un certo qual modo conferma l’analisi evoliana di una convergenza sostanziale fra liberalismo anglosassone e comunismo. Quando, conclusasi la Seconda guerra mondiale, i vari partiti comunisti occidentali si trovarono ad agire nelle rispettive nazioni, si attivarono anche su diversi piani sovrastrutturali, dalla conquista gramsciana dei centri di elaborazione del pensiero alla propaganda di strada, con tutti I vari strumenti atti allo scopo. Scatenarono, nel contempo, quella che venne definita guerra delle parole, con un’incessante demonizzazione dell’avversario. Venne così a crearsi un lessico politico basato su pochi slogan e parole chiave che divennero patrimonio di ogni militante ma lentamente penetrarono nella stessa retorica democratica. Sul versante atlantico, semplificando molto, si può dire che si passò, anche in concomitanza col cosiddetto disgelo e con l’inizio delle varie campagne per i diritti civili, dalla caccia alle streghe maccartista a un’atmosfera sempre più aperta alle stesse formule linguistiche della sinistra più estrema, che cercava di recuperare spazi soprattutto negli ambiti culturali come case editrici, redazioni e università. Ma a prescindere dall’azione penetrante di questi gruppi più o meno organizzati, la stessa modalità maccartista poteva tranquillamente riconvertirsi nell’antico spirito messianico e puritano degli Stati Uniti, incarnatosi in una crociata per la democrazia che è di fatto la loro condizione permanente e che si sempre tradotto sul piano politico e militare in aggressioni e operazioni di polizia internazionale.
In Europa quest’ideologia si è ugualmente affermata, come è purtroppo naturale in un continente che è rimasto dal 1945 in una condizione semi-coloniale. Paradossalmente, proprio nei paesi dell’ex blocco sovietico quegli imperativi linguistici hanno ancora meno presa, anche se non è dato sapere quale sia la soglia di resistenza all’omologazione. L’azione culturale e ideologica della Gran Bretagna, vera testa di ponte atlantista, si muove secondo i meccanismi della cinghia di trasmissione, con effetti notevoli sui paesi dell’area scandinava, Belgio e Olanda, mentre per la Germania vale soprattutto quanto diagnosticato già nell’immediato dopoguerra da Caspar Schrenck-Notzing, nel suo Lavaggio del carattere.
È stato tuttavia Robert Hughes, col suo lucidissimo La cultura del piagnisteo, che ha spiegato come l’ideologia del politically correct abbia preteso di orientare, come una sorta di nuova morale religiosa, comportamenti sessuali, gusti letterari e artistici, modo di parlare, vestire e scrivere, fino a realizzare una vera e propria eterodirezione coatta delle scelte politiche. Lo si sta vedendo, in Italia come in tutta Europa, anche riguardo alla strumentale autocensura su simboli e manifestazioni religiosi, quasi mai richiesta, peraltro, da minoranze che si ritiene di non dover offendere, ma perseguendo, in realtà, una politica iperlaicista che per anni non si è avuto il coraggio di fare. Anche qui si realizza una ben triste sinergia, con autorità o esponenti religiosi che spesso si spingono a censurare preghiere di corpi militari, e appare sempre più verosimile la profezia di Raspail col suo Il campo dei santi. La diffusione del politically correct, e parlandone riteniamo giusto citarlo così, non traducendolo e certificandone la sua estraneità, dando cioè a Piccolo Cesare quel che è di Piccolo Cesare, si fonde sempre di più con la formazione della neolingua, fondamentale per la dis-informazione, come ha splendidamente immaginato anche Massimo Fini nel suo Il Dio Toth, in cui esiste solo un’informazione che si avvita su se stessa e parla di se stessa, megafono del nulla e ignoranza di quel poco di realtà che resta, e che quindi non esiste, perchè, come si immagina nel romanzo «La notizia è il fatto/il fatto è la notizia», e se non c’è la notizia non c’è nemmeno il fatto.
Soprattutto è sconcertante quanto sta emergendo nelle università americane, dove è in atto una vera e propria pulizia etnica di docenti non in linea con queste modalità e con determinati corsi di insegnamento. Già da anni sono dogmi l’idea della superiorità morale del socialismo, anche del socialismo reale, su ogni altra idea, del retaggio ancora molto importante dell’insegnamento marxiano. L’affermazione che le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono costruite socialmente è considerata incontrovertibile, e se i problemi dell’underclass sono dovuti al razzismo, tutto il Terzo Mondo si trova nella condizione attuale perdurando gli effetti del colonialismo. Addirittura si sostiene sempre più decisamente che la civiltà occidentale è oppressiva verso le donne e la «gente di colore», e si ritiene corretto affermare che i prodotti della civiltà occidentale sono spiritualmente inferiori a quelli delle altre culture. Ma il surreale avanza e fonti giornalistiche sostengono che nell’ateneo di Berkeley è invalso un regolamento che vieta persino di proferire frasi del tipo «come sei silenzioso oggi» o chiedere a una persona dove sia nata. Tutto è considerato razzismo e parole come americano, omosessuale, anziano o straniero vengono considerate discriminatorie, secondo una modalità che comunque, per quanto incistatasi in una cultura demo-liberale, a nostro avviso è essenzialmente di matrice marxista, di quel marxismo post-sessantottino che ha inteso rifare il mondo a partire dal linguaggio.
Sono aspetti che in qualche modo si intrecciano e si accavallano, ma resta il fatto che dovremo divenire sempre più politicamente scorretti, e dovremo capire in modo più preciso come questa patologia si sia generata e come contrastarla.
A cura de ‘La Gilda dei Lanzichenecchi’