L’Assoluto ci circonda in ogni modo e le religioni cercano di ritualizzarlo in sistemi assai originali anche se a volte presentano dei tratti in comune.
Secondo Eliade tutte le religioni nascono per superare la paura della morte. Un altro tratto in comune nelle varie religioni del mondo è la trascendenza dell’Assoluto, un altro ancora è il suo essere causa di salvezza. Poi in moltissime culture l’Assoluto viene collegato con il suono, la parola, la voce. Possiamo ravvisarlo nella Armonia dei pitagorici, oppure pensiamo alla stretta rete di relazioni tra costumi, altezze assolute (lü) e musica dei cinesi, qualcosa di analogo lo abbiamo nei trattati islamici detti adwār. Nella tradizione zen si può raggiungere l’illuminazione suonando il flauto shakuhachi, qualcosa del genere avviene con il flauto ney nella tradizione sufi.
Nel mondo indiano l’ordine cosmico è detto in sanscrito ṛta, parola che ha a che vedere sia con la verità sia con il rito religioso: il sacrificio vedico, nella sua doppia articolazione di parola rituale e di gesto rituale, presiede all’equilibrio dell’universo. È significativo che per Palmira Cipriano il latino ius, “diritto” e “formula da dire”, sia imparentato con l’iranico *yauš, che deriverebbe dall’indoeuropeo *yewos-, “equilibrio cosmico”. Il Fatum latino, superiore a tutto, anche agli dei, deriva da un verbo latino che significa dire.
Perché le religioni pongono la parola a un livello così alto? Probabilmente perché la parola è un segno e i segni costituiscono la nostra esperienza nel mondo terreno. Il segno è così importante che tutto da esso deriva, quindi è stato implicitamente paragonato a qualcosa di vicino all’Assoluto. Rifacendoci a Sini, possiamo dire che, se in presenza vi fosse una sola impressione sensoriale, la presenza sarebbe equivalente per noi a nulla (Peirce). La presenza che sperimentiamo è invece costituita dalla differenza delle impressioni: ora qualcosa è caldo, ora è freddo, come dicevano gli stoici. Intuire questa differenza tra le affezioni sensibili (Kant) significa rendere la presenza saputa, esperita. Ci accorgiamo sensibilmente della presenza solo se avvertiamo la differenza. Addirittura una scuola filosofica indiana trae nome dal termine vishesa, “diversità”, in quanto nell’universo vi sono molteplici differenze tra le cose, anzi la diversità è l’anima dell’universo.
Ora, possiamo concludere questo: dato che le sensazioni sono un segno alla nostra mente, cioè la percezione mentale di un fenomeno fisico, allora la presenza si dà alla nostra esperienza sensibile solamente come segno. Quindi il segno è tutto per la nostra vita nel mondo fenomenico. Tra questi segni si annovera anche la parola mediante la quale comunichiamo agli altri tutto ciò che ci accade.
Nella concezione indiana addirittura la Parola (Vāc) è la prima manifestazione dell’Assoluto ma non come logos bensì come suono: Suono Assoluto (shabdabrahmana). I testi sacri dell’induismo sono i Veda, che sono scritti in sanscrito, quindi il sanscrito è la lingua più a loro vicina, pertanto il sanscrito deve essere eterno e divino. Per Bhartṛhari i Veda sono la imitazione o ripetizione (anukāra) dell’Assoluto.
In India la religione più antica è il vedismo, che poi lasciò il posto al brahmanesimo e infine all’induismo. Le principali correnti dell’induismo che si basano sulla devozione (bhakti) nei confronti delle divinità, sono il visnuismo, lo shivaismo e lo shaktismo. Per le correnti dell’induismo le varie divinità sono intese come manifestazioni dell’Assoluto, la Vera Realtà. Al termine del ciclo delle rinascite il fedele, liberato dall’illusione del mondo sensibile e della mente, si identificherà con l’Assoluto. Invece per il buddhismo avverrà la estinzione nel nulla (o qualcosa di simile: comunque non esprimibile in termini occidentali). Per il jainismo le anime diventeranno siddha, puri spiriti che godono della eterna beatitudine, che è conoscenza assoluta: vivranno assieme alle altre anime liberate nei mondi superiori.
Il buddhismo nasce in India nel VI secolo a. C. grazie alla predicazione del Buddha storico, poi si diffuse nel resto del mondo, quindi sono molto importanti il buddhismo cinese, quello giapponese, il tibetano, e così via.
La parola Tibet nasce dall’arabo nel XI secolo, invece i tibetani chiamano la loro regione Bod (in tibetano si scrive così ma si pronuncia in maniera diversa). In Occidente si conosce molto poco dei testi del buddhismo tibetano, che qui sono ancora da tradurre. Secondo la tradizione, il buddhismo penetra in Tibet dall’India nel VII secolo nelle elites del paese diffondendosi tra le donne delle corti del Tibet. Invece secondo la ricostruzione degli studiosi, il buddhismo penetra in Tibet dall’Iran.
Il buddhismo tibetano ha alcuni caratteri peculiari. Esso è stato particolarmente diffuso tra i laici, invece in India fu un fenomeno soprattutto monastico. I generi letterari religiosi fruiti dai laici sono soprattutto l’epica, la narrazione e i gur (canti di realizzazione). Di solito nelle religioni i maestri appartengono al clero, invece nel buddhismo tibetano sono laici, come Milarepa. Esistono poi i testi tesoro (terma), abbandonati dal maestro in un certo luogo e poi riscoperti in seguito al momento opportuno. Inoltre nel buddhismo del Tibet i fondatori delle varie scuole non hanno un carattere settario bensì un afflato eclettico. Per l’intero buddhismo l’uomo si reincarna fino alla fine delle vite corrispondente alla illuminazione. Il buddhismo tibetano ha aggiunto a questa visione la dottrina dei Tulku, maestri spirituali che, potendo controllare le loro reincarnazioni successive, decidono di ritornare in questo mondo per aiutare gli esseri umani.
Nel buddhismo tibetano abbiamo un pantheon particolarmente ricco nel quale vengono incluse anche divinità induiste e della religione autoctona, detta Bon. Addirittura in Nepal c’è compresenza di templi induisti e buddhisti: c’è pacifica convivenza di religiosità differenti.
Il Tibet è la terra degli Srin, demoni espulsi sotto la superficie ma che poi divennero gli antenati dei tibetani. Questi demoni sono in larga parte le divinità autoctone del Tibet. Secondo la mitologia autoctona, il suolo del Tibet è il corpo della demonessa supina e partoriente Srin Mo. Questa demonessa partorisce miriadi di demoni. Quindi per introdurre in Tibet il buddhismo bisognava inchiodare con i templi il corpo della demonessa. Pertanto le divinità autoctone non vennero distrutte ma soggiogate dal buddhismo e trasformate in divinità buddhiste.
Nel buddhismo tibetano sono quattro i pensieri ordinari da meditare che trasformano la visione consueta e orientano la mente verso il risveglio e la consapevolezza del nulla di tutte le cose:
- La Preziosa Esistenza Umana: esistono sei mondi progressivamente inferiori, da quello dei deva (divinità) a quello degli asura (semi-divinità) agli uomini, agli animali e due mondi infernali. Dato che la vera realtà è il nulla, tutti questi esseri vivono nell’illusione della loro esistenza (samsara) che in realtà non è, quindi dovranno liberarsi e estinguersi nel nulla (nirvana). Però solo nell’esistenza umana è possibile la pratica del dharma, che permette la liberazione. Quindi le divinità del buddhismo possono aiutare le persone sono nei bisogni materiali perché non si sono liberate, invece gli esseri umani che praticando il dharma sono riusciti ad uscire dall’esistenza, prima della loro estinzione definitiva nel nulla, possono aiutare gli altri uomini anche nella realizzazione. La divinità protettrice per eccellenza del buddhismo tibetano è Tara, che ha 21 forme, sia buone sia terribili.
- Pensiero della morte e della impermanenza del mondo fenomenico, quindi del corpo e di tutto ciò che ci circonda. Nel nostro corpo vi è una energia vitale in tibetano detta lung (prana dagli indiani, chi dai cinesi) che scorre in alcuni canali detti in tibetano tsé (nadi dagli indiani, meridiani dai cinesi). La morte avviene quando questa energia si squilibra a tal punto da uscire dai canali. Ma anche il corpo è una illusione: infatti in tibetano è detto lus, che letteralmente significa “ciò che viene lasciato indietro”. Tutto ciò che ci circonda muta e passa, dal tempo che scorre e trasforma le cose alle stagioni. Ma il passaggio sta dal vedere l’impermanenza a rendersi conto che tutto muta e quindi non è. L’impermanenza è una grande maestra perché ci permette di uscire dall’illusione. I fenomeni sono illusori non perché non esistano ma perché non esistono al di là della nostra osservazione. Il maestro tibetano Gampopa diceva di riflettere su tre pensieri fondamentali: la morte è certa; il momento in cui accade è imprevedibile; niente e nessuno ci seguirà al momento della morte se non il karma che abbiamo accumulato.
- Ineluttabilità del karma: le azioni hanno delle conseguenze, quindi se sono cattive portano a sofferenza. Se facciamo male a qualcuno, questo avrà un karma negativo. Il karma passa attraverso la volontà: la volontà di fare del male produce un karma negativo superiore rispetto a fare del male involontariamente. Il karma si produce attraverso corpo, parola e mente: ciò che facciamo con il corpo, ciò che diciamo e ciò che pensiamo. Un solo atto può produrre molti frutti, molti esisti, sia in senso positivo che negativo. Se è buono, crea un frutto buono, o viceversa. Tutto torna sempre indietro.
- La vita in questa dimensione terrena è fonte di sofferenza. È la struttura difettosa del mondo nel quale viviamo. Nel corso della nostra esistenza incontriamo diversi tipi di infelicità: della nascita, della malattia, della vecchiaia, della morte, e così via. Questo ci porta alla compassione, in tibetano thung-je, parola formata dal termine “cuore” e da quello “superiore”, per cui dobbiamo eliminare il dualismo, cioè il nostro cuore deve essere superiore al dualismo io-tu: siamo tutti fratelli da amare e aiutare in quanto soffriamo.
Il buddhismo tibetano ha molte immagini sacre che aiutano la meditazione. Queste immagini religiose sono prive di valore se non sono consacrate: altrimenti sono ro, “cadavere”. In quest’arte religiosa canonica iconografia e iconometria si compenetrano: questo porta a fare sempre immagini analoghe.
Gli indigeni tukano del Vaupes, detti desana, sono una tribù di circa mille individui nelle foreste pluviali del Vaupes nell’Amazzonia colombiana. Il loro territorio è il bacino del Rio Papurì ma si estende anche a sud fino al Rio Tiquié in Brasile. Presso questa popolazione lo sciamano è detto payé. Il payé è un individuo convinto della sua missione sacra, con grande senso del dovere per la comunità. Il sacerdote (kumù) si occupa di una sfera più vicina alle divinità che agli uomini. Il payè invece è un uomo d’azione, a contatto con gli accadimenti quotidiani del suo gruppo. È un mediatore fra uomo e natura. In genere agisce da solo perché ogni sciamano cerca di avvantaggiare il proprio gruppo. L’ufficio e il potere sciamanici sono derivati dal Sole. Il primo payé possedeva la polvere di nixò nel suo ombelico ma le donne la rubarono. Un payé riunisce in se diverse idee di potere: forza fisica, capacità intellettuale, facoltà soprannaturali (tulari). La parola tulari è traducibile come iniettare attraverso il pungiglione. Questa idea di penetrare si lega al fatto che il payé rappresenti l’idea fallica del procreare. Si riferisce inoltre al penetrare in uno stato di estasi. L’anima del payé viene paragonata al fuoco la cui luce penetra nell’oscurità per rendere visibili le cose. Più è potente più emana luce, è il concetto di SIMPORA DEYORI, “lasciarsi vedere”, “trasformarsi in visibile”.
Il payé è una figura solare, la luce è il suo elemento naturale. Per diventare sciamano deve mostrare sin da giovane un profondo interesse per le tradizioni religiose e conoscere bene miti e invocazioni. Deve saper riflettere, fare astinenza, danzare, cantare e dar consigli. Deve essere un buon capofamiglia ma non concentrarsi sulle donne. Soprattutto deve saper gestire le allucinazioni, “udire l’eco”. A 25 anni inizia l’apprendimento formale. La funzione di payé è legata a un certo tipo di personalità che viene riconosciuto da parte degli altri già dalla fanciullezza. L’apprendista va presso un altro gruppo per stare accanto a un payé di fama. Per questo egli paga una decina di canoe. L’insegnamento dura 6 mesi. Oltre ad insegnare la teoria, l’anziano soffia la polvere narcotica nelle narici dell’apprendista trasmettendogli col suo soffio il potere di avere visioni. L’apprendista deve mangiare carne cruda o poco cotta (pura), fare astinenza sessuale, svegliarsi di notte per fare il bagno nel fiume, mangiare cibi che causano il vomito e aspirare peperoncino dal naso. Prima dell’alba lui e il payé vanno al fiume a invocare il sole. Si pensa che accanto a loro stiano gli esseri del giorno, del sangue e degli animali che trasmettono il potere al giovane. Alla fine lo sciamano anziano colloca all’interno dell’avambraccio sinistro dell’apprendista dei sottili aghi di palma e li preme col cilindro di quarzo. Al contempo insegna al giovane a sparare queste schegge verso qualcuno per infliggergli una malattia. Alla fine il giovane si tuffa nel fiume dopo aver preso una dose di yajé. Sott’acqua trova un oggetto che sarà il suo contenitore del potere e indicherà il suo status di payé. È un bastone o lancia lasciato lì dal maestro. In lingua desana il payé è detto ye’e (giaguaro) perché si dice possa trasformarsi in questo animale. Ma la parola viene da ye’eri: avere rapporti sessuali. Il payé non è che uno strumento fallico che si intreccia con il suo potere nel processo di procreazione bio cosmica. Anche tutti i suoi strumenti hanno carattere fallico.
Un payè deve saper vedere la via lattea come un grande sentiero, le colline rocciose come grandi case e gli animali come persone. Il compito principale è negoziare anime in cambio di animali. In generale il payé offre anime di nemici o di altre tribù. Spesso quelle dei subordinati Makù. Si dice che nelle negoziazioni si trovino payé di tribù diverse in un clima amicale ma possono risultarne anche liti violente. Il paesaggio amazzonico è monotono e ogni variazione (radure, colline…) per lo sciamano rappresenta un luogo magico ma pericoloso per l’uomo comune.
Nello scintoismo, la religione principale del Giappone, esiste una celebrazione religiosa molto caratteristica detta Matsuri. Ci sono molti studi sul tema del Matsuri e anche studi che si focalizzano su determinati aspetti del Matsuri stesso che comprende molti elementi e che quindi possono essere analizzati da più punti di vista, per cui ci sono studi del Matsuri come rituale religioso, studi sul ruolo della musica all’interno dei Matsuri e studi che si concentrano sulle arti performative che hanno luogo proprio durante questa forma di celebrazione rituale. Qualunque sia l’approccio che viene usato è però importante tener presente che tutti questi elementi sono insieme e intrecciati e che rendono il Matsuri quello che effettivamente è.
Il Matsuri è un rituale che potremmo definire come complesso proprio perché presenta molte forme e molti elementi e si costruisce in genere sull’incontro e sulla presentazione di offerte fra una comunità umana e quello che è il suo Kami tutelare, cioè la divinità giapponese. Non si tratta solo di rituali religiosi, ma ci sono anche altri eventi all’interno del Matsuri: gare sportive, danze, forme teatrali: è infatti una festa anche per la comunità.
I Kami per cui viene organizzato un Matsuri possono rientrare in varie tipologie. I Kami legati a fenomeni naturali o elementi naturali, un esempio è il monte Miwa o anche il Monte Fuji. Una seconda tipologia di Kami sono gli antenati di un particolare uji (clan), quindi una particolare comunità. Ci sono poi anche Matsuri legati a figure storiche che sono diventati poi oggetto di culto, sono state trasformati in Kami, come ad esempio Sugawara no Michizane, Tokugawa Ieyasu, che erano imperatori Meiji, ma anche, ad esempio, Abe no Seimei, un noto praticante dell’Onmyodo del periodo Heian; a lui sono dedicati anche molti prodotti della cultura popolare come Manga, serie televisive, film e quindi è una figura che è diventata molto popolare, proprio per le pratiche e per i poteri che si dice avesse. Ci sono poi Matsuri che celebrano i goryo, spiriti potenzialmente vendicativi come nel caso ad esempio di Sugawara no Michizane. Inoltre ci sono Matsuri dedicati a Kami che si ritiene possano causare epidemie, per cui venerandoli e celebrandoli si intende bloccare queste calamità o prevenirle.
Alcuni esempi di Matsuri legati a divinità che causano epidemie è quello di Saito ne Mori, alla fine del XII secolo. Saito era un guerriero caduto in battaglia; il suo cavallo è inciampato e l’ha fatto cadere in un campo di riso, dove il nemico l’ha colpito a morte. A quanto pare, in seguito a questo evento ci sono state diverse sventure nel villaggio che hanno portato gli abitanti a organizzare un Matsuri proprio per lo spirito di Saito perché tra le varie sventure, c’era quella della comparsa di molti insetti che hanno distrutto il raccolto, quindi era importante cercare il modo di risolvere la situazione. In uno di questi Matsuri, viene creata un’effige di Saito ne Mori, che viene portata per le strade del villaggio e per i campi; si ritiene che toccandola le persone possano riversare in questa effigie le loro impurità e le loro sventure. Al termine del Matsuri l’effige viene lasciata ad esempio all’interno del fiume, per far sì che se ne vada dal villaggio, portando via con sé tutte le possibili fonti di impurità e sfortuna. Questo tipo di Matsuri legato alla figura storica di Saito ne Mori entra a far parte della tipologia dei rituali mushi okui, tutti quei rituali che servono in estate per eliminare gli insetti dai campi, intesi anche in senso spirituale, quindi spiriti negativi che possono causare problemi al raccolto e di conseguenza al sostentamento del villaggio.
Non è necessario che un Matsuri specifico sia dedicato a un unico Kami; ci sono infatti Matsuri che oltre a un Kami principale prevedono la presenza di Kami minori. C’è un caso abbastanza emblematico che è quello dello Hanamatsuri nella prefettura di Aichi, che si tiene in autunno; si vanno a venerare 225 Kami, quindi è un Matsuri che si estende su più villaggi.
Nel momento in cui il Kami è pacificato dal Matsuri si crea un ordine, e questo ordine viene posto anche sulla comunità; se al contrario, il Kami viene lasciato libero di manifestare la sua natura violenta, allora sulla comunità possono cadere calamità naturali, ci possono essere disordini sociali. Pertanto il legame che c’è fra il Kami, il territorio e la sua comunità è molto molto stretto, è un legame che si mostra nella sua importanza proprio nel momento del Matsuri.
In Giappone il sacro rientra in tutta la vita della comunità. Il Matsuri sarebbe un evento di una sacralità più alta, è un momento per cercare di risacralizzare il mondo nei casi in cui si percepisce che il sacro si stia affievolendo. Quando l’ordine sacrale della realtà quotidiana viene meno, un Matsuri ristabilisce il giusto equilibrio.
Il Matsuri ha una struttura di base caratterizzata da tre fasi principali:
- la prima fase è detta kami oroshi, letteralmente vuol dire far scendere il Kami. É la fase in cui si invoca la presenza di un Kami e lo si chiama in un luogo che è stato ovviamente purificato prima del suo arrivo per accoglierlo al meglio.
- la seconda fase è detta kami asobi e come dice il nome, si tratta di intrattenere il Kami, anche ai fini di tranquillizzarlo e pacificarlo nel caso sia un Kami legato a epidemie a catastrofi.
- l’ultima fase è detta kami okuri, quindi si congeda il kami.
Per quanto riguarda la prima nella fase, vi sono diverse modalità con cui si può richiamare e far giungere il Kami. Inoltre, quando il Kami arriva e si manifesta, può entrare in un oggetto, come ad esempio lo shintai, poi in alcuni casi, soprattutto nel periodo premoderno, poteva prendere possesso di una persona, in genere un bambino. Questa forma non è praticata nella contemporaneità. Si invoca il Kami con musiche, canti e danze, invocazioni, e una volta che arriva il Kami, si manifesta e viene accolto all’interno di un mikoshi, un piccolo altare portatile. Nell’ottica di leggere il Matsuri come un ristabilimento dell’ordine questa prima fase va a rappresentare il caos, lo stato caotico: ci sono urla canti danze e in particolare uso di alcol. Proprio un clima di confusione in alcuni casi per esprimere questa natura potente del Kami pericolosa; in molti casi il mikoshi viene preso e scrollato anche in modo abbastanza violento. È però una confusione controllata, nel senso che il caos si manifesta e si deve manifestare solo in questa fase.
La seconda fase ricostruisce l’ordine. Pertanto il Matsuri diventa ordinato, disciplinato, si seguono determinate regole. La fase di kami asobi è in genere costituita da una processione della comunità guidata dai sacerdoti del santuario che di solito accoglie il Kami in questione. La comunità con i sacerdoti e con i koshi che racchiudono il Kami procede per le strade del proprio quartiere e poi ritorna verso il santuario. Una volta arrivati a destinazione, i sacerdoti presentano al Kami delle offerte, rappresentate da cibo e bevande e in questo caso facciamo sempre riferimento in particolar modo a riso e sakè. A questo fa seguito l’offerta di musica e danze. Le forme artistiche che vengono presentate come offerta alla divinità sono altamente codificate a loro volta, quindi anche queste performance rappresentano l’ordine: non c’è improvvisazione o un movimento che sia fuori tempo o fuori posto. In questa fase, oltre a musiche e danze di vario tipo, possono essere offerti anche altri divertimenti, come gare, competizioni; ad esempio, gare di cavallo e tiro con l’arco, sumo.
La fase in cui si congeda il Kami si compie riportando lo shintai (oggetto sacro nel quale si manifesta la divinità) al suo posto all’interno del honden, la parte più sacra del santuario scintoista.
I Matsuri hanno anche un ruolo molto importante nel rinsaldare i legami comunitari e richiedono infatti la collaborazione dell’intera comunità per la loro esecuzione. Quindi è necessario ad esempio raccogliere i fondi, ottenere i permessi per bloccare il traffico il giorno della processione, coordinare tutti i partecipanti: questi compiti in genere sono lasciati agli uomini. Durante la processione i ragazzi e i giovani uomini hanno il compito di portare il Mikoshi e di trascinare i carri. In genere le donne rimangono un po’ dietro le quinte, quindi preparano ad esempio il cibo per la comunità, sistemano i costumi che vengono utilizzati nelle varie fasi del Matsuri. Ci sono però alcune eccezioni, come ad esempio le miko, che offrono performance di kagura o ancora eccezioni rappresentate da giovani donne che danzano o ancora in alcuni casi possono partecipare anche in modo attivo alla processione però è in genere il ruolo predominante all’interno del Matsuri è ancora quello maschile.
Bibliografia
- C. Bellini, Nel Paese delle Nevi. Storia culturale del Tibet dal VII al XXI secolo, Torino 2015;
- J. Breen, M. Teeuwen, A New History of Shinto, London 2010;
- C. Gianotti, Donne di Illuminazione. Dakini e demonesse, Madri divine e maestre di Dharma, Roma 2012;
- M. Raveri, L. V. Tarca (a cura di), I linguaggi dell’Assoluto, Milano 2017;
- G. Reichel-Dolmatoff, Il cosmo amazzonico. Simbolismo degli indigeni tukano del Vaupes, Milano 2014;
- C. Sini, Distanza un segno. Filosofia e semiotica, Milano 2006.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 40 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
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