Il Mito e la Poesia sono così congiunti e così intimamente connessi che in epoca classica era pressoché impossibile narrare delle vicende divine se non attraverso i versi poetici. Peraltro il poeta, prima di qualsiasi altro discorso, si rivolgeva, anzitutto, alle figlie di Zeus e Mnemosine, le Muse, fulgidi Spiriti dell’Arte, e protette dal grande Apollo, Dio della forma, della bellezza e della poesia. Il parlare agli Dei fu sempre, in un modo o nell’altro, un parlare in poesia, innanzitutto poiché, contrariamente a come si crede, o avviene oggi, la poesia era metrica, ovvero sia regola, forma, in qualche modo “limitazione” e in questo senso creazione, come vuole la stessa parola ποίησις, (poiesis, “creazione”). La poesia è musica, nel suo originario naturarsi, poiché è ductus, rapporto, armonia. Regola e limite determinano la creazione dal momento che dal Caos estrapolano la costante, l’invariante, e la pongono in relazione armonica con l’uomo. E gli Dei, come la poesia, sono usciti dal Caos originario ponendo le regole che hanno generato l’ordine fisico e metafisico del mondo, che hanno separato l’alto dal basso, il cielo dalla terra.
Questo recondito legame fra gli Dei e la metrica, intesa come regola e limitazione creativa, è stato tanto profondo che man mano che si è perso l’uso della metrica, del canone poetico, della regola compositiva, si è gradualmente perso anche il riferimento agli Dei, tanto sovente negli antichi, tanto inesistente fra i contemporanei. Via via nella storia fino all’ottocento abbiamo avuto supremi esempi di poesia agli Dei. Per limitarci alla poesia italiana (senza voler fare con questo un torto ai romantici europei, a Goethe, a Holderlin, a Shelley, a Kleist e così via) memorabile e degno di nota è l’Adone, un poema di Giovan Battista Marino, pubblicato nel 1623. L’opera descrive le vicende amorose di Adone e Venere e costituisce uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana (un totale di 40.984 versi). Un vero monumento agli Dei. Ma anche il Carducci ci ha lasciato vive e terse visioni rivolte agli Dei, come quando scriveva: “A te, Agramainio, Adone, Astarte, e marmi vissero e tele e carte, quando le ioniche Aure serene beò la Venere Anadiomene.”
Illustre esempio di omaggio poetico agli Dei fu anche Gabriele D’Annunzio con i suoi ubertosi richiami al Mito Greco e alla grecità in generale. Le Laudi del Cielo, del Mare, della Terra e degli Eroi, ad esempio, sono le raccolte poetiche della maturità di D’Annunzio e furono progettate in seguito al viaggio in Grecia del poeta e sono sigillate dai nomi eterni del Mito come Maia, Elettra, Alcione e Merope. La domanda che ci si vuole porre sorge spontanea: c’è ancora qualcuno oggi nella poesia contemporanea che parla in versi agli Dei? Ebbene, nel panorama ameno della poetica odierna, in cui una persona su tre scrive delle “poesie”, colpisce per il suo anacronismo un poema di ben 2401 endecasillabi pubblicato nel 2013. Il risveglio di Gregorio è un opera dello scrittore friulano Emanuele Franz e già sulla copertina il Mito è segno inconfondibile, dal momento che essa ritrae il matrimonio fra Mercurio e Venere, ma più addentro nel testo si scopre che le migliaia di endecasillabi sono raggruppate in sette grandi Atti e associati a ognuno dei sette grandi Dei degli antichi: Saturno, Giove, Marte, Selene, Venere, Mercurio e il Dio del Sole Apollo. Metafora ascensiva del risveglio del protagonista Gregorio, che altri non è che l’essere umano stesso, dall’oscurità plumbea alla cristallina solarità.
Comporre un poema in endecasillabi nel mondo contemporaneo è indubbiamente un segno di grande amore per il passato, per la Poiesis nel suo senso più alto. Approfondendo la bibliografia di questo inusuale autore scopriamo che Emanuele Franz ha una doppia vita: da una parte è saggista e filosofo, elaborando innovative e apprezzate teorie sul tempo e sulla storia, dall’altra è poeta e sorprende con la sua lirica rivolta agli Dei. Dell’anno precedente è la sua prima raccolta di liriche, intitolata Proteo Liberato. Proteo, come è noto, fu una divinità marina figlio di Oceano e Teti, capace di cambiare forma in ogni momento, dal Franz qui assurta a allegoria della Poesia tutta. Di imminente uscita invece, dopo sette anni di silenzio poetico, è la sua nuova raccolta Sine Cera, che completa quella che, a ragione, può essere definita la sua trilogia poetica. Sono quasi cento le poesie della silloge, liriche contraddistinte dagli elementi della solitudine e dell’incomunicabilità, temi che rappresentano, nella visione dell’autore, la condizione umana nella sua universalità. Qui dunque il poeta si spoglia, si denuda, per rivelare nella sua purezza lo stato d’animo dell’uomo di fronte alla totalità del cosmo.
Senza un’idea mitica di poesia, sembra che questo genere letterario sia oggi quasi impensabile, a questo mi fa pensare la figura di Emanuele Franz. Franz parla agli Dei in endecasillabi. Nel Novecento i poeti hanno lottato contro ingombranti eredità scrivendo per obbedire a un’idea o per celebrare il proprio fallimento sociale e la propria misantropia. “Essere moderni” ha significato azzerare la tradizione, reinventare le tecniche compositive, avventurarsi in zone inesplorate dell’immaginazione. Ma la tradizione secolare del poeta come sapiente è arrivata a noi dalla classicità greco-latina. Nell’idea di lirica moderna erano contenute una volontà e una coscienza di discontinuità rispetto agli autori classici e a tutto il passato.
Adesso viviamo in una postmodernità che spesso non è più consapevole nemmeno della modernità che l’ha preceduta, l’idea di poesia si è ridotta a un fantasma, è un principio vuoto su cui nessuno riflette. Dopo essere stata nel ventesimo secolo al centro della cultura letteraria e degli interessi di chiunque si chiedesse qualcosa sulla letteratura posso dire che la poesia scritta da autori nati dopo il 1940 è ridotta a una sopravvivenza marginale. Questo è dovuto senza dubbio anche all’indifferenza della critica e all’insipienza degli editori, è un dato di fatto che la maggior parte dei critici ormai non si occupa più di poesia contemporanea. Criteri non ce ne sono, di formazione del gusto è vietato parlare quindi qualunque giudizio critico competente può essere ritenuto del tutto arbitrario . Ritornando alla lirica sappiamo che si può dire moltissimo in un paio di versi o quasi niente in un libro intero. In quindici endecasillabi si può parlare, come Leopardi, dell’infinito.Citando Franz: “Fra l’ïo e l’altro, lui e lo stesso, c’è un bambino che gioca con Dio. Figlio di un ombra di cipresso ..” (Sine Cera Pg.12) che subito ci riporta a un frammento di Eraclito: “La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo” [A1 8] SG III a cura di G. Colli, Adelphi ed.
Grazie Emanuele Franz!
Maria Colli