Carl Schmitt ha insegnato che le categorie politiche sono concetti teologici secolarizzati. L’intuizione del giurista e pensatore tedesco rende inspiegabile la ritirata (apostasia?) delle chiese rispetto a dottrine, valori, posizionamenti morali proclamati da sempre. Ciò è evidente rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili”, in particolare nell’insidioso terreno della sessualità, su cui si stanno giocando sfide antropologiche decisive.
La disponibilità della vita umana, figlia della sostituzione moderna del bene con l’utile attraverso la teoria dei diritti e dei desideri, è diventata il centro della visione dominante nell’Occidente estenuato. Aborto inteso come diritto universale, eugenetica mascherata da avanzamento tecnoscientifico, morte procurata di Stato chiamata eutanasia in quanto collegata alla malattia, alla vecchiaia, al disagio mentale e sociale. Tutti elementi di una cultura esausta, nemica della vita. L’aborto si è trasformato in una vera e propria religione secolare, che la vulgata femminista ha trasmesso alla cultura dominante, libertaria e libertina nei costumi, liberista in economia, eticamente indifferente.
L’ONU, attraverso l’Organizzazione Mondiale della Sanità – potere forte planetario largamente privatizzato – non soltanto ha coniato, in sintonia con il progressismo politico, il termine salute riproduttiva, di matrice zootecnica, che sta ambiguamente sostituendo la parola aborto, ma destina percentuali ogni anno più elevate del bilancio a politiche di accesso generalizzato all’aborto, celate dalla formula della tutela della salute femminile. Sfiorare il tema abortista per esprimere una posizione di contrarietà o di messa in discussione delle legislazioni in materia solleva polveroni infiniti, accuse isteriche, esponendo i temerari che propongono tesi non allineate a accuse infamanti, minacce, interdetti sociali, perdita di carriere, conseguenze penali. In alcuni Stati si può essere arrestati per aver sostato in silenzio dinanzi agli ospedali che praticano aborti.
Comunque la si pensi in materia, è sconvolgente l’assenza di dibattito sull’atteggiamento rispetto alla vita nascente. La spiegazione è quella iniziale: l’aborto, inteso come pratica di routine che nessuno può mettere in discussione, che il potere pubblico deve consentire in ogni caso ponendola a carico del budget pubblico, si è trasformato in religione, un universale che da scelta politica e valoriale diventa teologia, con una dogmatica indiscutibile difesa da una casta sacerdotale perennemente attiva, cui è permesso pronunciare anatemi, dettare scomuniche. Perfetto capovolgimento del passato remoto.
I principi del breviario materialista e utilitarista sono semplici quanto indiscutibili. Primo: la donna è l’unico soggetto titolare del diritto di vita o di morte sul grumo di cellule che cresce nelle sue viscere. Nessun altro, né il padre – se ancora può essere chiamato tale – tantomeno la famiglia o la società possono eccepire, intervenire nella scelta, contrastarla. Secondo: quelle cellule sono una sorta di escrescenza, espellere la quale, oltreché un diritto, è un potere sovrano dell’esemplare femmina della specie umana, a cui sono estranei concetti come l’istinto materno (un costrutto sociale come la condizione di gravidanza, secondo i novissimi dell’Occidente terminale) e l’amore paterno. Terzo, la società nel suo insieme non ha alcun interesse legittimo a riprodurre se stessa attraverso la nascita di nuovi membri, quindi non ha titolo per difendere la vita nascente, ma solo il dovere di riconoscere il diritto universale all’interruzione volontaria di gravidanza, predisponendo a spese di tutti il relativo apparato sanitario.
I tentativi di far ascoltare alla richiedente aborto il battito del cuoricino in formazione, ossia far valere la condizione di futura creatura umana del preteso “grumo di cellule” vengono contrastati con furia crescente dai credenti della religione abortista. Ovvio: da una parte smontano la banalizzazione dell’atto, solo un po’ più invasivo dell’asportazione di una cisti o di callo, parti del corpo senza vita propria; dall’altro pongono la madre – già lasciata sola dinanzi a una decisione cruciale, con l’alibi dei diritti e dell’intangibile decisione soggettiva – davanti all’evidenza che le cellule presenti nel suo corpo sono l’inizio di una vita. Laddove è stata data questa possibilità, gli aborti non terapeutici sono diminuiti.
Esattamente ciò che non vuole la teologia abortista e, concretamente, il culto malthusiano. Una società ostile alla vita non può che favorire ogni intervento che va nella direzione auspicata: l’oligarchia vuole una drastica diminuzione della popolazione. Era l’idea dell’economista classico – nonché pastore anglicano – Robert Malthus all’alba della rivoluzione industriale. L’ingenuo vicario liberale era animato dalla compassione nei confronti della povertà dilagante delle famiglie numerose operaie. I suoi epigoni non hanno più bisogno di popolazioni numerose e orientano la società di conseguenza, diventando gli ufficiali pagatori di ogni cultura negatrice della vita, variamente mascherata.
Poiché “vuolsi così là dove si puote ciò che si vuole”, ogni eccezione è rimossa, ogni intervento sulla vita diventa diritto, prima della nascita, subito dopo (l’infanticidio chiamato strumentalmente aborto postnatale), la mancanza o la difficoltà di accedere alle cure nel corso della vita, l’orribile “transizione di genere” anche prepuberale – quella sì abbondantemente finanziata – infine la morte “assistita” nella fase terminale, con grande risparmio per fondi pensione e assicurazioni sanitarie. Il male malthusiano (il bene degli illuminati) è contro l’uomo e nemico della vita; nel pieno della pandemia, in Svezia il governo invitò gli anziani a non gravare sul servizio sanitario, spedendo loro un kit per togliersi di torno senza disturbare nessuno, assicurando il pagamento delle esequie. Una nuova, disgustosa modalità di morire per la patria. Prima, durante e dopo: tutto congiura, dall’aborto alla pansessualità sterile sino alla morte “statale”, a costruire un’antropologia mortuaria.
Per fortuna, non tutto va in quella direzione. Lo dimostra il fatto che il dibattito è ancora incandescente e che negli Usa una contrastata sentenza della Corte Suprema ha sconfitto la dogmatica abortista, il che non significa che abbia vietato l’interruzione di gravidanza. Semplicemente ha escluso che si tratti di un diritto universale, demandando ai singoli Stati federati le decisioni legislative in materia. Anche noi – che non nascondiamo la contrarietà di principio all’aborto – siamo convinti che il tema sia troppo delicato per essere risolto in termini di diritto universale o di negazione altrettanto generalizzata. Gli opposti estremismi sulla vita non ci piacciono; ciò che contrastiamo con forza è la religione abortista, la dogmatica che inibisce il dibattito e instaura un clericalismo rovesciato, con bolle e scomuniche della Laica Inquisizione.
L’onda abortista è partita dagli Usa; sembra che laggiù si stiano sviluppando alcuni anticorpi, di cui la sentenza del 2022 è una conseguenza oltreché un sintomo. Ne parla il ricercatore e docente Chad Pecknold, secondo cui l’aborto funziona come un sacramento. La vittoria ottenuta con la sentenza, per chi cerca di difendere il nascituro – oltreché i ruoli di madre e di padre – è solo parziale. “La Corte Suprema Usa americana stabilisce che l’aborto non è un diritto, ma evita il punto decisivo, ossia la tutela della vita da parte della legge”. L’obiettivo di un nuovo umanesimo aperto alla vita è conquistare una solenne dichiarazione che protegga ogni essere umano in tutte le fasi dell’esistenza, a partire dalla gestazione. Il clima politico culturale non è favorevole, ma qualcosa si muove, perfino all’interno del dibattito femminista americano.
Dopo la sentenza il numero di aborti è diminuito, il che dovrebbe far sorridere chiunque ami la vita, indipendentemente dai legittimi contrasti di merito. Nel solo Texas sono stati date alla luce diecimila vite sottratte all’interruzione volontaria della gravidanza. Il problema è che l’abortismo – oltre che un totem intangibile – è anche una fiorente industria. Per l’etica liberal è una sorta di sacramento fondato sul soggettivismo. Il costituzionalismo liberale si concentra sulla sovranità dell’ “io”, con forti ricadute religiose e politiche. Afferma il potere di decidere su tutto, anche su qualcosa che dovrebbe essere indisponibile, o almeno oggetto di tutela, la vita che cresce nel corpo e la vita nel suo svolgimento. È una differenza di prospettiva politica, esistenziale, quasi sacramentale. Osserva Pecknold: anche se sei una donna che non ha mai abortito, o un uomo, se sei liberal e progressista devi difendere l’idea che altri possano farlo. E’ una credenza di carattere religioso e va difesa a tutti i costi. Ci sono donne che non hanno figli e si vantano dei loro aborti come di qualcosa di buono. I vecchi liberali parlavano dell’aborto come di un male necessario, ma quelli di oggi, i liberal “religiosi”, lo vedono come un sacramento da difendere. Per loro non è solo una battaglia politica, ma teologica nel senso indicato da Schmitt; per questo non è possibile una discussione razionale. L’avversario è nemico perché eretico, miscredente.
“Sono profondamente uniti alla fede nell’aborto; lo adorano e lo gridano a gran voce. È una nuova religione civica che non ha molti sostenitori, ma i suoi seguaci sono estremamente potenti”. Abortisti per gli interessi cui abbiamo accennato sono coloro che controllano i mezzi di comunicazione e le potentissime fondazioni dei miliardari. Pecknold affida le sue speranze a lungo termine al fatto che la maggioranza degli americani si dichiara cristiana e ha un tasso di natalità molto più elevato degli atei, che hanno molti meno figli. A noi colpisce tuttavia che la difesa della vita sia considerata prerogativa dei cristiani. Perché mai? L’umanesimo ha molte sfaccettature e nessun essere umano di buona volontà è estraneo al tema della vita. Questa, infine, è stata la grandezza della civiltà nostra al tramonto. I suoi pilastri erano la filosofia greca, il diritto romano, lo stato di diritto, l’ordine e la religione cristiana, ma anche il liberalismo originario.
La spuria religione minoritaria gnostica, atea e woke (il mostro risvegliato) l’abortismo forsennato che diventa comandamento, sono simboli drammatici di un conflitto mortale in cui una potentissima minoranza antiumana sfida l’insieme delle norme di una civiltà antica che ha retto secoli e millenni. Nell’ambito della propaganda e dalla prassi abortista il gigante è l’americana Planet Parenthood, attiva in tutto il mondo, ricchissima perché finanziata da fondazioni private e istituzioni pubbliche(!!!). Questa multinazionale dell’aborto, coinvolta in numerosi scandali, sembra godere di un’ampia immunità, è legata al mondo di Soros, Bill Gates, di Davos, il pugno di tiranni che gestisce le nostre vite (e la nostra morte). Democrazia formale e plutocrazia reale. Per questo attaccano con tanta veemenza nazioni come Polonia e Ungheria, partiti e personalità politiche che non controllano e non riescono a manipolare. Dobbiamo prendere decisioni forti su come vogliamo vivere in futuro, scelte politiche sul modello generale di comunità, su come intendiamo essere e restare uomini, creature. Non c’è persona razionale che possa guardare agli attori di Hollywood – strapagati, cinici influencer – che rendono gaiamente transessuali i propri figli e possa seguire quella strada. E’ sbagliato, irragionevole, una falsa religione (in)civile. Non si può essere neutrali rispetto al male diffuso con il vestito del progresso, della civiltà, della luce che squarcia le tenebre. La maschera del mito liberale della neutralità assiologica è caduto. Quella che diffondono è una religione invertita. Non bisogna credere una parola di quella narrazione. Per la vita, per l’umanità, per recuperare la decenza perduta, per trovare il coraggio di reagire al male. Viviamo una rivoluzione: dobbiamo fare il contrario della rivoluzione.
3 Comments