8 Ottobre 2024
Linguistica

La parola e la filologia accadica – Marco Calzoli

Nella lingua ebraica “cuore” è espresso mediante tre consonanti: LBB. La parola ha due B (Bet), che nella scrittura quadrata hanno la forma simile a quella di una porta. Allora i Maestri insegnano che il cuore dell’uomo ha due ingressi, due aperture, due influenze opposte: uno spirito buono che lo spinge al bene e uno spirito cattivo che lo spinge al male. la preghiera è una tipica attività buona. La tradizione rabbinica definisce l’essere umano come uomo che prega. La preghiera è fatta spesso di parole: in latino il verbo latino orare, “pregare”, significava all’inizio semplicemente “parlare”, da os, oris, “bocca”. Ma la preghiera più importante è quella del cuore, che deve trasfigurare anche la preghiera fatta di parole. Per i Chassidim, che sono dei mistici ebrei, la vera preghiera, quella che giunge al Trono di Dio, deve avere Kavanà, Intenzione.

Quindi anche la parola può aprirsi a dimensioni assolute. Pensiamo al discorso di Heidegger, per il quale il linguaggio verbale manifesta l’Essere, anche se al contempo l’Essere si rivela come dislivello ontologico incolmabile. La parola nasconde profondità terribili e misteriose: pensiamo anche alla estrema operazione intellettuale e spirituale compiuta da Borges quando riuscì a sintetizzare in un’unica capitale parola il senso della poetica norrena, una sola runa, undr, “meraviglia”.

Per l’induismo la parola (Vāc) è la prima manifestazione dell’Assoluto, il Brahman, termine sanscrito che all’inizio significava “formula sacra”. Le divinità indiane hanno il potere di creare mediante la sillaba sacra OṂ e per questo hanno come attributi strumenti a fiato o tamburi, simboli del suono sacro. Nel Padyacūḍāmaṇi (3.18), una biografia del Buddha storico in sanscrito redatta alla fine del I millennio in perfetto stile kavya ma sconosciuta alla tradizione indiana, la nascita del Buddha sembra quasi una nuova creazione perché risuonano di nuovo quegli strumenti: “Conche, timpani, tamburi e altri svariati fausti strumenti risuonarono da sé, come annunciando ai mondi: ‘È nato sulla terra il Supremo tra i saggi! ’ ”.

Il dio indiano Brahma (da non confondere con il Brahman) faceva parte all’inizio della Trimurti: egli è il Creatore, mentre Viṣṇu è il Conservatore e Shiva è il Distruttore. Brahma eredita molto dal dio Prajapati, una divinità precedente che crea l’universo con la parola. Brahma commissiona altresì l’importante poema epico indiano Ramayana. Era quindi una divinità importantissima, talmente tanto che si diffuse anche nelle religioni eterodosse dell’India (secondo alcune versioni sono stati Indra e Brahma ad aver convinto il Buddha a rivelare la conoscenza al mondo), questo fece sì che da un certo periodo (dal IV secolo in poi) iniziò a non essere più accettato nell’induismo ortodosso e quindi cadde in declino. Oggi in India i templi di Brahma sono pochissimi. Quindi nella Trimurti fu sostituito dalla Devi.

La consorte di Brahma è Sarasvati. Le spose degli dei maschili sono la espressione della loro potenza creatrice. Quindi il dio Brahma, che crea mediante la parola, ha come sposa Sarasvati, la quale è collegata al suono creatore avendo come attributi il libro e uno strumento a corda, Vinaa. Anche Brahma ha come uno degli attributi un libro, che rappresenta i Veda, i testi sacri dell’induismo. I Veda costituiscono il suono originario mediante il quale è stato creato l’universo. Quindi Brahma ha anche quattro visi, simbolo dei 4 Veda. Gli inni vedici più antichi invocano Sarasvati come un possente fiume. Oggi il nord dell’India ha tre fiumi: Gange, Yamuna e un fiume chiamato Sarasvati. Ma non è detto che nel passato sia sempre stato così, l’area è alluvionale, quindi è possibile che nel tempo cambi conformazione. L’acqua, nutritiva, allude alla potenza creatrice della consorte del dio creatore Brahma.

Per il buddhismo, invece, la parola è vuota. Infatti, il filosofo buddhista Nāgārjuna (Madhyamakakārikā XIII, 1) asserisce: sarve ca moṣadharmāṇaḥ saṃskārās tena te mṛṣā, “tutti i determinanti si fondano sull’inganno, e perciò devono considerarsi non reali”. Allora se la realtà tutta non ha un valore strutturale, non ha una identità, la parola, che la indica, non ha alcun valore.

Addirittura per le tradizioni iniziatiche, colui che è stato introdotto ai Misteri non deve proferire parola in quanto, comunicando ai profani gli insegnamenti segreti, per quanto possano essere comunicabili, dissiperebbe l’energia da cui è stato toccato. Nel passato gli studiosi pensavano che il dio Arpocrate fosse il dio del silenzio iniziatico poiché rappresentato da un geroglifico egiziano della persona che si avvicina il dito alla bocca per incitare a tacere. Oggi si ritiene tuttavia che il segno geroglifico indichi semplicemente un bambino che si porta il ditino alla bocca per succhiarlo.

Plotino (Enneadi VI, 1, 5): la parola “è soggetta a misura: ma se, come parola, è quantità, non è però quantità in quanto parola: il suo valore infatti è semantico come il nome e il verbo”.

La lingua o linguaggio verbale è un codice di segni. Il segno è la unione di un significante (forma esteriore) e di un significato (contenuto). Peirce individua tre tipi di segni:

  • Indici, che non hanno un vero e proprio codice, per esempio quando vediamo il fuoco ciò è indicativo di un incendio, ma non c’è volontà di comunicazione;
  • Icone, i quali hanno un significante che veicola il significato per la sua stessa forma, come un segnale della strada che ha una forma a triangolo il quale, per sua stessa natura, indica qualche cosa;
  • Simboli, che hanno un rapporto convenzionale e non naturale tra significante e significato, come la parola “gatto” che non è collegata per la sua forma a indicare naturalmente l’animale peloso a quattro zampe con la coda.

Secondo Sapir la lingua possiede vari “processi grammaticali” mediante i quali il significato è veicolato dalle parole. Essi sono:

  • Ordine delle parole: dire “il fumo invade la stanza” è diverso dal dire “invade il fumo la stanza”, nel primo caso l’attenzione è posta sul fumo, nel secondo sull’azione di un agente che invade.
  • Composizione: nella parola “roccaforte” noi abbiamo l’ordine nome + aggettivo, per cui sappiamo intuitivamente che si tratta di una rocca forte in grado di resistere ai colpi del nemico.
  • Affissazione: mentre la composizione unisce parole con parole, l’affissazione unisce i morfermi con altri morfemi. Il morfema è una sezione di parola che può veicolare un significato oppure un rapporto grammaticale. Quando diciamo “incivile” usiamo il morfema in- che ha valore negativo, quindi stiamo dicendo che qualcuno non si comporta in maniera civile.
  • Mutazione vocalica o consonantica: nelle lingue semitiche abbiamo una radice consonantica (portatrice del significato) e schemi vocalici che mutano e mutando danno i rapporti grammaticali; nelle lingue indoeuropee abbiamo il fenomeno della apofonia funzionale, per il quale mutano le vocali all’interno della parola per dare un altro significato (to sing è “cantare”, song è “canzone”); il latino è caratterizzato da un fenomeno particolare detto apofonia meccanica.
  • Raddoppiamento: quando diciamo “calmo, calmo”, intensifichiamo il messaggio rispetto al solo “calmo”.
  • Variazione di accento o tono: “mangiò” e “mangio” si diversificano solo per la posizione dell’accento.

In linguistica testuale vi è una differenza tra significato e senso, come ricorda Casadei. Esiste il livello della lingua detto langue, cioè il sistema linguistico, e il livello della lingua detto parole, cioè un preciso atto comunicativo. Nel primo caso abbiamo il significato, nel secondo il senso. Quando diciamo “nella stanza ci sono due finestre aperte” essa può avere un significato base, relativo alla langue: chi conosce la grammatica sa benissimo a cosa si riferiscono le parole della frase. Ma se questa frase è pronunciata in diversi atti comunicativi, può assumere diversi sensi, per esempio l’intenzione di comunicare ai non fumatori che nella stanza del fumo c’è abbastanza aria, oppure pronunciata da una persona freddolosa può voler dire di chiudere le finestre perché fa freddo.

Come sostiene Yule, quando leggiamo un testo lo capiamo sulla base di due aspetti:

  • Coesione: la unione tra le parole. Quando diciamo “la macchina” l’articolo concorda con il sostantivo, quindi capiamo il messaggio, se invece diciamo “lo macchina” non c’è coesione;
  • Coerenza: la coesione non basta per capire ciò che diciamo o leggiamo, ma dobbiamo riempire le parole con la nostra esperienza o le nostre aspettative. Quando diciamo “far quadrare” riempiamo le varie possibilità semantiche offerte dall’espressione coesa con il contesto oppure con ciò che abbiamo in mente.

Ci sono dei principi per i quali le parole che diciamo sono più facili da usare (morfologia naturale). Essi sono:

  • Principio di iconicità: sono più facili da usare quelle parole flesse plurali più lunghe in quanto rispecchiano la complessità degli oggetti indicati. Quando in indonesiano diciamo orang, diciamo “uomo”, se diciamo orang-orang diciamo “uomini”: quindi l’indonesiano è più facile da parlare dell’italiano in cui abbiamo “uomo/uomini”.
  • Uniformità di codifica: le forme più trasparenti, semplici, uniformi sono le più facili da imparare rispetto alle forme anti-iconiche, cioè più complesse, cioè difficili da memorizzare perché difficili da costruire.
  • Trasparenza: le forme più coerenti secondo le regole di una lingua sono più utilizzabili. Per questo gli stranieri dicono “aprito” e non “aperto”: la prima forma è trasparente, cioè deriva più facilmente da “aprire”, invece “aperto” va imparato a memoria.

I numerali complessi, come “ventimila”, sono dei composti, la parola in questione è formata da due parole. Essi hanno un grande grado di iconicità in quanto trasparenti, cioè semplici da costruire e quindi più facili da imparare e da usare.

I numerali in genere sono stati oggetto di molti studi in linguistica. Interessanti anche gli studi sul valore metonimico dei numerali, per cui essi etimologicamente indicherebbero parti del corpo, per esempio il numero 5 deriverebbe dalle dita della mano.

La sintassi è lo studio dell’ordine delle parole entro la frase. Abbiamo quattro prospettive:

  • Prospettiva configurazionale: “il gatto salta” è composta dal sintagma nominale (il gatto) e dal sintagma verbale (salta);
  • Prospettiva relativa alle funzioni sintattiche: la frase viene intesa come una predicazione, cioè una affermazione fatta su qualcosa, per cui “il gatto” è il soggetto e il verbo “salta” è il predicato, cioè l’affermazione stessa;
  • Prospettiva relativa ai ruoli semantici: la frase viene vista come un teatro nel quale i vari componenti svolgono dei ruoli, per cui “il gatto” è l’agente o attore, cioè l’elemento che fa qualcosa, mentre “salta” è l’azione stessa;
  • Prospettiva pragmatico informativa: ha a che fare con il modo con cui viene veicolata l’informazione, per cui “il gatto” è il tema, cioè ciò che è già conosciuto, invece “salta” è il rema, cioè ciò che non si sapeva ma che viene detto. Sappiamo già chi è il gatto, la frase ci dice qualcosa di nuovo relativamente alla azione che fa, quella di saltare.

Le lingue del mondo tendono a raggrupparsi in famiglie. Una delle famiglie più antiche è quella delle lingue semitiche. Esse si dividono in tre grandi gruppi:

  • Semitico orientale (accadico);
  • Semitico meridionale (nordarabico, sudarabico, arabo, etiopico);
  • Semitico nord-occidentale (ugaritico, aramaico, ebraico, cananaico, fenicio, punico).

Il semitico orientale ha l’ordine delle parole SOV (Soggetto-Oggetto-Verbo), mentre le altre lingue semitiche lo hanno VSO oppure SVO. Solo il semitico orientale usa le preposizioni INA e ANA rispettivamente come locativo e dativo, le altre lingue semitiche hanno BE e LE. Sharrum ina ekallim, “il re nel palazzo”. Mu ana bitim, “l’acqua alla casa”. L’accadico si distingue dalle altre lingue semitiche anche per un numero fortemente ridotto di consonanti e per gli usi delle coniugazioni verbali.

L’accadico è una delle lingue semitiche dal lessico più ricco e anche la lingua semitica di più antica attestazione. Era una lingua usata nell’antica Mesopotamia, scritta in caratteri cuneiformi, ha avuto 3000 anni di vita (dal 2.800 a. C. al 100 d. C.). Per via della sua lunga vita il repertorio di testi della letteratura è immenso.  In seguito la lingua è stata del tutto dimenticata fino a che non è stata riscoperta in tempi recenti, nell’Ottocento.

L’accadico si chiama così dalla importante città mesopotamica di Akkad. Si divide in diversi dialetti:

  • Eblaita;
  • Antico accadico;
  • Babilonese;
  • Assiro;
  • Mariotico;
  • Lingua di Tell Beydar.

La lingua considerata classica è l’antico babilonese, per intenderci quella usata da Hammurabi (II millennio). Studiosi come Sommerfeld ritengono che l’accadico precedente l’antico babilonese, cioè l’antico accadico, sia un dialetto a parte.

La disciplina che studia il mondo semitico della Mesopotamia antica è detta assiriologia. Si fanno continui ritrovamenti in Mesopotamia quindi l’assiriologia è una disciplina in fieri, in continua evoluzione.

Per quanto riguarda i documenti in babilonese, abbiamo a tutt’oggi questa situazione:

  • 45.000 testi in antico babilonese;
  • 12.000 in medio babilonese;
  • 50.000 in neo e tardo babilonese.

Non si dice spesso, ma anche l’italiano ha diverse parole babilonesi giunte attraverso la mediazione dell’arabo. Pensiamo solo al termine “meschino”, che deriva direttamente da un vocabolo arabo che significa “povero” (e questo significato è presente tutt’ora nei dialetti dell’Italia meridionale), ma che è di origine babilonese: nel Codice di Hammurabi il meskenu è l’uomo semi-libero, una delle tre categorie sociali di allora, assieme all’uomo libero e allo schiavo.

Ci sono molte innovazioni mesopotamiche (sumeriche e accadiche) che giungono fino ai nostri giorni. Lo scettro del potere compariva già come attributo dei re sumerici.

Nella letteratura cristiana biblica e dei primi secoli Cristo viene indicato come “buon pastore”. Si tratta di una innovazione che esplode per i sovrani mesopotamici del II millennio a.C. (ma compare leggermente prima): si usava il logogramma SIPA, in accadico re’um, “pastore”. Il sovrano era definito pastore in quanto guida delle genti. Invece molto tempo prima, per i sovrani sumerici e per quelli accadici nelle iscrizioni paleo-accadiche (III millennio a. C.) generalmente si usavano esclusivamente immagini di forza, di valore.

Un caso emblematico di questa innovazione del II millennio è la iscrizione di Borsippa di Hammurabi (KING LIH 094), nella quale il re babilonese viene definito “pastore amato da Marduk”, re’um na-ra-am Marduk. In questa iscrizione Hammurabi viene legittimato chiamando in causa Anum e anche Enlin. Il dio accadico Anum è il padre di tutti gli dei: sappiamo che Anum era tale grazie alle liste lessicali, cioè i vocabolari di allora, che nel presentare il significato delle parole facevano anche la gerarchia degli dei, che si canonizzò nel II millennio: in queste liste Anum compare sempre all’inizio. Enlil è il capo di tutti gli dei sumerici, cioè il periodo storico precedente.

La tradizione mesopotamica del sovrano “pastore” la ritroveremo anche nelle leggende dei re legislatori della Magna Grecia, che erano detti anche loro “pastori”. Non solo, ma Cristo nei vangeli viene visto anche come un Dio amato da Dio Padre. Anche il faraone egiziano aveva come epiteto altresì meriamon, “amato dal dio Amon”.

Nella letteratura egiziana c’è un famoso papiro, il papiro Westcar, datato attorno al 1700-1550 a. C. (ma si pensa sia la copia di un testo più vecchio di qualche secolo), nel quale si racconta che Regedet, la sposa di un sacerdote del dio Ra, viene messa incinta dal dio e poi partorirà tre gemelli che inaugureranno la tradizione dei templi solari in Egitto. Anche questa vicenda viene chiamata in causa dagli egittologi per spiegare il concepimento divino di Maria, non solo ma anche la associazione durante i primi secoli dell’era cristiana tra Cristo e il Sole e la Luce.  Non solo, ma nel papiro in questione il mago Gedi profetizza a Cheope che questi bambini faranno finire la sua dinastia faraonica, quindi Cheope si mostra dispiaciuto e si informa riguardo il momento della nascita dei bambini. Non sembra in qualche modo l’interesse di Erode sul nascituro Gesù?

Ritorniamo all’accadico. Nel 1788 Niebuhr pubblica in Occidente l’iscrizione di Bisotun, una stele in caratteri cuneiformi che contiene tre testi paralleli: in antico persiano, in elamita e in babilonese. Era andata perduta la conoscenza sia della scrittura cuneiforme sia del babilonese. Nel 1815 Grotefend decifra il cuneiforme del testo persiano. In seguito Rawlinson pubblica la traduzione del testo persiano. Cresce l’interesse per le civiltà mesopotamiche. Nel 1843 Botta inizia gli scavi di Khorsabad. Nel 1845 Layard quelli di Ninive. Emergono altre iscrizioni in cuneiforme ma assire. Nel 1857 Talbot e altri tre studiosi pubblicano la prima traduzione di un testo in accadico (assiro) in base ai sillabogrammi identificati nell’iscrizione di Bisotun. Per questo la disciplina si chiama assiriologia.

Ma la scrittura cuneiforme non è nata nel mondo assiro, bensì molto prima: nel terzo millennio nella città di Uruk con il sumerico, una lingua mesopotamica non semitica. Il cuneiforme si scrive da sinistra a destra ed è formato da tre tipi di segni: logogrammi (che indicano parole, come AN, “dio”), sillabogrammi (che indicano sillabe, AN vale anche come sillaba) e determinativi (il segno AN viene anche preposto a ogni nome di divinità per determinarla oppure il segno MESH è il marcante della pluralità). Oggi gli studiosi di sumerico e accadico si rifanno alla lista dei segni cuneiformi di Borger. Il cuneiforme è stato adottato dall’accadico da quello usato per il sumerico: dato che il sumerico ha una diversa fonetica, gli studiosi incontrano notevoli difficoltà per ricostruire la fonetica esatta dell’accadico. Un determinato segno, quello per “parola”, è pronunciato in sumerico INIM, invece in accadico awatum. Dagli scavi nel Vicino Oriente sono emerse numerosissime liste lessicali, cioè vocabolari spesso bilingui che presentano una parola in una lingua e il suo corrispettivo nell’altra: in questo modo è stato possibile capire il significato delle parole in ognuna delle lingue nonché i rapporti tra sumerico e accadico.

Con l’accadico il cuneiforme diviene una vera e propria scrittura sillabica, anche se molti logogrammi sono conservati. Tra l’altro l’accadico ha meno fonemi rispetto alle altre lingue semitiche. Ci sono vocali brevi, lunghe, mentre i dittonghi si contraggono in vocali extra-lunghe (per esempio, ia = â). Non esiste la vocale O, come in arabo. Inoltre, i segni fonetici del cuneiforme accadico sono spesso sfumati. Il cuneiforme è formato dai caratteristici cunei, assieme a Winkelhaken e a Glossenkeil.

Anche se sappiamo che in accadico esiste la quantità vocalica, non sappiamo con certezza se la poesia accadica abbia anche la prosodia. Oggi gli assiriologi stanno studiando questa problematica, ma stiamo solo all’inizio. Certamente in poesia ci sono parallelismi e assonanze, come nella poesia ebraica. C’è anche il problema che le vocali non vengono sempre indicate. C’è altresì il problema che molto materiale ancora non è stato pubblicato, quindi gli studiosi non ne sanno nulla (recentemente è stata scoperta un’altra tavoletta del Poema di Gilgamesh ma non è entrata nelle pubblicazioni degli studiosi).

Il cuneiforme dell’antico babilonese tende ad avere una scrittura piena (si indicano molto i fonemi, anche se non tutti), mentre il babilonese del I millennio tende ad avere una scrittura difettiva (i fonemi vengono indicati molto di meno), così come l’antico babilonese utilizzato in periferia, per esempio presso gli ittiti.

Non sempre il logogramma ha le desinenze, espresse di solito da un fonogramma. Se lo scriba era preciso, inseriva alla fine della parola (logogramma) un complemento fonetico che indica la desinenza del caso oppure il sostantivo non specificato concorda con un aggettivo dotato di desinenza. Facciamo un esempio. Per scrivere il termine awatum, “parola”, lo scriba inseriva un segno cuneiforme, ma che poteva valere sia per il nominativo, sia per il caso obliquo sia per l’accusativo. Ciò poteva creare confusione, quindi inseriva un altro segno, un complemento fonetico, che specifica la desinenza del caso, per esempio il segno che suona –UM per il nominativo oppure –IM per il caso obliquo oppure –AM per l’accusativo.

Ma bisogna fare attenzione allo stato costrutto. In accadico per indicare il nesso genitivale si può usare la particella sha: bitum sha sharrim, “la casa del re”. Oppure lo stato costrutto, presente in quasi tutte le lingue semitiche, giustapponendo due parole la seconda delle quali è il complemento di specificazione della prima. In alcuni casi il primo sostantivo perde la desinenza del caso, per cui abbiamo bit sharrim, “la casa del re”, anziché bit-um sharrim. Ora, quando il sostantivo bitum, “casa”, è il primo termine dello stato costrutto non ha la desinenza –UM del nominativo e questo non perché la scrittura cuneiforme è difettiva ma per regola grammaticale. Si usa più frequentemente lo stato costrutto perché è più economico, invece lo sha viene adoperato soprattutto nelle perifrasi per evitare fraintendimenti.

Nel babilonese del I millennio la mimazione (la M finale dei casi) inizia a scomparire, determinando ambiguità, tuttavia facilmente risolvibili dal contesto.

Per via delle possibili ambiguità, nella filologia accadica si distingue tra traslitterazione e trascrizione: la prima è la resa dei segni cuneiformi in alfabeto latino, la seconda è la interpretazione morfologica degli stessi segni. Nel Codice di Hammurabi e nelle liste lessicali si usano solo sillabogrammi per una questione di chiarezza: ogni suono che forma la parola viene indicato con fonogrammi specifici. I testi letterari usano soprattutto i sillabogrammi, ma non esclusivamente. Invece i testi legali, amministrativi e le lettere (per una questione di spazio: le tavolette hanno una estensione limitata) usano di preferenza i logogrammi, che sono più sintetici: tutta una parola indicata solamente da un segno.

Contrariamente alla scrittura cuneiforme, la lingua babilonese è invece molto logica, ha poche ambiguità, si può paragonare al latino o al tedesco. Forse per questo i più grandi assiriologi sono tedeschi. Nell’accadico la forma verbale che può dare luogo a più interpretazioni è lo stativo, in quanto unisce la natura nominale con quella verbale.

Un altro problema della scrittura cuneiforme è che ogni scriba la interpreta in maniera diversa. Gli epigrafisti sanno che per capire il cuneiforme bisogna attenersi alla sua forma generale. È quindi importante la lettura intuitiva. Ma anche per un’altra ragione: di solito il materiale che abbiamo è scritto su tavolette di argilla, e non su pietra come il Codice di Hammurabi o le iscrizioni regali neoassire, quindi il supporto dell’argilla è friabile, per questo a volte i segni cuneiformi si leggono male.

Quando ci troviamo di fronte a un testo in cuneiforme del quale non sappiamo nulla, è utile adottare una metodologia specifica. Non è il caso di soffermarsi su tutti i segni, ma di cercare di riconoscere solo qualche segno: quindi si traslitterano segnando su carta solo questi, poi si prova a capire le parole accadiche.

Chi inizia lo studio dell’accadico dovrebbe prima essere passato per quello del sumerico in quanto molti segni cuneiformi del sumerico passano nel cuneiforme dell’accadico. Anche se sumerico e accadico sono due lingue diverse: il sumerico non è semitico ma una lingua isolata. Per esempio l’accadico ha solo tre casi, mentre il sumerico ne ha moltissimi. Però, recenti studi tendono a evidenziare notevolissimi influssi tra sumerico e accadico, tanto che alcuni parlano, per la cultura linguistica basso-mesopotamica, di “legame linguistico” (Sprachbund) strettissimo tra i due ceppi.

Nel mondo nel quale era utilizzato l’antico babilonese, la scolarizzazione non era molto diffusa, pensiamo al fatto che spesso i re sumerici e babilonesi non sapevano leggere. Però la maggior parte dei testi a noi pervenuti sono esercizi scolastici o libri di testo usati dal maestro, quindi si tratta di produzioni scribali destinate ad essere declamate in pubblico, pensiamo anche più raramente a una lettera letta alla presenza del re o di qualche alto funzionario, i quali non sapevano leggere. Per questo gli scribi inserivano più o meno spesso pure dei complementi fonetici per indicare il caso, o altro.

Abbiamo molte liste lessicali usate nelle scuole in cui compaiono i termini relativi a malattie, terapie e figure preposte alla guarigione. L’asûm era quel medico incaricato di consultare le liste lessicali e di preparare i rimedi della farmacopea di allora. Nel mondo mesopotamico la medicina era strettamente collegata alla religione e alla magia, quindi quando il farmaco dell’asûm non funzionava, si chiamava l’esorcista, il quale faceva qualche scongiuro.

Non solo la medicina, ma nella Mesopotamia antica non esisteva mai una sfera laica separata da quella religiosa. I re e i funzionari facevano cerimonie nelle quali si baciavano i piedi del dio.

Da un certo periodo della storia della Mesopotamia si diffuse l’aramaico come lingua internazionale di queste civiltà. L’aramaico influenzò in vari modi l’accadico. Fece scomparire i tre casi dell’accadico oppure influenzò la fonetica. Per esempio, la aleph è una semivocale, che nel babilonese classico non viene segnata (si assimila alla vocale vicina), solo nel babilonese e nell’assiro del I millennio compaiono segni specifici per indicarla. Il cuneiforme nasce per il sumerico, quindi non è particolarmente adatto per rendere i fonemi delle lingue semitiche.

Vi erano città mesopotamiche tra di loro collegate da stazioni postali specifiche adattate alla loro corrispondenza. Poi vi erano anche stazioni postali non specifiche, per altre città. Nella letteratura accadica abbiamo moltissime lettere, che possono essere:

  • Amministrative
  • Diplomatiche
  • Politiche
  • Letterarie.

La lettera più basilare era scritta su una tavoletta di argilla da uno scriba al quale il mittente dettava il testo, poi era inserita in una busta di argilla, sigillata con un sigillo cilindrico, fatta seccare e inviata. Le lettere erano lette a voce.

Nel II millennio i postini usavano poco il cavallo, ma carri spinti da muli. All’epoca il cavallo e il mulo non venivano montati con una sella (nemmeno dalla cavalleria), ma questi animali spingevano un carro.

I postini facevano tappa nelle varie stazioni postali lungo il percorso dove, per velocizzare l’invio, cambiano l’animale e ne prendevano uno fresco.

Ci sono molti studi sulle forme verbali di queste lettere, che sono particolari. Il verbo che più ricorre nell’archivio di Mari, il più grande per le lettere del II millennio (in esso ne sono state trovate 20.000), è shapparu, “inviare” (una lettera).

Molte lettere di risposta iniziano con questa formula fissa: aššum ṭēm, ša tašpuram, “riguardo la notizia, che mi hai scritto”. Ša è il pronome relativo, che quindi introduce una subordinata relativa, la quale è caratterizzata dal modo subordinativo (indicativo + desinenza ū): in questo caso tašpuram è indicativo (tempo preterito), seconda persona singolare, con valore subordinativo + pronome suffisso dativo (-am: a me); non è espressa la desinenza ū del subordinativo perché vi è il pronome suffisso –am (sarebbe dovuto essere tašpurūam).  Di solito a questa formula fissa segue un breve riassunto della richiesta del mittente espressa in precedenza nella lettera di richiesta: esso è necessario in quanto passavano certamente settimane tra l’invio della lettera del mittente, la sua ricezione da parte del destinatario e la lettera di risposta. Grazie a questi riassunti nelle lettere presenti in archivi diversi, possiamo ricostruire la storia di tutto uno scambio epistolare (un determinato caso politico, una determinata richiesta commerciale, e così via).

Nel prologo del Codice di Hammurabi abbiamo questo periodo: Hammurabi, šar misarim, ša Šamaš kinatim išrukušum, anaku, “io sono (anaku) Hammurabi, re della giustizia (šar misarim: stato costrutto) a cui (ša: pronome relativo) il dio Shamash ha regalato la giustizia (kinatim). In questo caso il verbo “ha regalato” (išruk-u-šum) è al preterito con valore subordinativo (la ū è espressa) + il pronome suffisso di terza persona singolare “a lui” (-šum). Il subordinativo è un modo che caratterizza le frasi relative e quelle temporali. Alcune grammatiche lo chiamano anche congiuntivo, ma non si traduce sempre in italiano come congiuntivo, poiché in accadico marca semplicemente la presenza di una frase subordinata.

Oggi un orientamento che va per la maggiore presso gli assiriologi è lo studio della materialità dei testi. Gli studiosi si occupano spesso dell’analisi del fatto che le frasi sono disposte in righe ben precise e in caselle ben precise. Non solo, ma anche del fatto che l’ultimo segno di una riga sta sempre alla fine dello spazio disponibile della stele o della tavoletta. Nei testi accadici non accade quasi mai che i segni cuneiformi non siano disposti in ordine (cosa che succede invece in alcune scuole sumeriche).

Bibliografia

  • F. Casadei, Lessico e semantica, Roma 2003;
  • F. D’Agostino, M. S. Cingolo, G. Spada, La lingua di Babilonia, Milano 2016;
  • M. Jursa, I babilonesi, Bologna 2007;
  • M. Liverani, Uruk. La prima città, Roma-Bari 2017;
  • E. Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Torino 2007;
  • A. M. Thornton, Morfologia, Roma 2005;
  • C. Walker, La scrittura cuneiforme, Roma 2008;
  • G. Yule, Introduzione alla linguistica, Bologna 1997.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 41 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

2 Comments

  • Ermanno 23 Agosto 2022

    L’articolo è molto interessante, erudito, esclusivo nel suo genere. In particolare la parte relativa agli aspetti storico-morfologici della lingua accadica unitamente ai raffronti con le altre lingue della famiglia semitica.
    Peccato tuttavia, che non approfondisca maggiormente le connessioni, sebbene ne faccia menzione riferendosi ai logogrammi, sillabogrammi, etc., di quest’affascinante ed antica lingua con il sumerico da cui, come puntualizza lo stesso autore, ne mutua proprio il sistema grafico.
    Nella fattispecie, essendo quest’ultima una lingua tipologicamente polisintetica e agglutinante, nonché, ad eccezione del fenomeno di “topicalizzazione” del costrutto genitivale anteposto, attributiva oltre che ergativa, quindi, da un punto di vista sintattico, fondata sul rapporto strettamente gerarchico degli elementi costituenti l’enunciato e caratterizzantesi, analogamente ad altre lingue moderne, come il turco, il basco o il giapponese, per la giustapposizione di blocchi modulari. Essa costituisce altresì una struttura sintattico-morfologica che sembrerebbe riflettere una concezione cosmologica emanatistica.
    Ritornando all’articolo, a fronte di una pregevole introduzione filosofico-religiosa di matrice tradizionalista, comprendo meno onde introdurre l’accadico, la funzione dell’accostamento dei punti inerenti alle varie formulazioni di teorie neo-linguistiche improntate su paradigmi sintattici o fraseologici formulati in italiano, oltre che l’immancabile ed ubiquitario pidgin della nostra “Epoca oscura”, ovvero l’inglese (nonostante non dubiti che l’autore sia a conoscenza dell’esistenza di tali apofonie anche nelle lingue iraniche, ad esempio) oltre ad una citazione in indonesiano.
    Infine riguardo alle apofonie, allorché egli afferma che: “nelle lingue semitiche abbiamo una radice consonantica (portatrice del significato) e schemi vocalici che mutano e mutando danno i rapporti grammaticali; nelle lingue indoeuropee abbiamo il fenomeno della apofonia funzionale”, mi chiedo la ragione per cui il “plurale fratto” dell’arabo debba essere incluso in tale definizione, non essendo soggetto ad alcuna regola generale, tant’è che a un medesimo paradigma di singolare possono corrispondere diversi paradigmi plurali e viceversa. Di fatto sono tutte lingue “flessive”, “fusive” sia l’indoeuropeo che il semitico, sebbene quest’ultimo in misura minore, ovvero detentrici di una morfologia irregolare, più o meno arbitraria, perfino anarchica per quanto attiene al summenzionato pidgin. Suggestiva la parte conclusiva in cui si entra nel vivo della lingua…

  • marco 23 Agosto 2022

    Caro Ermanno, grazie del feedback, che è sempre prezioso. Non ho scritto un articolo relativo a una sola scuola linguistica o a una sola lingua, ma come è mio solito, anche in articoli riguardanti altri argomenti, ho presentato una carrellata eterogenea di spunti. Così si spiega l’accostamento dell’accadico con l’italiano e l’inglese, e quant’altro. Poi, presentando la radice consonantica delle lingue semitiche e l’apofonia funzionale delle lingue indoeuropee, non ho voluto fare un discorso esaustivo, ma probabilistico. Certamente è giusto l’esempio del plurale fratto per l’arabo, che non rientra nel discorso dello scheletro consonantico, che tuttavia è presente anche in arabo, così come il latino ha anche la apofonia meccanica (che non rientra in quella funzionale, che tuttavia è presente anche in latino) … ma ciò non toglie che il discorso dello scheletro consonantico nelle lingue semitiche sia molto diffuso, così come l’apofonia funzionale sia molto diffusa nelle lingue indoeropee, anche se in entrambe le famiglie linguistiche ci sono anche altri fenomeni, come il plurale fratto per l’arabo o l’apofonia meccanica per il latino

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