I due versanti di cui si parla rappresentano l’aspetto personale e impersonale della divinità, o, se si vuole, del Principio supremo, o di Dio o di qualsiasi altra definizione. In Oriente è molto diffusa la descrizione con termini negativi del Principio supremo, perché definire significa circoscrivere e porre un limite, e si pone un limite a ciò che è di là da ogni limite, allora si preferisce definire i limiti a cui il Principio supremo non è soggetto; il Non-Essere, per esempio, non è il puro nulla, ma è ciò che sta di là dallo stesso Essere e perciò non è soggetto ai suoi stessi limiti. Nell’aspetto personale della divinità il Dio è dato come una Persona e si finisce per immaginarsi questa Persona in forma umana con tanto di sentimenti, desideri e vizi umani. Nel versante impersonale non è che si neghi l’aspetto personale o il Dio-Persona, solo che non interessa tale versione, né interessa stabilire rapporti personali e sentimentali con il Padreterno, si è più interessati all’aspetto impersonale, che si traduce nell’interesse verso la valenza realizzativa del Dio, che si mira ad assumere per identificazione. Naturalmente fomentare antagonismo, reattività e competizione tra i due versanti è cosa da non fare, perché entrambi i versanti hanno la loro ragione d’essere e entrambi soffrono dei limiti, anche se poi i versanti, in quanto tali, vanno soggetti alla logica dell’illuminare e del tenere in ombra, che significa gestire attivamente o lasciare passivo. C’è chi illumina l’aspetto personale lasciando in ombra quello impersonale e altri fanno l’opposto; ciò che non si deve fare è demonizzare il versante opposto accusandolo di essere male, perché i due versanti della montagna non sono soggetti alla logica del bene e del male.
Finché si è nell’Universo si andrà soggetti alla logica interno-esterno, una logica che a molti può apparire illusoria ma che ha la sua sottile ragion d’essere, una logica che assomiglia un po’ a quella esistente tra il Macrocosmo e il Microcosmo. Dal punto di vista metafisico, esterno e interno sono due proiezioni diverse di una medesima realtà, però possono anche derivare da due punti di vista opposti ma complementari, perciò una qualsiasi cosa che esiste all’esterno avrà un suo corrispondente interno e viceversa, tenendo presente che si tratta di proiezione analogica e non di rapporto meccanico. Un Dio collocato all’esterno implica che anche noi nel nostro interno possediamo un principio divino, e se si ammette prima l’esistenza di questo, allora non vi è motivo di negare l’esistenza di quello. C’è chi si riferisce al Dio esterno e questi sono i personalisti e i devozionali, altri si riferiscono al Dio interno e questi sono gli impersonalisti e gli intellettivi. A ben vedere, siccome il punto di partenza per entrambi i fronti è l’io, in entrambi i casi questo Dio, che si tratti del Dio esterno o del Dio interno, è equidistante e “separato” dall’io, poiché l’io, in quanto io, non è Dio, e in entrambi i fronti la “realizzazione spirituale” implica sempre il trascendimento del proprio io e non l’adattamento del Dio al proprio io. I due fronti devono smetterla di strumentalizzare e deformare certe verità allo scopo di tirare acqua al proprio mulino, perché hanno entrambi le loro buone ragioni ma possono avere anche i loro bravi torti!
La ragione dei devozionali sta nel fatto che “il più non può derivare dal meno”, quando c’è di mezzo il fattore essenziale non si può procedere a ritroso, o come dicono i devozionali, non si può andare in paradiso tirandosi per i capelli, né saziare la fame leccando un pane dipinto, solo che i devozionali strumentalizzano questa verità allo scopo di imporre l’imperio della fede e della devozione. Noi abbiamo certo a disposizione tutto l’occorrente, ma se le nostre essenze superiori sono spente, pur esistendo, è come se non esistessero, esistono solo come semplice possibilità, per rendere operative le quali, occorre esserne all’altezza in modo da “sintonizzarsi” con quelle che sono già accese. La pretesa di certi “autorealizzatori” di realizzarsi da sé stessi e per mezzo dell’io, questa è certo una pretesa assurda, è come pretendere che la corrente che accende una lampadina sia in grado di accendere tutte le luci di una città. Che ci si riferisca al Dio interno o al Dio esterno, l’io va comunque sempre trasceso, qui sta il difficile, perché noi poggiamo necessariamente sull’io individuale, questo è il nostro punto di partenza, ma dobbiamo portarci oltre questo io, dobbiamo servirci dell’io per trascendere l’io, il quale non è per niente contento di farsi trascendere, resiste e crea degli ostacoli e tende a deviare in orizzontale la tensione verticale; se si aggiunge che l’io con cui noi ci identifichiamo non è il riflesso giusto del nostro Spirito ma è il riflesso perverso (il reattivo antagonista), si può capire la difficoltà dell’impresa. Il nostro io deve “convertirsi”, che per i devozionali significa piegare le ginocchia nei confronti del Dio-Persona, mentre per i non devozionali significa mutare orientamento e atteggiamento, in guisa del fatto che quando con la macchina entri in un vicolo cieco, c’è poco da fare, devi “convertire” la direzione di marcia, poiché la condizione individuale è a suo modo un vicolo cieco, le possibilità superiori di sviluppo sono offerte solo dal sovraindividuale.
Tutto quanto riguarda l’essenziale e il qualitativo si trasmette da essere vivente a essere vivente, per esempio: noi siamo diventati coscienti perché siamo stati allevati da esseri coscienti, fossimo stati allevati da animali, saremmo diventati animali, e da macchine, saremmo diventati macchine. Non basta il fatto che noi potenzialmente possediamo nel nostro interno tutto l’occorrente, ma se questo è spento, l’unica possibilità che abbiamo di accenderlo è di entrare nella sfera d’influenza di coloro che invece lo hanno acceso. Noi possiamo “iniziarci” e “realizzarci” ai livelli superiori perché all’apice di tutto c’è quel “grande iniziatore” chiamato Dio o in vari altri modi che è già un “realizzato” per conto suo, e per questo può trasfondere la “realizzazione” anche ai livelli gerarchici sottostanti.È da questo punto di vista che i devozionali hanno ragione, mentre il loro torto sta nella loro assurda pretesa di rendere obbligatori, per ragioni di “salvezza”, la fede e la devozione e anche il Dio-Persona. Invece se salva la fede, salverà pure l’intelletto (quello del Guenon, non certo quello di Hegel); se salva il Dio-Persona sentito come esterno, allora salverà pure il Dio impersonale interno. I cristiano-cattolici invece di cercare accomodamenti unitivi con i protestanti e altre fedi, farebbero meglio ad “accomodarsi” con il versante impersonale, ma tant’è, costoro sono talmente prevenuti contro gli impersonalisti che preferiscono avere a che fare con il male (il reattivo antagonista) piuttosto che con il loro opposto complementare. I cristiani non si rendono conto che la scelta se liberare Cristo o Barabba attualmente vale anche per loro, perché tale scelta può assumere il significato di scelta tra l’opposto complementare (che è un altro tipo di bene), o il contrario dialettico (che è il male).
Si è già visto che “il più non può derivare dal meno”, che tradotto in pratica significa che non è possibile “fabbricarsi” stati superiori dell’essere o ordini superiori di realtà partendo dal basso; partendo da una condizione inferiore si può solo “accedere”, “risvegliare”, “elevarsi” a queste valenze superiori che devono essere già presenti, che anche se sono sentite come “interne”, non sono affatto nostre, perché l’io, il mio, il tuo, il nostro, il vostro e il loro non hanno alcun senso negli stati superiori dell’Essere, queste sono cose che hanno senso solo per la condizione individuale. A questi stati o ordini superiori di realtà si tratta di “metterci dentro” la propria coscienza, la pretesa “autorealizzazione” riguarda solo la propria via personale al risveglio e il modo di “sentire” queste valenze superiori, non può riguardare in alcun modo queste ultime, che “sono ciò che sono” comunque. La polemica tra i due fronti riguarda solo il modo di accedere e di risvegliare queste valenze superiori, ma è una polemica che è più filosofica (nel senso deteriore del termine) che metafisica. Il parlare di “autorealizzazione” e di “scienza dell’io” è già una cosa fuorviante, perché tende a suscitare impressioni e deduzioni sbagliate. L’“autorealizzazione” rimanda al “self made man”, l’uomo che si è fatto da solo, mentre la “scienza dell’io” carica troppo l’io, facendo credere che l’io sia il gran dio che tutto è in grado di realizzare, mentre è solo una proiezione secondaria di una valenza più elevata. L’“autorealizzazione” implicherebbe risvegliare da noi stessi queste valenze superiori, senza la presenza e l’influenza esercitata da questi stati superiori già realizzati, una cosa impossibile, sia per l’impossibilità di isolarci completamente da queste influenze superiori, sia perché, quand’anche fosse possibile farlo, questo determinerebbe l’impossibilità assoluta di realizzazioni superiori. Per quanto si studino raffinate tecniche di risveglio o di magismo operativo, non si può prescindere dai due fattori fondamentali descritti: queste valenze superiori devono essere già presenti e qualcuno deve averle già realizzate; il “risveglio” implica entrare nella sfera d’influenza di tali valenze e la “realizzazione” implica la capacità di essere operativi in tali ordini di realtà superiori. Dal basso si può solo raffinare sempre di più la propria coscienza e rendere sempre più etereo e sottile il senso interno, in modo che cominci a captare quelle influenze superiori. È l’inferiore che deve adeguarsi al modo d’essere del superiore (se vuole ascendere) e non viceversa, perciò non è il caso di mettersi sulla cattiva strada dell’ebraismo, che per mezzo di una certa ritualistica vuole costringere il suo dio a concedere loro privilegi; questa è già inversione gerarchica e un ragionare a rovescio, e la cosa può ottenere effetti solo se all’inizio c’è stato qualcuno dotato di potere reale che ha collegato questo suo potere a quella determinata azione rituale, in modo che, eseguendo questa, si evoca fatalmente quello, ma è pur sempre un basso magismo, e questi collegamenti e reazioni automatiche mal si addicono alle valenze superiori dell’Essere, né all’Essere stesso. Si tratta di maneggi dei “teurghi” (Mosè è uno di loro), sorta di “maghi” o “adepti” che coi loro poteri e servendosi dello psichismo collettivo “fabbricano” delle entità demiurgiche. Il “demiurgo” è un dio che è in rapporto di dipendenza con il manifesto esteriore e che non potrebbe nemmeno esistere senza questo esteriore, nel caso degli ebrei, interdipende dal popolo ebraico e dalla sua fede, da qui l’esclusivismo tipico di questa razza che, per inverso, mira a corrodere, degradare e imbastardire tutte le altre razze, specialmente la bianca, oltre che a mirare a dominare l’intero pianeta, perché questo è imposto dall’esclusivismo del loro demiurgo.
Noi siamo Dio? L’uomo e Dio sono la stessa cosa? La deificazione dell’uomo? Si tratta di affermazioni assurde che non vogliono dire nulla, derivanti da impostazioni sbagliate e molto probabilmente “suggerite” dall’io umano che piega tutto verso di sé perché non vuole lasciarsi trascendere, o da chi manca del senso della misura, delle proporzioni, della distanza e pure del buon senso! Sono essenzialmente di tipo immanentista e seguono una logica, secondo la quale, “l’acqua è bagnata perciò tutto quanto è immerso o toccato dall’acqua sarà bagnato”! Dicono che noi possediamo un principio divino, questo principio divino è in noi stessi e quindi non dobbiamo cercarlo all’esterno, ma anche questa è un’impostazione sbagliata, perché in primo luogo questo principio divino non appartiene a nessuno, tantomeno all’io corporeo, è presente, c’è (nel suo ordine di realtà) ed è ciò che è, in noi esiste solo la possibilità di elevarsi a questo principio, se ci mettiamo dentro la nostra coscienza possiamo usufruire delle sue possibilità, ma per fare questo dobbiamo elevare la nostra coscienza e la nostra sensibilità interiore al suo livello, e non certo abbassare la realtà di questo principio alla nostra condizione esistenziale. Si deve avere in vista l’intera sequenza del processo creativo, un qualsiasi elemento di questo processo, volendo, ha la possibilità di risalire la catena creativa, ma per poter fare questo, deve mollare la presa dalla condizione inferiore. Il mattone che fa parte di un edificio che dice: “Io e l’architetto siamo una cosa sola, siamo la stessa cosa” commette un’arbitrarietà, è solo l’architetto (il principio superiore) che può dire: “Io sono anche il mattone e l’edificio”, però aggiungerà pure: “non sono “soltanto” questo, perché io sono anche “altro”. Certe affermazioni sono nell’esclusivo interesse dell’elemento inferiore, se messe in bocca al fattore superiore sarebbero un puro masochismo. Una 500 può dire fin che vuole che lei e la Ferrari sono una cosa sola, ma la “distanza” tra le due parla da sola, d’altronde se uno ha la possibilità di essere una Ferrari, per quale motivo dovrebbe identificarsi con una 500? In nome del mito del “tutto è uno”?
Tratto dal libro:«Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo», di Julius Evola. Edizioni Mediterranee, capitolo «Critica del teosofismo»:
“Come nella tradizione cattolica vi è un limite ben netto fra ordine temporale e ordine eterno, così nelle tradizioni orientali vi è una netta distinzione fra la serie sterminata di possibilità e di «rinascite» subordinate al divenire e al desiderio (possibilità che comprendono tanto stati «divini» che stati umani e «infernali») e la vera liberazione. Quella serie è raffigurata da un perpetuo circolo (concetto, che si ritrova nella tradizione ellenica, e qui ogni «progresso» è illusorio, il modo di essere non cambia sostanzialmente anche quando si raggiungano forme di esistenza ben oltre il livello comune. La liberazione corrisponde invece ad una via eccezionale, «verticale» e “sovrannaturale”, egualmente lontana e egualmente vicina rispetto a qualsiasi punto del divenire e del tempo. Il teosofismo abolisce invece questa opposizione: i due termini sono posti sullo stesso piano; lo scopo supremoè concepito come la fine di uno sviluppo «evolutivo» attraverso il mondo condizionato e una serie sterminata di rinascite. Cosi là dove esso parla di uno sviluppo, non è l’anima personale che esso può avere in vista, ma piuttosto il ceppo naturale e animale dell’«umanità», e il suo «spiritualismo», in fondo, si riduce ad una appendice mistica alle utopie di progresso sociale collettivo con quelle sue esigenze e preoccupazioni che, da un punto di vista superiore, ci sembrano più degne del nome di zootecnica che non di etica. Quanto poi all’ «ego» immortale regalato a ciascuno, esso è proprio ciò che occorre per addormentare, per distogliere dalla realtà dell’alternativa: salvazione o perdizione che è da sciogliere in questa esistenza – per precludere dunque la via della liberazione vera.
Un tale spirito antisovrannaturalistico del teosofismo non traspare solo qui. Fra i principi sostenuti dal movimento vi è quello dell’immanenza della «Vita Una» in ogni forma e in ogni essere, evi è, in pari tempo, quello del compito, per i singoli «ego», di conquistare una au¬tocoscienza indipendente. Con una strana applicazione dei concetti antiaristocratici proprî a certe nuove morali, si è perfino parlato di una rinuncia alla divinità primitiva, che si «possedeva senza merito», per poi riconquistarsela… «meritatamente» attraverso la lotta e le dure esperienze delle reiterate immersioni nella «materia». Il che, nel teosofismo riformato dello Steiner, corrisponde ad un vero e proprio piano, nel quale «Arimane» e «Lucifero» sono stati debitamente arruolati. Pensate a fondo, queste vedute dovrebbero portare come logica conseguenza che quella «Vita Una» – – cioè l’aspetto «uno» della Vita — rappresenta il «meno», il substrato, o materia prima, dal quale ogni essere, formandosi, dovrebbe differenziarsi come un principio distinto; ponendo dunque co¬me valore appunto una legge di differenza e di articolazione. Invece no: la «Vita Una» diviene lo scopo, la perfezione. Malgrado i vari richiami alle vie tradizionali di conquista sopra-umana e l’armamentario occultistico raccolto dalle fonti più varie, l’idea dello sviluppo nel teosofismo si colora di tinte mistiche e inclina verso la dire-zione degenerescente di un semplice fondersi col substrato della «Vita Una» indifferenziata respingendo l’«illusione della separatività» e dell’«ego». Anche qui, si tratta di confusioni che procedono dall’incomprensione di un insegnamento metafisico appena intravisto: poiché la nozione puramente metafisica della «Identità suprema» non ha nulla a che fare con quella della «Vita Una». È un grave errore, peraltro parimenti commesso da certe correnti neo-vedàntine attuali, distinte dal teosofismo e rifacentesi direttamente agli insegnamenti indiscriminati di alcuni guru di oggi, epigoni dell’induismo, scambiare anche l’Uno panteistico promiscuo, in cui, per dirla con Hegel, tutto diviene uguale come nella «notte dove tutte le vacche sono nere», con l’Uno metafisico che è l’apice integratore di un insieme ben articolato, differenziato e ordinato di forme, di un «Cosmo» nel senso greco.”
Antonio Filippini