Viviamo in un’epoca di «acque basse». La nostra vita è costretta a dipanarsi nell’angusto orizzonte segnato dal domino universale della merce, della produzione, del consumo. Siamo «consumatori consumati» che hanno nel soddisfacimento narcisistico dei desideri, il più delle volte eterodiretti, lo scopo del vivere. Tutto ciò, per quanti non si riconoscano nel tipo dell’uomo senza Tradizione, protagonista indiscusso sulla scena del mondo, non deve essere motivo di sconforto. Quando il pericolo è estremo, maggiori sono le possibilità di un Nuovo Inizio. Tale tema è, ab origine, al centro della produzione teorica di Marcello Veneziani ed è il file rouge che muove le pagine del suo ultimo libro, Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee, nelle librerie per i tipi della Marsilio (pp. 301, euro 18,00).
Nel volume l’autore risponde ad una vera e propria esortazione che, qualche decennio fa, il filosofo Augusto Del Noce lanciò agli uomini di cultura. A dire del pensatore piemontese sarebbe stato indispensabile realizzare una «demitizzazione della modernità» atta a chiarire, in modo plausibile e forte, come le ragioni della «crisi» della contemporaneità fossero implicite nella stessa nozione di ratio. Gli illuministi e i libertini, gli uni sul piano teorico, gli altri sul piano dei comportamenti, avevano tentato di «demitizzare la Tradizione», avevano tentato di sbarazzarsi degli dei, delle: «cose essenziali, decisive, fatali, che destinano il corso della vita, della morte, del mondo» (p. 7), al fine di liberare l’umanità dall’insecuritas e dall’alienazione. L’oblio degli dei si è rivelato altro rispetto alle speranze dei philosophes. Senza gli dei il mondo si è impoverito, si sono ridotti perfino gli spazi di libertà, trionfano dismisura ed insensatezza, nessuno conosce ormai più se stesso.
Per rispondere a ciò che Roberto Calasso ha definito l’innominabile attuale, sarà necessario rivivificare un: «pensiero vivente, in grado di trasformare la vita di coloro che lo accolgono» (p. 7). Le pagine di Veneziani, pertanto, non sono semplicemente l’ennesimo esempio di deprecatio temporis e neppure di filosofia della speranza. Si tratta di un libro, prima di ogni altra considerazione, di impegno civile. Le considerazioni dell’autore, infatti, muovono da una descrittiva realista, oggettiva del presente, che il tratto affabulatorio della prosa, rende addirittura accorata, trattandosi di un appello all’intelligenza critica, affinché possa rimettersi in gioco, assumendosi i rischi del caso. E’ la situazione che viviamo, di estremo pericolo, a richiedere tale impegno. Esso è indotto da una situazione emotiva diffusa, che ha da sempre sostanziato di sé gli uomini: la nostalgia. Abbiamo nostalgia degli dei, vale a dire di tutto ciò che la modernità ha vanamente tentato di espellere dal mondo. Gli dei sono: «modelli, parametri e paradigmi oggettivi […] divinità penultime, non assoluti […] che consentono agli uomini […] di riconoscere i propri limiti e di trascenderli» (p. 8). Gli dei, le dieci idee discusse ed attraversate organicamente dall’esegesi di Veneziani sono Civiltà, Destino, Patria, Famiglia, Comunità, Tradizione, Mito, Anima, Dio, Ritorno.
La Civiltà è la dea che connette i popoli e la storia in un disegno armonioso. In essa ogni atto, ogni azione, ogni intenzione umana è volta all’alto, questa la differenza essenziale che distingue, spenglerianamente, la Civiltà dalla civilizzazione, esclusivamente protesa alla realizzazione piena della dimensione quantitativa, orizzontale della vita. La Patria è la dea del radicamento, ha in sé i due momenti dell’arché, il maschile e il femminile. E’accogliente, calda, materna, ma è centrata sul limite, la frontiera. Patria in senso alto non vuol dire esclusione, conoscere se stessi dona la capacità di valorizzare anche l’altro da sé, le sue peculiarità e i suoi bisogni. E’ la mancanza di identità a produrre, per assenza, rigurgiti di razzismo e integralismo che, infatti, si manifestano nell’età della globalizzazione dispiegata, quale reazione istintiva, pulsionale, nei confronti dell’atomismo sociale apolide. La Comunità è il totalmente altro dalla Società, è: «la dea del legame sociale, consorte e solidale […] lega e procrea nel sangue dalla nascita alla morte» (p.10), è Famiglia in grande. L’istituto famigliare nella tradizione romana ha avuto una funzione eroica. Ben lo comprese Evola. Centrata sul pater, sulla perpetuazione del fuoco sacro, azione nella quale la donna svolgeva comunque un ruolo rilevante, ponendosi quale sostegno vivo di un’influenza dall’alto, essa aveva in vista la conservazione e la trasmissione della forza mistica della stirpe, era cellula vivente della Tradizione.
Tradizione è la dea che collega il presente al passato e lo espone sul futuro, è legame generazionale inscalfibile. Merito di Veneziani è l’aver liberato tale dea dalle visioni statiche, meramente reazionarie che, della stessa, sono state fornite da certo determinismo tradizionalista. Tradizione è memoria e oblio, essa vive selettivamente: «distingue ciò che è permanente e meritevole di salvarsi da ciò che è contingente» (p. 136). La Tradizione non è passato imbalsamato, non è eterno ritorno dell’identico, ma del simile, è il sempre possibile tornare a manifestarsi dell’Origine: «non congiunge soli i vivi ai defunti, ma i presenti agli invisibili, in quanto non più o non ancora vivi» (p. 136). Tale idea del tradere ha trovato esemplare manifestazione nel rito romano del muundus patet. Esso realizzava, di fronte alla fossa sacra del Foro, la compresenza dei morti e dei viventi dell’Urbe. Alla fine di ogni percorso, umano, storico e cosmico, è possibile ritrovare l’Origine.
Per propiziare il Ritorno è necessario recuperare uno sguardo di luce sul mondo, oltre il dominio della tecno-scienza, esito della metafisica dell’Occidente. Lo sguardo luminoso può fornirlo il dio Mito, custode del precedente autorevole cui ogni ethnos, al fine di aver contezza del proprio da- dove ma anche del proprio per-dove, deve tornare a guardare. Il Mito guarda il mondo sub specie aeternitatis, è occhio assoluto e risponde pienamente alla dea nella quale, neo-platonicamente, da sempre, in quanto corpi, abitiamo, l’Anima. Il suo tralucere è il filo aureo che ci ricongiunge al Principio, all’Uno, cui aneliamo eroticamente ritornare. Vogliamo le stelle: il nostro infinito de-siderare, come intuì magistralmente il genio italico di Leopardi, è nostalgia delle stelle. Plotino sostenne che la visione del cielo stellato: «rende celeste l’anima di colui che lo fissa e stellari i suoi occhi» (p. 19). Ecco, abbiamo bisogno di ritrovare nel caelum ermetico, nell’azzurro del firmamento, la rappresentazione vivente di una ragione cosmologica, metessica, quale sfondo sul quale gli dei torneranno ad essere le potestates di un mondo persuaso e sensato. Solo il Ritorno a tale visione del mondo consentirà, come comprese Jünger, di lasciarci alle spalle il disastro della modernità. Essa è fondamentalmente disancoraggio dalle dee-stelle. Questa la lezione che si evince dalle pagine di Veneziani.
Giovanni Sessa