“Mia notte mia malattia stregata” (J. Evola)
La produzione poetica di Evola, fino a oggi conosciuta, è costituita da una trentina di testi, inclusi alcuni usciti su pubblicazioni del tempo e i dieci, che a questi si aggiunsero nel 1920, e che furono pubblicati in Arte Astratta. Tutti questi testi furono poi raccolti dall’autore nel libro Râaga Blanda.
Questa produzione costituisce una rilevante testimonianza, anche per le sue diversificate e transdisciplinari letture, che interagiscono con la sua espressione pittorica e di pensiero. Una creazione sconfinante, come questa, può richiedere, infatti, esistenze e momenti differenti, nel suo svolgersi, per trovare la consapevole totalità del proprio procedimento. L’idea di arte totale o sintesi delle arti è già p
La sua astrazione diviene posizione interiore che può essere “oggettivizzata”, sia nella pittura che nella poesia. La coscienza astratta vuole essere “uno stato di intensità in cui non vive più né sentimento, né pensiero, ma solo un’atmosfera rarefatta, strana, in cui suoni e forme quasi d’un altro mondo, di un’altra realtà, passano come in un paesaggio cangiante; avente ora il color del sogno, ora quello del delirio. L’arte dadaista cerca di esprimere tale stato”.
Le immagini, che Evola “affida” alla sua pittura e poesia, non evocano solo una comunicazione sinestetica: risultano anche immagini-concetto. Queste accompagnano, in maniera sotterranea, il suo procedimento di pensiero, che sottintende simultaneamente quello esoterico e propriamente alchemico. Le composizioni astratte dei suoi Paesaggi interiori possono essere lette come un “pensare”, attraversante la visione di spazi siderali. Le sue pitture e poesie sono testimonianze di questi percorsi che “parlano” di mondi visionari che sembrano includere la presenza di un occhio invisibile. Questi spazi, popolati di immagini interiori e superiori, sono “fissati” con distacco, oltre l’umano: anticipano il mondo lucido e disincantato con cui guarderà, con gli occhi della riflessione, la realtà del proprio tempo con la sua critica e denuncia alla modernità.
I testi che compongono la raccolta Râaga Blanda sono stati scritti nel periodo compreso fra il 1916 e il 1922. Le poesie incluse nel libro evidenziano diversi elementi di contatto con la letteratura italiana ed europea del periodo, e corrispondono alle fasi della sua produzione poetica, che lo stesso autore definirà. Fra tali relazioni rientrano le acquisizioni iconografiche della cultura ermetico-alchemica che contaminano il testo. Questa cultura non ha avuto in Italia una consapevole lettura, soprattutto delle sue rilevanze sotterranee nell’espressione delle avanguardie, partendo dal Simbolismo per arrivare al Surrealismo. Analogamente non l’ha avuto nei confronti delle dottrine sapienziali, soprattutto orientali.
L’autore, nell’introduzione, scrive che in questa poesia è visibile uno sviluppo che, a parte alcune non rilevanti incidenze futuriste, va dal decadentismo, simbolismo e dall’analogismo fino alla composizione dadaista. In quest’ultima fase viene seguita la tecnica della poesia astratta e della cosiddetta “alchimia delle parole”, in cui le parole sono usate non secondo il loro contenuto oggettivo ma secondo le loro valenze evocative, associate a fonemi inarticolati, che vengono accordate in modo vario. Le reiterazioni di lettere partite da onomatopee futuriste giungono al Dada, attraverso la ritualità ermetica e il libero fonetismo, perdendo la funzione imitativa o allusiva per assumere quella di richiamare un suono intimo, ancestrale. Questo, pur non rimandando più a nulla, può essere avvertito come quotidiano e moderno.
Evola riprende la dimensione simbolista per esprimere una materialità linguistica autonoma: da utilizzare con il suo potere evocativo, attraverso l’orchestrazione dei sensi, emergendo da gruppi d’immagini apparentemente slegate (come nell’alchimia della parola di Rimbaud). Sostituisce l’iniziale astrattismo sentimentale con uno a-passionale. La lirica non deve esprimere più nulla, perché è tutta espressione pura, libertà incondizionata, dominio dei mezzi d’espressione: entra in un’atmosfera assolutamente rarefatta, ossessionante di alogicità e orgasmo interiore. Lo spettatore deve porsi verso la nuova arte con particolare predisposizione d’animo per accoglierne la sinfonia: più che capire o vedere un oggetto o un’idea, dovrà lasciarsi attraversare dai ritmi e dagli accordi. L’autore converte “lo svuotamento… dissacratorio dadaista in un rituale di magia evocativa, rassicurante nei confronti dell’io dell’autore (e quindi del lettore), attraverso la dissoluzione dell’io stesso negli elementi indifferenziati del mondo”.
Le parole, disposte con apparente libertà, vivono in uno spazio determinato da linee convergenti e divergenti, come se fossero cristallizzate dal pensiero. L’immagine può contenere la rivelazione di un mondo nuovo. In questa lirica ogni cosa deve avere un valore simbolico, risolto in un vago senso analogico, strano nelle vicinanze e lontananze, per avvincere misteriosamente e potentemente la sensibilità del lettore, in cui, gradualmente, la natura e l’anima si trasfigurano.
Il “cosiddetto soggetto” si dissolve in infiniti fili di simpatie che tendono a edificare un’atmosfera immaginifica, una trama sempre più fitta, in cui può sorgere “come in un magico miraggio” una nuova esistenza. Una speciale chiaroveggenza ricrea l’alchimia lirica nella dimensione oscura del simbolo. Le possibili illuminazioni propongono un mondo che dilata le possibilità sensoriali e percettive della realtà, fino ai confini estremi del vivibile e dell’oltre. Il suo verso, edificandosi con immagini che richiamano una “musica” interiore, si espande impalpabilmente in coinvolgimenti plurisensoriali. Come accade in talune espressioni della poesia concreto-visuale e fonetica internazionale, specificatamente in quelle di vocazione magico-alchemica e rituale.
La fase “futurista” è espressa dal gruppo delle “poesie di guerra”, che furono escluse da Arte Astratta, probabilmente perché dovevano essere inserite in una raccolta che avrebbe costituito una pubblicazione, mai avvenuta, a cura della Casa editrice futurista di “Poesia”. Queste liriche entreranno in Raaga blanda, il cui titolo, al tempo della stesura delle composizioni poetiche, prevedeva l’aggiunta di mia cattiva sfera, poi cancellata. L’opera mai uscita è annunciata in un articolo su “Roma Futurista”. L’autore stesso aveva già informato Tzara di questa prossima pubblicazione, indicandone un titolo diverso: 8 poemi 8 composizioni. Ma i rapporti fra Evola e Marinetti, con il trascorrere dei mesi, si deteriorarono per l’allontanamento del primo verso gli stilemi futuristi: la divaricazione fu sancita dalla conferenza tenuta da Evola in occasione della mostra collettiva del gruppo dadaista italiano presso la Casa d’arte Bragaglia a Roma (1921). Per questi motivi Evola non entrò a far parte delle pubblicazioni futuriste. Le cinque poesie, che compongono questo momento, ondeggiano dalla rappresentazione dell’ambiente all’azione del combattimento. Possono avere come titolo unificante quello del suo primo componimento: 1917-1918 Zona di guerra – Entrata, considerando lo scenario di esperienze che le unisce strettamente fra di loro. La guerra ha trasformato le dimensioni primarie dell’esperienza, in cui l’ardimento del militarismo futurista s’intreccia a una condizione sentimentale.
La notte e il delirio diventano “presenze” evocative e atmosfere interiori. In I sogni (la prima poesia contenuta in Arte Astratta), è un testo di ascendenza simbolista, da cui riprende un panorama di immagini e motivi, talvolta ricorrenti, che vivono in un scenario notturno e lunare: “Tutti questi strani cristalli neri sperduti nella notte / frammenti caduti di lontani mondi / di immensi mondi / di lontani lontani mondi”. La conclusione della poesia ripete il verso che chiude la prima parte: “Sempre quel gran peso oscuro nel cielo”.
Vitaldo Conte
(Dal testo dell’autore, in AA.VV., Julius Evola / Teoria e Pratica dell’Arte d’Avanguardia, Ed. Mediterranee, Roma 2019, in uscita e disponibile in questi giorni).