Un libricino esile, come si addice alla polemica, provocatorio e irriverente e dal tono di chi non ammette replica. Datato 1 giugno 1914 e pubblicato da Vallecchi (storica casa editrice che ebbe fra le firme più significative della letteratura italiana e fra le più audaci) nel 1919. Titolo perentorio: Chiudiamo le scuole. E l’inizio è altrettanto perentorio: ‘Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi’. L’autore è Giovanni Papini, figura significativa nel panorama del primo Novecento, oggi quasi del tutto dimenticato (a torto come del resto tanta parte della nostra cultura più autentica). In Inquieto Novecento l’amico Rodolfo l’ha voluto inserire con un agile e ricco capitolo.
(Mi dichiaro d’accordo, io, pensionato bilioso e oramai in polemica con ogni forma d’intellettualismo. Consapevole, lo so, d’essere in contraddizione nel momento che, nonostante tutto, scrivo. Giustificazione misera mi do che vado raccontando e ogni raccontare è dialogo con la carne le ossa il sangue. La propria storia in cui il corpo si espone, responsabile, al plotone d’esecuzione).
E prosegue, elencando ‘Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi’. E, se tante di queste istituzioni trovano una legittimità, più di comodo che reale, nella necessità da parte della società di dare un ordine e un senso a se stessa, cosa è la scuola d’utile e necessario? Lapidario nel vergare come ‘Le scuole, dunque, non sono altro che reclusori per minorenni istruiti per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi’. (Abbiamo, mai, noi insegnanti, creato il sapere o l’abbiamo solo – e male – trasmesso? E i genitori dei nostri alunni, protesi a tenerli in uno spazio fuori casa e alla promozione per non guastarsi le vacanze?).
Giovanni Papini, di modesta famiglia di artigiani, in atmosfera mazziniana, era nato a Firenze il 9 gennaio 1881, lettore vorace e di penna ardita e lesta, legatosi in solida amicizia con Giuseppe Prezzolini (altro grande letterato e altrettanto disconosciuto), darà vita a riviste – Il Leonardo e la Voce le più note – critica e libri e impegno civile e politico (fautore dell’interventismo nella Grande Guerra, stimatore di Mussolini e da costui stimato, ad esempio). Da posizioni anticlericali, nietzschiano, dissacratore di ogni dogma e valore imposto (Un uomo finito, pubblicato nel 1912, autobiografia di se stesso e di ‘un uomo stanco e deluso dalla sua aspirazione di grandezza’ rende il giusto rapporto dello scrittore e con la ricerca di sempre rinnovate polemiche), si convertirà al cattolicesimo (Storia di Cristo è del 1921). Sempre, però, fieramente in lotta con la parola e la penna fino all’8 luglio del ’56, giorno della sua morte, ormai in completa cecità e paralizzato.
Torniamo, però, al testo da cui abbiamo preso le mosse. A quella polemica verso la istituzione scolastica, grigia e asfittica, mentre fuori il cielo azzurro d’Italia e il verde dei suoi prati invitano il corpo a rigenerarsi gli occhi a misurare le lontananze le mani e i piedi a costruire e colmare il vuoto dello spazio. Il genio che si nasconde dentro di noi e non l’imbecille che si manifesta nel quotidiano in quel reiterato percorso casa e scuola. E’ nella libertà all’aria aperta, magari all’osteria dove un buon bicchiere di vino accompagna sogni e ideali – fuori dalle balle della democrazia e del socialismo, le nuove prigioni dorate per tutti i creduli a cui un altro ‘grande’, il pittore Ardengo Soffici, contrapponeva il suo Lemmonio Boreo, nell’anno 1912, ovvero quel allegro giustiziere che con Zaccagna e Spillo (sinonimi, guarda caso, del ‘coltello’), i suoi sodali, e un robusto randello percorre le strade polverose della campagna toscana a dare contro ‘i governanti, uomini politici, impiegati, giornalisti, preti, signori, soldati, artisti, scrittori, mercanti’, insomma contro tutti i venditori di parole simili a catene che ‘facevano a chi ne commetteva delle più belle’. E, vent’anni dopo – omettendo e a torto lo squadrismo – l’altro toscano, il Berto Ricci dell’Universale, che s’era nutrito di spirito libertario ma aveva raccolto il principio assoluto di fedeltà al Fascismo e se n’era fatto dovere cementato nel sangue, nonostante tutto e comunque.
‘L’unico testo di sincerità nelle scuole è la parete delle latrine’.
Tutto, a quanto sembra, ha un prima e forse sempre un dopo. Misura del tempo e sua successione o ‘eterno ritorno’? Qui, inessenziale. Primavera del ’68. Nei cessi della facoltà del Magistero, occupata. Qualcuno s’è divertito in bei caratteri con la vernice o pennarello rosso come ‘un tempo gli uomini vivevano conoscendo la gioia dell’anima e del corpo, poi vennero Gesù e Freud, che erano ebrei, e scoprimmo il senso di colpa’. La tentazione è troppo forte. Con il colore nero, ovvio, aggiungo il nome di Marx. Pensiero profondo, esule dai libri di scuola… (Oggi, sarebbe caduto sotto la mannaia di Fiano, il fustigatore, e la Boldrini avrebbe richiesto l’abbattere del muro o di tutto l’edificio?).
Altra scritta, altra parete di bagni universitari, medesima stagione ove in nome di utopie rosse e nere la realtà consentiva a Marx e Nietzsche di darsi la mano (come cantava l’odioso Antonello Venditti). Riporto da frammenti di memoria, conservatisi integri: ‘I muri puliti sono le pagine bianche della nostra infanzia repressa’. E devo io essere grato alla nostra villetta, al giardino con il pino selvatico il nespolo i cespugli di bambù, la bicicletta e l’arenile ove pigra moriva l’onda per avere avuto, bambino e poi adolescente, i mesi d’estate per crescere libero e rustico… E all’esterno delle cabine allineate, tutte bianche e il tettuccio in legno, dello stabilimento di Concetta i primi rozzi graffiti e il primo W il Duce!. (Anche qui chiedo venia all’onorevole Fiano e alla presidenta Boldrini).
Altre latrine, liceo classico Pilo Albertelli. Iscritto al IV Ginnasio. Bastava attraversare la strada costeggiare la basilica di S. Maria Maggiore (nella cripta di famiglia vi sarà sepolto il comandante Borghese) e l’istituto bramoso ad attendermi. Ad attendermi anche i bagni per una delle mie prime ‘mattate’. Ero magro con i ginocchi nodosi che si mostravano dai pantaloni corti i capelli cespugliosi e ispidi la montatura degli occhiali pesante l’aria timida e impacciata, sì, lo confesso, decisamente sgraziato (la ‘bellezza’ sarebbe venuta in tarda età!). Preso di mira da un ragazzotto più grande e più grosso dai suoi scherzi stupidi e dalle battute cattive. Lo sfido a batterci nei bagni dove, preventivamente, ho messo dietro la porta il manico di una scopa. Se la ride, lo stronzo, e ridono i suoi compagni. Non ride affatto, non ridono gli altri, quando si prende una mazzata in capo e il sangue gli cola dalla fronte… Decisione tra il preside e mio padre. Cambio scuola, dai preti, Collegio Nazareno. Pessima scelta, esperienza negativa. O fare il professore o buttare i banchi dalla finestra.
Confermo sottoscrivo Chiudiamo le scuole, Giovanni Papini, ‘l’unico testo di sincerità … è la parete delle latrine’. Fuori ‘lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po’ d’igienica anarchia!’ e, anche su questo, come potrei arricciare il naso prendere le distanze aggrapparmi al ricordo della cattedra registro lavagna? In più di una occasione qualche ‘collega’, diligente e malevolo, mi faceva rapporto al preside perché lasciavo gestire il registro – assenze lezione del giorno trascrizione voti – ad una prescelta segretaria (generalmente graziosa e seduta al primo banco). Ignaro di quel ‘me ne frego!’ che va ben oltre l’icastico motto o simbolo ricamato sula camicia nera. Ai tempi del ’68 e dintorni gli studenti cinesi, seduti sul prato e sotto un albero, a fare lezione e poi, con cazzuola e secchio, tirar su muri per edificare nuove facoltà sembravano tutti belli e da invidiare. (Che la ‘rivoluzione culturale’ fosse una bufala per scontro di potere, prossima la successione di Mao, è altra storia…).
Berto Ricci pretendeva ‘la scuola aperta a tutti – tranne gli svogliati e gli incapaci – in ogni suo ordine e grado; la scuola aperta a tutti secondo le capacità e non secondo le possibilità economiche della famiglia: questo il passaggio obbligato d’un’antibor-ghesia che voglia andare a fondo’. In un paese, l’Italia, dove ancora le sacche di anal-fabetismo erano molto profonde e profonde le differenze tra un ceto e l’altro. Una visione nazional-popolare. Poi la degenerazione e il degrado attuali per un modello di insegnamento (?) ove si privilegia il prossimo multi-etnismo. Allora troviamo qual-che ragione ulteriore nel libricino del Papini, nel suo estremismo dissacratore e li-bertario, aristocratico (come ogni sana anarchia, del resto. Vedi Céline): la scuola ‘in-segna male, perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenien-za sociale, di età, di bisogni ecc…’. Non l’integrazione si richiede, ma mettere in risal-to le differenze il confronto fra di esse. In caso contrario nelle scuole neppure le pa-reti delle latrine saranno sufficienti a produrre – testi di sincerità -.