17 Luglio 2024
Tradizione

La parabola di Ungern Khan – Luca Negri

La leggenda

Per lungo tempo nelle steppe asiatiche bimbi caddero nel sonno al canto delle madri che narrava leggende sul Barone Roman Ungern

von Ŝternberg, il Dio della Guerra, manifestazione di Mahakala, il terrifico Shiva del Buddhismo del Veicolo di Diamante, protettore del Dharma. Dopo anni di controllo sovietico, i Mongoli smitizzarono la sua figura per scopi nazionalistici, per proclamare che anche senza l’Armata del luogotente-generale russo Ungern, avrebbero scacciato da Urga i Cinesi nel 1921. La leggenda si tramandò sottovoce invece negli ambienti superstiti dei Russi Bianchi, in esilio o in vite ben occultate Oltrecortina. Per poi riveder la luce con la fine dell’Urss grazie soprattutto ad Aleksandr Dugin, a Eduard Limonov (a lui si ispira, come a Trozckij, Mishima e Pasolini) che trasformarono il Barone in un in affascinante modello, una sorta di Aleister Crowley ad hoc per il giovane ambiente nazionalboscevico. Ovviamente a mantenere viva la sua sua figura aveva contribuito enormemente il classico e apocalittico “Bestie, Uomini e Dèi” di Ferdynand Ossendowski, che Ungern Khan l’aveva conosciuto e frequentato davvero.

Anche qui in Italia l’interesse per Ungern non è mancato, nei fumetti di Hugo Pratt, in Julius Evola (nel ‘38 lo chiamò “l’ultimo degli antibolscevichi”) e in Pio Filippani Ronconi. Quest’ultimo nel suo memorabile intervento “Un tempo un destino” (per la rivista “Letteratura-Tradizione” nel 2000) rimarcavaquanto l’intento del Barone fosse quello di fondare un impero teocratico buddhista in Asia in grado di fronteggiare il materialismo galoppante dall’Occidente che aveva già contagiato la Russia. Non mancano altre opere su Ungern, da “Il Barone sanguinario” di Vladimir Pozner (biografia romanzata commissionata negli anni ‘30 da Blaise Cendras, prevedibilmente denigratoria e sensazionalistica) all’epico Jean Mabire con “Il Dio della guerra”.

 

L’oggettiva biografia di Juzefovič

Il testo indispensabile per comprendere qualcosa del personaggio e della situazione storica in cui si venne a trovare è però “Il Barone Ungern. Vita del Khan delle steppe” di Leonid Juzefovič, biografia pubblicata nel 1993 in Russia e ora disponibile da noi grazie alle Edizioni Mediterranee (tradotta e ottimamente curata da Paolo Imperio) L’opera è preziosa perché documentatissima e soprattutto oggettiva: né moralistica e denigratoria, né agiografica e sacralizzante. Presentato oggettivamente, il personaggio appare per quello che fu, che è: un invasato, un posseduta dalla smania di rivolta contro il mondo moderno, dall’impulso a ricostruire un ordine gerarchico nella sua civiltà. Ungern fu infatti nemico dichiarato e feroce di bolscevichi e di cinesi occidentalizzati con fisime democratiche e illuministe, si volle cavaliere crociato fedele alle teocrazie, alle monarchie. Per i Romanov in Russia, per i Manciù in Cina, anzi nell’Asia intera.

Nel tentativo di realizzare il suo sogno, è noto, fu spietato. Contro nemici, ma anche verso i suoi stessi uomini, forse con se stesso. Con una missione che non poteva permettersi aperta compassione, nemmeno nella forma buddhista. Occorre comunque tener presente che, consapevole di trovarsi in Kali Yuga conclamato, il Barone sapeva di non aver a che fare con nobile cavalieri, ma con rossi indemoniati, cinesi crudelissimi e farabutti vari anche fra i suoi uomini.Estremo rimedio e controllo fu forse lo stato di terrore che incuteva fra le sue stesse file, dovuto non solo alle punizioni implacabili ma all’arbitrarietà e spesso assurdità dell’accusa. Esecuzioni su esecuzioni per mano di volenterosi boia, dunque, ma alle quali lui non assisteva. Si dice anzi che in quei momenti pregasse per i morenti e torturati. Si diceva buddhista, fu fanaticamente antiebraico. Come molti Bianchi e germanici di allora, vedeva nell’ebraismo l’origine della degenerazione democratico-capitalistica, materialistica, comunista. E a completare l’assonanza con il nascente nazionalsocialismo, una svastica sul suo anello, tutt’altro che rara in Asia ma come narra la leggenda incisa dalla zarina Romanova nella camera da letto di casa Ipat’ev prima della fucilazione. Anche Ungern morì fucilato. Incarnò l’archetipo del messia tradito, con il complotto dei suoi ufficiali, spaventati dalla prospettiva di doversi rifugiare in Tibet dal Dalai Lama, sparendo agli occhi dei Rossi nello spazio infinito del deserto del Gobi. Soffrì il martirio della sua idea.

 

Un tentativo di lettura con l’aiuto di Rudolf Steiner

Stimolati in particolare dallo scritto di Filippani Ronconi, ci è capitato spesso di interrogarci su Ungern e sul significato da attribuire alla sua lotta e disfatta. In questo senso ci pare utile una lettura sorretta dalla Scienza dello Spirito e da alcune comunicazioni di Rudolf Steiner. La prima considerazione da fare è che fosse giusto e nobile opporsi all’arimanesimo in eruzione fra i Russi per mezzo dell’esperimento del bolscevismo. Risulterebbe logico, naturale, opporsi ad Arimane con il suo gemello opposto Lucifero. I due, ricordava Massimo Scaligero, sono acerrimi nemici in tutto l’universo, eccetto che nell’Uomo, dove si alleano per soffocare l’Io, il Logos Solare, il principio cristico che Steiner raffigurò nella statua del Rappresentante dell’Umanità, perfetto equilibrio fra Lucifero e Arimane, fra Spirito e Materia. Se Arimane materializza ed è proiettato al futuro, alla modernità accelerata, Lucifero rappresenta la saggezza originaria, il legame con la tradizione, con la veggenza atavica e spontanea dei tempi pre-storici. Veggenza a potenza di origine addirittura atlantidea, essenza del Vril, che i Mongoli, secondo Steiner, ultimi discendenti degli Atlantidi, conoscevano come Tao. Tecnica magica ancora in possesso di Attila, che si spinse in Occidente per arrestare la coscienza in risveglio di un’Europa, sempre più autonoma da influenze asiatiche dai tempi della caduta di Troia. Il condottiero degli Unni si fermò al cospetto di Papa Leone I comprendendo che una nuova forma di coscienza, portata dal Cristianesimo aveva la necessità di esistere e lui poteva tornare ad Est. Anche Genghis Khan, secondo Steiner, agì e conquistò perché iniziato da detentori della saggezza luciferica atlantidea ancora potenti in Oriente. Neanche a lui riuscì di conquistare l’Europa, di arrestare il processo di secolarizzazione.

Ungern forse fallì perché fu troppo luciferico, imitando Attila e Genghis Khan in tempo veramente scaduto. Fallì perché fece usò di forze sorpassate, che non potevano che allearsi su altri piani col nemico, offrendo un finto equilibrio. Così forse si spiegherebbero non tanto la sua spietatezza in tempi spietati ma la mancanza di controllo, la tendenza all’ira, l’incapacità di profonda comunicazione coi suoi simili. È lecito chiedersi come sarebbe stata la sua parabola se non avesse abbracciato gli impulsi asiatici che il karma gli fece incontrare, ma in virtù della sua nascita in Austria e delle radici baltiche si fosse consacrato alla via rosicruciana mitteleuropea. Avrebbe veramente combattuto nelle file dell’Arcangelo Michele, Spirito del Tempo e dei popoli germanici, come probabilmente cercò inconsapevolmente di fare invitando i russi alla devozione verso Michail Romanov, ultimissimo zar ucciso dai sovietici ma mito col potere di risvegliare i Russi dal sonno materialista. Avrebbe evitato il destino di molte SS cadute “nelle fauci di Lucifero” (parole del fu Untersturmführer Filippani Ronconi), comprendendo che gli Ebrei sono i portatori dell’Io, di quel “Io sono” che fra di loro dovette manifestarsi in carne e il cui sangue fu raccolto nella coppa del Graal. Coppa scolpita nella pietra preziosa che cadde dalla corona di Lucifero quando Michele lo scacciò dal cielo e lo fece piombare a terra.

Luca Negri

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