Nell’inquieto 1920 muove i primi passi un fascismo rinato dopo la sconfitta elettorale dell’anno prima. Ma non è lo stesso dovunque…
“Navigare necesse” … Ma, per noi,” navigare” significa battagliare. contro gli altri, contro noi stessi… La nostra battaglia è più ingrata, ma è più bella, perché ci impone di contare solo sulle nostre forze. Noi abbiamo stracciato tutte le verità rivelate, abbiamo sputato su tutti i dogmi, respinto tutti i paradisi, schernito tutti i ciarlatani – bianchi, rossi, neri – che mettono in commercio le droghe miracolose per dare la “felicità” al genere umano… Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono oggi le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. Noi soli, immuni dal contagio. L’esito di questa battaglia è, per noi, d’ordine secondario. Per noi il combattimento ha il premio in sé, anche se non sia coronato dalla vittoria”. (1)
Così Mussolini fa efficacemente il punto della situazione sul Popolo d’Italia del 1^ gennaio 1920. Aldilà dell’orgogliosa affermazione finale, traspare però, nelle sue parole, l’incertezza che, passato l’entusiasmo immediatamente successivo alla riunione del 23 marzo, serpeggia tra le file fasciste, aggravata anche dal deludente risultato elettorale.
L’imponenza dell’affermazione socialista da un canto, e la contemporanea difficoltà degli ambienti antimarxisti ad organizzarsi e ad agire concretamente e con continuità, sembrano lasciare, infatti, pochi motivi di speranza. Ciò, mentre l’iniziativa socialista, tesa alla realizzazione della repubblica dei Soviet, si va intensificando ovunque.
L’autorità dello Stato è completamente assente. In Toscana si emettono monete di rame, corrispondenti a quelle di corso legale, ma valide solo per gli acquisti presso le cooperative rosse, mentre nei Comuni ad amministrazione socialista vengono messe in circolazione marche comunali per la riscossione dei diritti di segreteria con l’emblema della falce e martello. Ovunque, nelle giornate di sciopero, circola solo chi è provvisto di regolare lasciapassare firmato dai dirigenti della Camera del Lavoro.
Alla fine del 1919, inoltre, sono venuti a scadere i patti colonici, e questa è stata la miccia che ha innescato la tensione nelle campagne. La contrapposizione tra braccianti e proprietari è ovunque molto dura, al punto che i raccolti vengono lasciati a marcire nei campi, e le bestie abbandonate a sé stesse.
Così le stalle risuonano dei lamenti delle mucche che reclamano la mungitura, ma nessuno si muove. Anzi, per evitare crumiraggi, gli scioperanti fanno imprimere sul palmo della mano dei mungitori un timbro, che si altera nelle operazioni di mungitura.
Il motivo di maggiore contrasto è la richiesta, da parte delle organizzazioni sindacali, che l’avviamento al lavoro avvenga esclusivamente per il tramite degli uffici di collocamento, controllati dalle Leghe.
Dalla metà di marzo il lavoro nei campi è praticamente sospeso in tutta Italia. Intimidatoriamente si sviluppano qua e là improvvisi incendi di fienili e pagliai, che rinnovano il ricorso a vecchie armi del brigantaggio, perché basta un fiammifero per dare fuoco ad ettari di terreno e provocare danni economici incalcolabili al proprietario che non vuole cedere.
Il numero degli scioperanti è impressionante. A Ferrara, a fine febbraio, sono 60.000, a Pisa, nel marzo, 25.000, in 200 Comuni della pianura padana si calcola che ci siano contemporaneamente circa 150.000 dimostranti mobilitati.
Lo stato di agitazione continuo è, in effetti, in gran parte motivato dall’attesa delle “rivoluzione” che la costante propaganda dei marxisti di ogni tendenza tende a creare nel Paese, in vista della presa di potere da parte dei Soviet, così come è accaduto in Russia. Prospettiva indicata chiaramente a livello nazionale e ripetuta pedissequamente a livello locale. L’Ordine del giorno approvato dal Congresso provinciale socialista ferrarese del settembre, aveva detto, per esempio:
“Il convegno provinciale socialista ferrarese delibera che il Partito debba partecipare alla lotta elettorale per la conquista dei Comuni della provincia, al solo scopo di impadronirsi e paralizzare tutti i poteri, tutti i congegni statali borghesi, onde rendere sempre più facile ed agevole la rivoluzione e lo stabilirsi della dittatura del proletariato. Con questo intendimento, gli eletti svolgeranno un’azione antidemocratica, consistente: nel portare subito entro il Comune la lotta di classe, in modo che l’amministrazione socialista sia un’amministrazione della classe proletaria contro la classe abbiente nel campo economico, finanziario, culturale e sociale; nell’avocare al Comune tutte le funzioni di ordine pubblico, creando milizie comunali e regionali a base proletaria, sviluppando e selezionando i corsi di milizia e affini oggi esistenti e provvedendo al loro armamento; nell’iniziare, da ultimo, un vasto movimento di folle, per sostituire alle Prefetture ed al Parlamento i Comitati Centrali dei Comuni indipendenti”. (2)
Nel Mezzogiorno, in particolare, si verificano innumerevoli casi di occupazioni di terre e Municipi, già a partire dalla metà del 1919, quando spesso tali occupazioni si svolgono in forma anomala, ad opera di contadini inquadrati come in guerra, spesso guidati dai loro Ufficiali, come a Palo del Colle, dove: “l’assalto al Municipio fu fatto da 200 ex combattenti, in uniforme, in perfetto ordine compatto per quattro, bandiera in testa, a guisa di lancia, al grido di “Savoia”.
Grande è la delusione di quanti, combattenti valorosi e disciplinati, hanno creduto alla parola d’ordine circolata nelle trincee “la terra ai contadini” ed ora, tornati a casa, si sentono traditi da una classe dirigente immemore ed irriconoscente.
Antonio Salandra, il noto uomo politico meridionale che, quindi, meglio di altri dovrebbe conoscere le fatiche e le asprezze della dura vita del contadino e del bracciante del Sud, è uno dei maggiori responsabili.
Si è lasciato andare, infatti, a dichiarazioni di questo tipo:
“Dopo la fine vittoriosa della guerra, l’Italia compirà un grande atto di giustizia sociale. l’Italia darà la terra ai contadini, con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo avere valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una posizione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla Patria ai suoi valorosi figli.” (3)
Con tali premesse, in città e paesi in rivolta è inevitabile che vengano fuori – spesso per motivi assolutamente banali, quando non inesistenti – gli istinti peggiori, che sfociano nei cosiddetti “delitti di folla”, contro i quali le Autorità sono imponenti. Chi li commette crede anche di poter contare sulla impunità che accompagnerà la presa di potere rivoluzionaria.
Contro tutto questo, cominciano a muoversi i primi nuclei fascisti, organizzati e costituiti qua e là da uomini volitivi che la guerra hanno fatto e non intendono ripudiarne il valore, e da giovanissimi che, spesso impossibilitati ad andare al fronte per ragioni anagrafiche, sentono forte il fascino di quella esperienza.
Si tratta di iniziative ben diverse, quando non opposte, rispetto a quelle dei “Fasci d’ordine” che proprietari “ottusi e assenteisti” vanno formando qui e là solo per difendere i propri interessi:
Il fascismo, è bene affermarlo perché rimanga definitivamente e storicamente stabilito, non ebbe mai alcun contatto, nemmeno tattico, con queste associazioni di autentiche “guardie bianche”.
…non credette e non solidarizzò mai con le iniziative puramente e materialmente reazionarie delle organizzazioni cosiddette antibolsceviche, sorte in Italia per volontà di capitalisti miopi e utilitari, e covate dal patriottismo poliziesco del liberalismo conservatore.
Il fascismo – e solo il fascismo, allora – aveva ancora fiducia nel popolo italiano. (4)
Prima di ogni interesse “di classe” e dello stesso antibolscevismo che non li suggestiona più di tanto, convinti come sono che l’esperienza leninista, per la sua inumanità (della quale cominciano ad arrivare in Italia le prime notizie), per l’ateismo rivendicato e per il materialismo grossolano che la anima, sia estranea al sentire nazionale, i primi fascisti cominciano a muoversi qua e là.
In Puglia, per esempio, è il sacrificio dei “contadini soldati eroi delle trincee” a fare da collante, contro i proprietari terrieri indegni di considerazione e la burocrazia prepotente e ottusa.
Nel concreto, la gran massa di disoccupati, l’avvilente pratica del bracciantato giornaliero, guadagnato all’alba di ogni mattina con la selezione in piazza dei più robusti e affidabili, sono aspetti di una realtà tutta meridionale – e pugliese soprattutto – che, nella rinnovata Italia vittoriosa, appaiono non più sopportabili.
È proprio il legame con la guerra, oltre ad una esigenza di difesa personale di fronte alle indiscriminate violenze rivolte dai socialisti a chiunque non la pensi come loro, che contraddistingue i neo-nati Fasci, peraltro diversi tra loro da Regione a Regione (e spesso anche nell’ambito di un’unica Regione).
Quasi in contemporanea, nel 1971, Enzo Santarelli e Renzo De Felice sottolineeranno l’esigenza di storie locali del fascismo. Il primo con esplicito riferimento al fenomeno squadrista:
Mentre la storia del movimento operaio del dopoguerra è nota, la storia dello squadrismo, componente essenziale del fascismo, luogo cruciale di incontro e scontro degli interessi di classe che si agitano nel Paese, non lo è affatto: ed è una storia che va evidentemente studiata in loco, così come si è fatto per altri contemporanei movimenti sociali e politici. (5)
Lo studioso reatino, a sua volta, nella prefazione ad un volume che, per singolare coincidenza, parla proprio di fascismo pugliese, farà una simile osservazione:
Le indagini a carattere locale hanno indubbiamente il pregio di permettere una ricostruzione assai minuta della realtà di un determinato periodo, di rendere possibile un approfondimento anche in termini sociologici di certe forze e di certi episodi, di lacerare più facilmente – come è già stato osservato – i “veli ideologici dei Partiti” e di cogliere quindi il peso dei concreti interessi in gioco. (6)
Tesi che non si può non condividere, se si considera che, indubbiamente, il fascismo torinese, politico, rivolto alle masse operaie e contraddistinto dalla rivalità tra l’ex anarchico Mario Gioda e il monarchico-conservatore Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, è cosa diversa da quello “d’azione” operante tra Novara, Asti, Vercelli e Alessandria, sotto la guida di Giovanni Passerone, così come quello milanese, influenzato dalla presenza in città del vertice politico del movimento, intorno a “Il Popolo d’Italia” non ha molto a che spartire col quello cremonese, plasmato dall’ex bissolatiano e “fascista d’azione” Roberto Farinacci.
Anche in Veneto, il Fascio dannunziano che Pietro Marsich dirige a Venezia, non è sempre in sintonia con quello triestino, mussoliniano ad oltranza, di Francesco Giunta, così come il movimento bolognese, tutto “cittadino”, guidato dall’ex anarchico Leandro Arpinati, in un capoluogo, come si disse “assediato dalle campagne” si distingue da quello, parimenti forte, di Ferrara, che Italo Balbo inquadra con piglio militaresco e con un occhio principalmente alle massi rurali “sviate” dalla propaganda socialista.
E l’elenco potrebbe proseguire, con la Toscana, dove il Fascio burlesco e litigiosissimo fiorentino, di Bruno Frullini e Umberto Banchelli, non ha riscontro in quello serio e “fattivo” della Carrara di Renato Ricci, o in Campania, che vede le squadre di Aurelio Padovani contrapporsi a quelle dei cugini-rivali ora nazionalisti, ma fascisti in pectore, di Paolo Greco.
Egualmente in Sicilia, il Fascio “futurista” dei giovani Totò Battaglia e Totò Giurato viene osteggiato da quello “d’ordine” di Filippo Pennariva.
E, dopo questo lungo excursus, veniamo alla Puglia, che fa da sfondo a quanto diremo, con riferimento ai fatti di Minervino Murge dell’11 aprile 1920.
Anche qui, non si può dire siano esattamente coincidenti nei presupposti, nell’azione e negli obiettivi, il Fascio del capoluogo, diretto dal giornalista Araldo di Crollalanza sansepolcrista e dirigente dall’Associazione Nazionale Combattenti e quello di Capitanata, le cui redini sono, da subito, saldamente impugnate dall’avvocato cerignolese Giuseppe (“Peppino”) Caradonna, ex Ufficiale, decorato con due medaglie d’argento, e anch’egli esponente di punta dell’Associazione Nazionale Combattenti.
A Bari la situazione è difficile, come in tutta Italia, ma non impossibile. Saldamente in mano ai fascisti la città, dove gli avversari sono costretti a rifugiarsi nelle stradine della Città Vecchia e, il 19 febbraio del 1921, sarà addirittura impedito a Nicola Bombacci di scendere dal treno per partecipare ai lavori del Congresso provinciale della Federterra, anche nei paesi della provincia, con l’eccezione forse della sola Conversano, dove è attivo Giuseppe Di Vagno, l’azione dei mussoliniani non incontra ostacoli insuperabili.
Questo anche perché i grossi centri agricoli del Nord (Minervino, Spinazzola, la stessa Andria), che rappresentano lo zoccolo duro del sovversivismo della Regione, gravitano “operativamente” più nella provincia di Foggia, già alle prese con l’irrequieta Cerignola.
Poco rilevante la storia della Terra d’Otranto (che comprende, insieme, le future province di Taranto e Brindisi) e Lecce (anche se a Ginosa, a novembre del ’22, nel corso di violenti scontri tra “alleati”, perderanno la vita tre nazionalisti, un fascista e due donne), è in Capitanata che si svolge la battaglia “vera”.
Lì, ad un emergente Giuseppe Di Vittorio, prima interventista ed ora dirigente socialista, si contrappone il già citato Peppino Caradonna, il quale, però, al suo apparire sulla scena politica, deve fare i conti con l’ostilità delle Autorità giolittiane, decise a conservare lo status quo. Come il Prefetto di Foggia, per esempio, che il 31 maggio del 1919 riferisce al Ministero:
Nemmeno nei dirigenti delle sezioni predette (le sezioni combattenti ndr) si può avere fiducia, perché alcuni, per i loro principi sovversivi poco affidano, ed altri, variano le idee da un giorno all’altro, e vanno coltivando delle utopie sovversive come quella fatta nel comizio pubblico tenuto il 24 corrente mese, nel teatro Mercadante, dall’ avvocato Giuseppe Caradonna, Capitano del Regio Esercito, il quale inneggiò all’Internazionale e dichiarò essere tempo di finirla con la vecchia Italia, quella dell’agente delle imposte, del questurino in borghese e dell’Italia che disonora l’Esercito col farlo correre da una città all’altra e frapporlo nelle lotte tra capitale e lavoro. (7)
In effetti, le parole – che dobbiamo ritenere incendiarie, stando alla relazione prefettizia – di Caradonna, non hanno niente di sovversivo, ma sono una manifestazione del diffuso malessere che, alla fine della guerra, pervade insieme gli ex Ufficiali e i loro uomini al fronte, in una comunione di intenti e sentimenti che il pericolo ha cementato e la delusione al rientro ha reso ancora più forte.
Non ovunque le cose vanno però bene. Gli esagitati e i violenti, che non mancano mai, prevalgono talora sui meglio intenzionati, e la tensione sale, in tutta la Regione. Occupazioni di terre (anche demaniali), lavori abusivi, non richiesti dai proprietari, ma per i quali si pretende comunque la mercede, violenze diffuse fanno temer il peggio.
Ad Andria, lo sciopero generale indetto per il 1° dicembre del 1919 porta a scontri con le Forze dell’Ordine, che spianano le mitragliatrici per strada e procedono ad arresti in massa, per fronteggiare una vera rivolta, che appare più pericolosa delle precedenti di Minervino (4 settembre), Apricena (12 settembre), S. Marco in Lamis (15 settembre).
La siccità dell’inverno, con la forzata diminuzione dei lavori nei campi e l’aumento della disoccupazione, non lascia prevedere niente di buono per l’anno che verrà.
La situazione appare particolarmente compromessa a Minervino “fiera e ribelle su di una delle aspre pendici della Murgia sassosa”, per la presenza di una forte Camera del Lavoro schierata su posizioni intransigenti e guidata da capi poco inclini al compromesso:
In Minervino comunista, sindacalista, anarchica, si profilarono ben presto e si imposero tre figure, tra le più pericolose per violenza di linguaggio e per impeto di estreme, improvvise decisioni: Carmine Giorgio, Domenico Gugliotti e Michele Veglia.
Carmine Giorgio porta sul viso bruciacchiato i segni della mal repressa ira paterna che, stanco di più ammonirlo, lo gittava in un forno. La sua fedina penale è testimone muto ma inconfutabile dell’indole ribelle incline alla violenza ed alla sopraffazione.
…Alla scuola di Carmine Giorgio si formarono Domenico Gugliotti e Michele Veglia, questi già condannato nel processo per la strage agrimata di Ferruccio Barletta e della guardia Nobile, il Gugliotti Presidente ed il Veglia Segretario della Camera del Lavoro…..per essere pronti, come scriveva Michele Vehlia ai compagni di Spinazzola: “quando l’urto dei pezzenti avrebbe travolto nell’abisso il capitalismo dei borghesi”. (8)
Alle masse infatuate da questi discorsi basterà poco per sfogare istinti peggiori e violenza repressa. Anche solo indossare “un abito nero con colletto duro”, come nel caso dello sfortunato Ferruccio Barletta…
NOTE
- (a cura di Edoardo e Duilio Susmel), Opera Omnia di Benito Mussolini, Firenze 1954, vol. XIV, pag. 231
- Alessandro Roveri, Le origini del fascismo a Ferrara 1918/1921, Milano 1974, pag. 78
- In: Simona Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Bari 1971, pag. 12
- Luigi Freddi, Pattuglie, contributo alla storia del fascismo, Roma 1929, pag. 84
- Enzo Santarelli, Per una storia dello squadrismo fiorentino, in: La Toscana nel regime fascista, Firenze 1969, pag. 618
- Simona Colarizi, cit., pag. VII
- Ibidem, pag. 16
- Raffaele Cotugno, I fatti di Minervino Murge, arringa pronunciata alla Corte di Assise di Trani il 23 giugno 1923, Roma 1925, pag. 10
Foto 1: di Crollalanza Ministro, per le vie della città vecchia di Bari
Foto 2: Caradonna a capo delle sue squadre a cavallo