NOTA: Con tutta probabilità sto cercando di tenere in piedi troppi discorsi su “Ereticamente”. Nello scorso gennaio ho iniziato a introdurre un’analisi di quel presunto monumento di saggezza giuridica che sarebbe la “nostra” costituzione, in realtà ben disseminata di trappole e trabocchetti per limitare o impedire l’espressione della volontà popolare, approfittando della circostanza che dall’entrata in vigore del foglio (sheet, in inglese) costituzionale sono passati a gennaio giusto settant’anni. Di quest’analisi sono state pubblicate due parti, poi il discorso è rimasto in sospeso, sopravanzato da altre cose, ma non ho intenzione di abbandonarlo. Eccovi ora la terza parte. Altre ne seguiranno, anche se non vi so dire con che tempistica.
Proseguiamo nell’analisi della “nostra” costituzione, quella che la sinistra ci assicura essere un capolavoro inarrivabile di saggezza giuridica e di obiettività politica. Peccato che quel che abbiamo visto fin adesso, nelle due precedenti parti di questa disamina ci assicuri esattamente del contrario, che è un campo minato disseminato di occulti trabocchetti che hanno lo scopo di vanificare quel potere sovrano teoricamente attribuito al cittadino, e di proteggere i privilegi della “casta”.
Ora arriviamo alla parte più succosa, quella che riguarda l’ordinamento dello stato. Si comincia naturalmente con il parlamento che è “il cuore” della repubblica:
Art. 55.
Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (passim)…
Art. 56.
La Camera dei deputati e’ eletta a suffragio universale e diretto.
((Il numero dei deputati e’ di seicentotrenta, dodici dei quali eletti nella circoscrizione Estero)). (passim)…
Art. 57.
((Il Senato della Repubblica e’ eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero)).
((Il numero dei senatori elettivi e’ di trecentoquindici, sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero)). (passim)…
Al numero dei senatori elettivi vanno aggiunti i senatori a vita (ex presidenti della repubblica, più cinque che il presidente della repubblica ha il diritto di nominare. Osserviamo anche che ciascuna delle due Camere è un doppione dell’altra, con attribuzioni identiche, per cui nel complesso non se ne capisce l’utilità.
Nell’insieme si tratta di quasi mille persone, un apparato pletorico ed estremamente costoso, viste anche le lucrose “indennità” percepite da costoro, che presentano inoltre un tasso di assenteismo estremamente alto. Quante volte abbiamo visto nelle cronache parlamentari televisive gli emicicli semivuoti, e quante volte i presenti filmati si sono visti intenti a giocare coi telefonini o a scaccolarsi!
Il “nostro” parlamento è in assoluto uno dei più pletorici del mondo. Se non ricordo male, solo quello cinese è numericamente superiore, ma nel caso della Cina si tratta di dare rappresentanza a un miliardo di persone. Facendo un rapporto rappresentanti/rappresentati, il “nostro” parlamento batte di gran lunga tutti gli altri, si tratta di un’assemblea pletorica il cui costo sorpassa di gran lunga qualsiasi ragionevole utilità.
Da questo punto di vista, si ricorderà che la riforma renziana prevedeva una riduzione del numero dei senatori e una conseguente riduzione dei costi della politica. Questa era – se vogliamo – l’esca per rendere attraente questa riforma, peggiorativa sotto ogni altro aspetto, e fortunatamente bocciata dal referendum popolare. C’è però da dire che si sarebbe trattato di un senato di nominati che, era facile prevedere, sarebbe diventato il “refugium peccatorum” di tutti gli inquisiti, e sappiamo bene come fra i “nostri” onorevoli la corruzione e l’appropriazione indebita di denaro pubblico abbondino.
Art. 67.
Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.
Quale è il significato di questa formula oscura? Cosa significa “senza vincolo di mandato”? In realtà si tratta di un concetto piuttosto semplice: vuol dire che una volta eletto, un deputato o senatore non è minimamente tenuto a rispondere del proprio operato a coloro che l’hanno eletto e che teoricamente dovrebbe rappresentare.
Le conseguenze vergognose dell’articolo 67 le abbiamo viste tante volte: non soltanto il fatto che molti onorevoli e senatori “esercitano” il proprio mandato come una sorta di nullafacente sinecura, ben sapendo di non dover rispondere agli elettori, non soltanto hanno “il vizietto” della corruzione, ma come se non bastasse, dato che la costituzione concede loro una volta eletti, di fare quello che vogliono, spesso cambiano schieramento politico alterando le maggioranze uscite dalle urne, talvolta in cambio di qualche carica, talaltra semplicemente per denaro. L’articolo 67, in sostanza è una vera e propria licenza a prendere in giro il cittadino elettore, vanificando la presunzione di sovranità teoricamente attribuitagli.
Art. 68 (passim)… Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, ne’ può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale e’ previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione e’ richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza)).
Qui c’è un discorso da fare con chiarezza: il fatto che i parlamentari non siano sottoposti alla magistratura salvo l’autorizzazione dell’organo rappresentativo di cui fanno parte, che in un sistema politico tendente alla corruzione come il nostro, diventa un’immunità che mette al disopra della legge, una vera e propria licenza di rubare, di mettere le mani nella cosa pubblica a volontà, non si trova soltanto nella “nostra” costituzione, ma anche in altre, ma da dove nasce, qual’è l’origine di questo privilegio?
E’ una storia che risale al XIX secolo, quando si sono cominciate a formare le monarchie costituzionali come compromessi fra gli ancien regime e le tendenze liberal-democratiche. In esse si contrapponevano il potere legislativo dei parlamenti eletti e quello esecutivo rappresentato dai sovrani. I parlamenti si diedero delle norme scritte nelle costituzioni, che non permettevano alla magistratura e alla polizia di inquisire o arrestare i propri membri per impedire che ciò potesse essere usato per alterare le maggioranze parlamentari, ma oggi questo non è altro che un anacronismo utile solo a favorire la corruzione dei politici, a farne una “casta” al disopra della legge.
Semmai, sebbene oggi l’eventualità di un uso del potere giudiziario per alterare le maggioranze parlamentari sia del tutto anacronistica perché il potere esecutivo dipende da quello legislativo, alle Camere si potrebbe riconoscere il potere di bloccare l’azione giudiziaria contro i propri componenti, invece di farla dipendere dalla loro autorizzazione a procedere, il silenzio in altre parole dovrebbe valere come assenso e non come divieto dell’azione giudiziaria, come avviene oggi, cosa che permette a onorevoli e senatori di avvalersi dell’immunità persino per non pagare le contravvenzioni stradali. Invece così costoro sono al disopra della legge in tutto e per tutto.
Art. 75.
E’ indetto referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non e’ ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
L’articolo 75 è un altro dei “capolavori” della “nostra” costituzione, paragonabile all’articolo 3 o al 67. Notiamo per prima cosa che nel “nostro” ordinamento l’istituto del referendum è mutilo, in quanto può avere un carattere abrogativo di norme o di parte di norme, ma mai propositivo. Tuttavia, la cosa più importante è esaminare le norme per le quali il referendum non è ammesso: leggi tributarie e di bilancio. Qui probabilmente si è partiti dalla presunzione che esse risultino troppo “tecniche” e complesse per il cittadino comune, che potrebbe anche essere mosso dal desiderio di pagare meno imposte possibile. Ma l’onorevole o senatore, quanto ne capisce più del comune cittadino, dell’uomo della strada, dei meccanismi complessi di un’economia moderna? Varie inchieste giornalistiche hanno messo ripetutamente in luce il fatto che i “rappresentanti del popolo”, i cosiddetti onorevoli, sono perlopiù persone di un’ignoranza crassa su qualsiasi argomento non riguardi le faide di partito o di corrente, o la maniera di far entrare il denaro pubblico nelle proprie tasche personali, perché pare che valga una regola molto semplice: o ti dedichi a fare carriera all’interno di un partito, o cerchi di acquisire una competenza professionale in qualche ambito, le due cose insieme si trovano molto raramente, e a quanto pare, la maggior parte dei lucrosi parassiti che eleggiamo ogni cinque anni, non ha fatto in vita sua una giornata di vero lavoro.
La cosa paradossale è probabilmente il fatto che nelle rivoluzioni liberali del XVIII e del XIX secolo, le rivendicazioni di rappresentanza partirono proprio dall’esigenza di difendersi dall’eccessiva fiscalità: “No taxation without representation”, e in Italia, dove la fiscalità è a livelli esorbitanti, un maggior controllo popolare sulle leggi tributarie e di bilancio sarebbe indispensabile. Nei quasi tre quarti di secolo che costituiscono quella disgraziata esperienza che possiamo chiamare la “nostra” “storia repubblicana”, l’Italia è stata perlopiù governata da governi di sinistra o centrosinistra. La mentalità di sinistra ha sempre mirato ad aumentare al massimo la pressione fiscale, ad accaparrarsi la ricchezza nazionale per “ridistribuirla secondo principi di equità”; tralasciamo il fatto che in questo passaggio molta parte di essa resta nelle tasche private dei politici, ma sembra che costoro siano incapaci di capire una legge economica molto semplice: quando si aumenta la pressione fiscale oltre un dato limite – che nel caso italiano è largamente superato – il gettito fiscale non aumenta ma diminuisce, perché i contribuenti più deboli spariscono. La storia della nostra economia è piena di aziende – di solito piccole imprese – ammazzate dal fisco.
Di amnistia e di indulto. Anche questa è un’altra “bella” storia italiana. Nei governi postbellici prima della frattura fra DC e PCI conseguente alla Guerra Fredda, il leader comunista Palmiro Togliatti tenne stabilmente il ministero della giustizia, e la sua prima preoccupazione fu quella di indire un’amnistia generalizzata per i crimini e gli eccidi commessi dalle bande partigiane, atrocità avvenute in gran parte dopo la fine del conflitto quando i combattenti della RSI erano stati costretti a deporre le armi, e che chiaramente non rispondevano a nessuno scopo militare, ma alla più brutale vendetta o alla volontà di costruire attraverso l’eliminazione di possibili avversari, le premesse della “rivoluzione socialista”. In molti casi si trattò di delitti compiuti per rapina e/o per eliminare testimoni scomodi, atrocità che andarono avanti fino al 1947. Un capitolo buio e sanguinoso della nostra storia ancora oggi sostanzialmente ignorato, che la repubblica antifascista nata dalla cosiddetta resistenza aveva allora e ha ancora oggi tutto l’interesse a occultare. In divieto di referendum sulle leggi di amnistia e indulto serviva precisamente per impedire ai parenti delle vittime di rimettere in discussione l’amnistia togliattiana, di far riaprire fascicoli giudiziari “scomodi”, di portare alla luce il volto sanguinario e assassino dell’antifascismo.
Di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Anche questo rimanda a uno dei capitoli più bui della nostra storia. Come è noto, durante la seconda guerra mondiale, l’8 settembre 1943 avvenne il capovolgimento di fronte, con la monarchia e il governo Badoglio che andarono a buttarsi nelle braccia degli invasori, diventati improvvisamente “alleati”, mentre l’alleato fino al giorno prima diventava “il nemico”. Questo ribaltamento vergognoso non valse a salvare la monarchia, cui gli Italiani dissero definitivamente addio nel giugno 1946, né tanto meno l’Italia, che grazie a ciò vide aggiungersi ai drammi dell’invasione “alleata” e della sconfitta, quello della guerra civile.
Al danno si aggiunse la beffa, perché al momento della stipula del trattato di pace, da cobelligeranti come eravamo stati per due anni, tornammo a essere nemici sconfitti. Il trattato di pace prevedeva per l’Italia, oltre alla perdita delle colonie e pesanti riparazioni, le mutilazioni territoriali dell’Istria, di Trieste (che sarebbe dovuta diventare “territorio libero”), di quasi tutta la Venezia Giulia ottenuta con la Grande Guerra (di cui si è salvata solo la zona di Tarvisio), nonché sul confine occidentale, di Briga e Tenda a favore della Francia.
Si è molto discusso, e si continua a discutere, se la frattura nel frattempo intervenuta fra “occidentali” e comunisti legati all’Unione Sovietica sarebbe potuta valere per farci avere l’appoggio angloamericano a ottenere condizioni meno inique soprattutto riguardo alla Venezia Giulia (questo sempre se, ed è un grosso se, la classe politica antifascista fosse in una qualche misura interessata al bene comune), ma in ogni caso rimaneva lo schiaffo che ci fu dato: due anni di cobelligeranza non contavano nulla, non avevano minimamente attenuato il disprezzo per il cambiamento di fronte, che “gli alleati” non smisero di manifestarci sebbene ne fossero stati i beneficiari.
C’era il timore non infondato (anche perché gli Italiani a quel tempo non erano ancora il gregge di pecore come hanno ridotti a essere tre quarti di secolo di “educazione democratica”) che gli Italiani si ribellassero alla ratifica del trattato, e allora che cosa migliore, che cosa più democratica nello spirito reale della democrazia, se non quella di impedire per legge al “popolo sovrano” di esprimersi?
Solo che una volta introdotta, la lesione della sovranità popolare rimane permanente. Sempre “grazie” all’articolo 75, i “nostri” politici, per i quali siamo sudditi e non cittadini, ci hanno imposto senza consultarci e senza nemmeno informarci, l’ingresso nell’Unione Europea, l’adozione dell’euro e la rinuncia alla moneta nazionale (cosa che, lo ha rivelato recentemente l’artefice di questa operazione, Romano Prodi, ha comportato una svalutazione del 600%), il trattato di Lisbona, che in pratica comporta una rinuncia quasi completa alla sovranità nazionale.
E’ stato molto istruttivo seguire le discussioni sollevate dalla Brexit, la decisione da parte inglese di dare il via a una politica di sganciamento dall’Unione Europea, soprattutto per liberarsi dalle norme capestro della UE che impediscono di porre limiti all’immigrazione extracomunitaria (oggi gli inglesi nativi sono a forte rischio di diventare una minoranza nella loro isola).
Ovviamente, questa saggia decisione è stata fortemente criticata da tutti i sinistri, progressisti e liberal che disgraziatamente abbondano in Italia e vedono inesplicabilmente nell’immigrazione qualcosa di positivo. Mi ha molto colpito l’osservazione di un (o una) tale che in un post su facebook osservava che “fortunatamente l’articolo 75 della costituzione ci protegge” dalla possibilità di prendere una decisione simile. A prescindere dal fatto che la politica dissennata e irresponsabile dei governi di centrosinistra degli ultimi anni ha spalancato le porte all’immigrazione al punto che oggi non siamo meno a rischio degli Inglesi di diventare una minoranza in casa nostra, quello che è notevole è l’atteggiamento democratico che qui si evidenzia nei confronti del “popolo sovrano”, democraticamente considerato come un’accolita di bambini deficienti bisognosi di essere guidati per manina perché non prendano decisioni improvvide.
Per il momento, ci fermiamo qui, ma l’indagine sui misteri (anche se di piaceri non ve ne sono) della costituzione “più bella del mondo” è ancora lontana dall’essere completa.