9 Ottobre 2024
Musica

La risonanza del remoto: il richiamo estatico ai tempi del consumatore ipnotizzato – Enrico Falbo

1. La domanda sul significato della musica: esperienza estetica ed esperienza estatica.

La domanda sul significato e sull’essenza della musica è sempre più inconsueta. Qualsiasi risposta basata sul soggettivismo del gusto, del piacere, dell’emozione, del sentimento che suscita in noi o sull’oggettivismo (conservatore o avanguardista), del “riscontro” o della “provocazione” nel contesto storico-culturale, non coglie e non comprende affatto la portata di una tale domanda. In questo articolo si cercherà di mostrare che il significato più profondo, più autentico e più originario della musica rimanda non tanto alla sua dimensione estetica ed emotiva o alla sua “missione sociale”, ma alla sua “dimensione estatica”. Se è vero che «de gustibus non est disputandum», è vero che il gusto non è qualcosa di fisso e statico, ma è piuttosto un padrone volubile. Esso può affinarsi, cogliendo più sfumature, ma può anche indebolirsi e ridursi, portando addirittura alla “disgeusia”. Rigettare come “brutto” tutto ciò che non rientra nei parametri assolutizzanti del proprio gusto è la cosa più scontata e può essere un grande ostacolo all’espansione della percezione della bellezza, soprattutto quella che si esprime mediante aspetti non familiari e che richiede una rimozione dei condizionamenti culturali e uno slancio intuitivo oltre lo spazio e il tempo, capace di indurci alla rammemorazione delle “forme significanti” che mostrano le “relazioni interne tra le cose”. Samagadeva, filosofo indiano vissuto nel XIII secolo, affermava che la musica non è stata creata per il “piacere”, ma per la “liberazione”.

Il suono, sin dal Remoto, è intrinseco alla creazione e alla cosmologia. L’Inno del Vangelo di Giovanni, “In Principio era la Parola” (Logos) rimanda ad una tradizione sapienziale più arcaica, che anteponeva la sonorità ai concetti, dunque l’indicibile ricchezza di senso del suono alla delimitazione delle parole (1). Marius Schneider, nel suo prezioso e densissimo libro La Musica Primitiva (2) risalendo alle antiche cosmologie “acustiche”, alla forza creatrice della musica primordiale, al “sacrificio sonoro” degli dei e della protoumanità e alla capacità del mago cantore di udire e di far ri-suonare questo “sacrificio” cosmico, ci pone dinanzi ad una porta maestosa e arcana del Remoto. I miti della creazione, anche quelli più primitivi, ci informano sul significato e sulla funzione della musica e sul suono “creatore”, che è al tempo stesso “sostanza” del mondo e che proviene da un “fondo di risonanza”, dall’ abisso primordiale di una “bocca spalancata”, dal Vuoto di una “fessura nella roccia” (Upanishad) o di una “caverna cosmica” (supernatural ground). Il creatore e il cosmo stesso, l’uomo e gli dei, secondo le concezioni tradizionali remote, sono sostanze acustiche:se il creatore è un canto, è evidente che il mondo a cui dà vita è un mondo puramente acustico. Il suono, scrive Schneider, «è la sostanza originaria di tutte le cose, anche là dove non è più percepibile per l’uomo comune. Il canto della morte è l’atto creativo da cui si sprigiona la vita» (3). Attraverso la “vibrazione primordiale” (OM, Logos, Tao, Brahman, Sefer Yezirah, il Tamburo di Shiva, il flauto di Pan, la risata di Thoth ec…) l’Invisibile si fa visibile, l’Indicibile risuona e  l’universo metafisico di essenze sonore si manifesta “nascondendosi” e “custodendosi” come universo visibile e materiale. La musica, per l’antica sapienza è, quindi, una “via sacra”, nel senso profondamente interiore ed è l’espressione del sacrificio sonoro (4), forma più pura e più potente di qualsiasi altra offerta materiale, di qualsiasi olocausto, essendo in grado di spiritualizzare gli uomini e materializzare gli dei in un modo molto più immediato. Pertanto, gli uomini e dei hanno bisogno del “cibo sonoro”, del canto e del controcanto, che non è altro che l’essenza dei riti, ossia del sacrificio sonoro reciproco. La pratica musicale è rituale estatico, e non dimostrazione o autoesaltazione di sé stessi. Gli sciamani, i baksi e i kam dell’Asia Centrale, attraverso di essa raggiungono livelli di trance per la cura psichica, fisica e spirituale della collettività. La musica, qui, non è solo “una compagna per la gioia e il divertimento”, o un mezzo per veicolare e suscitare emozioni o piacere per se stessi. È una forma di magia, una “pratica” curativa psicofisica, è un rito unificante per la comunità, è una via di autoconoscenza verso stati sublimi, è la fonte del coraggio nella guerra, è l’incontro con gli spiriti del buio e della luce nei luoghi psichici, è la festa dell’Eterno. Il suono può aiutare a guarire e rigenerare e a proteggere dagli influssi negativi corporei, naturali, astrali, psichici e spirituali. Il suo potere è grande, e forse non ne siamo davvero consapevoli in un’epoca in cui la nostra esperienza della musica si basa su un “non-ascolto” consumistico frivolo, generico, frenetico e su un piacere soggettivistico vincolato al proprio livello di emotività e sensibilità, tra l’altro molto spesso indotta dall’artificioso progetto “a tavolino” dell’ industria culturale, che ci bombarda e condiziona ogni giorno. Crediamo di essere liberi nella scelta e nel gusto, ma lo siamo davvero poco in un’epoca in cui le stesse emozioni non sono che oggetto di calcolo, marketing e pianificazione, “cose tra le cose” che si svendono a buon mercato. La musica potente è ek-stasi, è l’uscita dalla propria egoità ordinaria, quotidiana, è l’oscuramento del confine tra soggetto e oggetto, è la tensione originaria dell’Inaudito: non è “esibizionismo”, ma essere-disposti al Nascosto! Essa è il veicolo di trasformazione del nostro essere-nel-mondo, è il viaggio verso “luoghi” e verso sé alternativi, verso dimensioni di coscienza sovra-individuali, ma altrettanto reali. Purtroppo, troppo raramente, ai tempi del “consumatore ipnotizzato”, chi si incammina sulla via della musica lo fa per raggiungere «un altro regno, un altro tempo con altri tipi di conoscenza» (5) e per ritornare ad essere un “risuonatore cosmico”. Secondo la concezione indù tutto l’universo si con-tiene nella risonanza e la bellezza è “ovunque”, ma dipende dalla capacità di avvertire o di assaporare il rasa (sapore). Ciò, tuttavia, non implica alcuna relatività del gusto soggettivo e soprattutto non chiama in causa alcun criterio basato sull’autorità. Questa capacità, non dipende dallo studio, ma dal “merito” acquisito da una “vita precedente”. Ecco perché viene spesso riconosciuto, anche in Occidente, che “artisti si nasce e non si diventa”. Come rileva Marius Schneider dai suoi studi sulle società sciamaniche e primitive,

«il divenire o meno un mago cantore non è oggetto di scelta. Una voce imperiosa che vive nell’anima del candidato gli impone il suo destino. Un mago iakuto racconta che all’età di vent’anni, cadde malato e udì all’improvviso le voci di tutti gli oggetti, voci che gli altri uomini non potevano percepire. Egli ne soffrì terribilmente finché non prese un tamburo e cominciò a cantare e a suonare» (6) .

L’estetica razionale occidentale dell’epoca moderna ha fondato i propri giudizi sulle musiche orientali o primitive in base ai paradigmi estetici epocali e sulla concezione evoluzionistica delle culture e delle arti, senza mettere in discussione la propria capacità o incapacità di vedere la bellezza. Così ad esempio, i primi viaggiatori giudicarono le musiche delle culture indigene “grezze”, “monotone”, “stonate”, “non ancora evolute”. Il giudizio di K.C.F Krause nel 1827 al riguardo è emblematico, ed evidenzia l’incapacità di “ascolto” dello storico o del critico occidentale moderno, che assolutizza la propria abitudine o il proprio paradigma estetico-musicale:

«nell’antichità che fu l’infanzia della musica, si conosceva soltanto la melodia semplice e disadorna, così come avviene oggi con i popoli quali gli Indù, i Cinesi, i Persiani e gli Arabi che ancora non sono progrediti oltre l’età infantile» (7).

La bellezza lungi dall’essere una “qualità” delle cose, è uno stato che, come scrive Coomaraswamy,

«non si può conseguire con uno sforzo volontario, nonostante sia forse possibile rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la manifestazione» e che «non può essere raggiunto nella ricerca del piacere; gli edonisti hanno il proprio premio, ma sono schiavi della piacevolezza, mentre l’artista è libero nella bellezza» (8).

Se tutto il significato della musica fosse rimandato al gusto o al criterio soggettivo, di un individuo o di una collettività, allora la musica sarebbe già finita da secoli o addirittura mai cominciata. Come ci viene riferito dallo storico, filologo ed esoterista Fabre d’Olivet, nei frammenti superstiti della sua voluminosa opera sulla musica, già «Pitagora raccomandava di non fidarsi del proprio orecchio per esprimere giudizi, essendo questo instabile e suscettibile d’errore per quanto riguarda la dottrina dell’armonia» (9). La musica era intesa dagli antichi egizi e dagli antichi greci una scienza universale, una dottrina iniziatica e un mezzo di educazione, di tras-formazione e di transito dal livello fisico ed emotivo a quello intellettuale. Essi nascondevano i principi della “scienza musicale” non per la loro difficoltà o per evitare errori interpretativi, ma per preservare la loro semplicità dalla banalizzazione e dal disprezzo. Infatti, gli antichi sapevano bene che le cose quando vengono troppo esplicitate e rese palesi perdono il loro fascino e il loro significato; affinché esse vengano maggiormente venerate e desiderate nella loro vera essenza sarà necessario limitarsi ad accennarle e rivelarle attraverso difficili enigmi da risolvere e prove da superare. Così, i Maestri antichi

«volendo agire nell’imitazione della divinità, che si sottrae ai nostri sensi e si compiace di celare agli uomini la vera essenza della natura, seminarono di ostacoli i sentieri dell’iniziazione, si circondarono di velami allegorici e non si pronunciarono se non per voce dei simboli, al fine di frustare la curiosità degli uomini, di spingerli a fare dei raffronti, e di saggiare la loro costanza per mezzo delle numerose prove a cui li sottoponevano. Coloro che pervenivano agli ultimi gradi dell’iniziazione, giuravano di non tradire mai i segreti che a loro erano stati confidati» (10).

Non si trattava, dunque, di comunicare sofisticate nozioni o complicate tecniche esecutive, né astratte teorie come nelle moderne accademie musicali basate sul formalismo o improntate sull’ innovazione tecnologica e sull’impiego degli algoritmi e della matematica11, ma di preservare il senso del segreto dalla banalizzazione e l’aura sacrale dalla riproduzione e dal “valore espositivo” tipico dell’ «epoca della riproducibilità tecnica», come venne definita da Walter Benjamin. Alcuni maestri indiani, agli inizi del Novecento, rifiutavano di farsi registrare proprio per questi motivi. Secondo alcune testimonianze, il cantore persiano Agha Zia non volle insegnare le più belle melodie al proprio figlio per evitare la loro diffusione su radio o su disco, mentre il sitarista indiano Ravi Shankar insegnava i segreti musicali e le tecniche di improvvisazione dei raga solo ad alcuni allievi. Nonostante i cedimenti all’era della grande diffusione dei mass-media, gli odierni maestri orientali sanno bene che

«questi mezzi non determinano una vera divulgazione dei segreti, in quanto non consegnano che l’apparenza, l’oggetto musicale, la tecnica. Tutto il resto, che fa della tradizione non già la preservazione di un oggetto, ma di un processo di trasmissione, e in specie di un’arte dell’esecuzione”, evidentemente non passa nei libri, nelle registrazioni, negli spettacoli o nei video, sicché l’essenziale è comunque
preservato» (12).

Il richiamo del Remoto e l’incontro con le tradizioni arcaiche ed extraoccidentali, che hanno custodito più gelosamente i segreti della musica, nonostante la loro Zivilisation, può farci scorgere cose nuove e perenni che l’eccessiva immersione nel tempo, la fandonia mediatica, la frenesia, la disattenzione, il conformismo e l’ingenuità tendono ad escludere. Se consideriamo le società degli sciamani e l’importanza data alla musica per il raggiungimento dell’ estasi, la questione appare ancora più evidente. Prima di suonare, lo sciamano compie il rituale dell'”animazione” del suo strumento principale trasformandolo in un animale o in un’arma capace di sacrificare la sostanza sonora degli dei. Gli strumenti musicali presso le società arcaiche rappresentano simbolicamente il dualismo delle forze cosmiche o meglio, sono divinità nate dal “sacrificio”, “morti” che cantano nelle mani di un uomo. Non è un caso che i primi strumenti furono costruiti con ossa e pelli di uomini ed animali e che fossero in ogni parte connessi ad un sistema magico-simbolico e cosmologico, attuando così l’unione metafisica del macrocosmo con il microcosmo:

«ogni corpo risonante proveniente da una materia “antica” o dal sacrificio di un dio, di un antenato, di un uomo o di un animale è un serbatoio di forze soprannaturali, le cui forme a volte antropomorfe o zoomorfe riproducono l’immagine degli esseri sacrificati» (13).

Non è difficile intuire l’enorme distanza che separa queste tecniche di costruzione dalle odierne produzioni industriali degli strumenti musicali e il valore magico della “materia antica” dall’attuale infatuazione per il vintage o per l’elaborazione elettronica del suono musicale (14). Lo strumento musicale per lo sciamano non è una semplice “macchina” sonora, ma un essere vivente sacro, che lo guida e lo fa volare nel suo “viaggio” nel mondo celeste o infernale:

«Lo sciamano monta a cavallo del tamburo; colpendo ora davanti, ora dietro egli gira come una trottola esclamando “sai, sai!”, come se incitasse un cavallo. Per qualche istante canta a voce bassa, poi continua a voce alta…Egli depone il tamburo e si sdraia sul dorso. In tale posizione egli si “immerge” nel culmine dell’estasi;le mani e i piedi cominciano ad intrecciarsi come corde. Continuando a volare, lo sciamano afferra con le mani l’anima del tamburo che se ne stava andando, la stringe nel pugno, la prende nella
bocca e la mastica a lungo» (15).

Racconti del genere aiutano a riscoprire una comunicazione più profonda che si potrebbe avere con lo strumento che si suona e con la musica che ne viene fuori. Molti studiosi positivisti e “civilizzati” hanno definito questi riti forme di esibizionismo e di autosuggestione psicologica;viene da pensare, però, che l’autosuggestione psicologica e l’esibizionismo siano, al contrario, una forma mentis molto più diffusa nelle società “civilizzate” e “laiche”. Il rapporto tra musica, trance ed estasi è un fenomeno che caratterizza tutte le culture, pur manifestandosi in forme diverse. In occidente la trance è stata condannata due volte, in tempi diversi e da due forme di ortodossia: prima quella religiosa e, poi, quella “scientista”. Oggi, la nostra società modernizzata ha messo da parte l’esperienza della trance, soprattutto a causa della concezione positivista e razionalista dei primi antropologi e psicologi che riduceva tali fenomeni a forme patologiche, o disturbi dissociativi o a finzioni:«la trance non riesce a mobilitare granché l’attenzione della comunità scientifica;è divenuta una curiosità o un’aberrazione, e questa deplorevole circostanza costituisce una remora insormontabile»(16). Nel corso del Novecento, però, l’antropologia, la psicologia, la biologia hanno mutato il punto di vista al riguardo (17). Questo ha dato avvio, così, ad una riconsiderazione dell’estasi e della trance in quanto forme legittime di esperienze conoscitive e modalità di “tras-formazione della realtà” , o meglio, del nostro essere-nelmondo, come sostenuto da Gilbert Rouget (18).

 

2. Persuasioni occulte e aperture semi-estatiche ai tempi del “consumatore ipnotizzato”: alla ricerca di un “nuovo archetipo” del musicista.

Quanto può incidere la domanda sul significato della musica, che conduce inevitabilmente al di là dell’ideologia anti-metafisica e antirituale attualmente imperante, sulla creatività dei musicisti, sullo sviluppo ed utilizzo degli strumenti musicali elettro-acustici, sulle nuove tecniche e pratiche compositive, sugli spazi musicali, sul presente e sul futuro della musica? Quale sarà il “nuovo archetipo” dell’artista-musicista, che lo eleverà dall’ ibrido e dal deleterio? Come ha scritto Elemire Zolla, «è molto difficile stabilirlo dopo secoli di distacco dell’arte profana da quella sacra e una volta che si è perso di vista che l’esperienza di vetta dell’arte è la meditazione estatica, che solo le prerogative dell’arte sacra hanno il potere di attivare» (19). E’ noto che nelle moderne società occidentali, dove la de-sacralizzazione è estesa ed evidente e dove la comunità si sgretola in una molteplicità di individui “consumatori” e “utenti”, spesso sotto il controllo dei “tecnocrati” e degli specialisti del settore, la musica acquisisce sempre più valore in riferimento a parametri astratti e quantitativi (vendite, download, visualizzazioni, clic, “mi piace” dei social network ecc…), riducendosi a un “prodotto” forgiato dalle leggi del mercato, del marketing e della tendenza del momento. Si dimentica, nonostante gli importanti studi neuroscientifici, psicologici e sociologici sugli effetti subliminali nel sub-conscio, che il piacere, il gusto, i comportamenti, le emozioni e il pensiero degli individui sono come “materia” plasmabile. Basterebbe ricordare le note teorie psicologiche comportamentiste sul condizionament di Watson e di Skinner, poi le ricerche sulla comunicazione persuasiva occulta di Vance Packard (20) e gli studi più approfonditi in ambito neuroscientifico sulla ricezione di “informazioni” che arrivano direttamente al cervello senza coinvolgere la nostra coscienza e prima della nostra consapevolezza o della percezione cosciente dell’ agente (come si dedurrebbe dagli esperimenti di Benjamin Libet) (21).  Se la manipolazione delle menti e del meccanismo emotivo dell’ “uomo-massa” sia dovuta a intenzioni meramente commerciali e non ideologiche o se sia il degradarsi di una intenzione  metafisica e sovra-storica più originaria, resta un problema aperto. Eppure l’impiego delle tecniche di “persuasione occulta”, pur restando un segreto d’ufficio delle grandi aziende, probabilmente è molto diffuso, soprattutto nell’epoca digitale, del web 3.0, quindi dello sviluppo dell’ Intelligenza Artificiale e del social engineering. La società di massa e dell’ homo consumens, si è evoluta in una società dello show, dove la felicità è garantita da spettacolari fintaggini, dagli “strizzacervelli”, dagli antidepressivi e dove ciascuno è “assoldato” e addestrato come nel kafkiano Gran Circo di Oklahoma. Un elzeviro di Zolla, scritto intorno agli anni ’70, mostra chiaramente lo stato attuale delle cose:

«alle sciagure che hanno gravato da sempre nella vita dell’uomo, la morte, la malattia, la vecchiaia, la fame s’è aggiunta in questo secolo una disgrazia meno vistosa ma forse proprio per questo più disperante: la riduzione dell’uomo a strumento passivo di accorte manipolazioni. Le dittature hanno tentato di plasmare artificiosamente i giovani, la tecnica dell’imbottimento dei crani ha tentato di spegnere nella masse ogni spontaneità, ma ora la nuova tecnica pubblicitaria e in particolare la pubblicità subliminale, si sono imposte in modo indiscreto e letale» (22).

Queste parole, “vecchie” di cinquanta anni, valgono soprattutto oggi, dove gli inganni e le manipolazioni sono più pervasivi, più persuasivi e sempre più coercitivi. Ciò che era quasi fantascienza è divenuto oggi realtà politica quotidiana: non si tratta, quindi, di sostenere un generico
“complottismo”, spesso ridicolizzato, e non a torto, in quanto altra faccia del potere, della superstizione, dell’ideologia e della “manipolazione delle menti”. La storia conserva i suoi lati oscuri ed è difficilmente confutabile che nell’uomo moderno «i sentimenti scattano come molle d’un congegno al tocco di un padrone invisibile» (23).

Ad aggravare la situazione è il «colto che si barrica nel proprio gergo per non essere inteso» (24) , che smarrisce la via d’uscita dal labirinto attuale nel suo linguaggio allusivo e “borghese” e che alla fine non è più inteso e non sa più di cosa sta parlando egli stesso. L’ingenuo rifiuto della metafisica (25), come sapienza perenne che vivifica e nutre ciclicamente ogni dimensione umana, (dall’estetica alla politica), ha condotto alle filastrocche scientiste, all’idolatria del progresso e dell’ illusoria “evoluzione lineare” e a una società governata da un meccanismo “fraudolento”, derivato dalla mancanza di principi perenni. Se, parafrasando Martin Heidegger, l’Inizio è l’avvenire, esso può essere avvertito nell’epoca della Macchinazione e dell’Abbandono dell’Essere (26) proprio in forza del suo risuonare al di sopra e al di sotto di noi. In questi tempi “dissolutori”, dove dominano nella dimensione artistica tendenze “intimistiche”, soggettiviste, edoniste, emotive e sentimentaliste, la musica ha funzioni piuttosto chiare: essere un sottofondo per il «feticismo delle relazioni umane», «essere un articolo voluttuario destinato a parassiti oziosi» (Lukacs), essere mero doping (Stravinsky), essere un mezzo profano che conduce ad invasamenti ed infatuazioni che si traducono in estraneamento, tramortimento e chiusura nel dominio del piacere sensibile e delle potenze sub-psichiche, connesso al frequente uso di droghe. Come notò Julius Evola, riferendosi all’epoca del jazz e dei grandi concerti beat,

«si tratta di aperture semi-estatiche e isteroidi di una informe convulsa evasione, vuote di contenuto, per così dire principio e fine a se stesse. Quindi è del tutto inacconcio il ravvicinamento, fatto da alcuni, con certi riti frenetici collettivi dell’antichità, dato che questi avvenivano sempre in un fondo sacrale» (27).

A queste e a tutte le limitanti “condizioni” del presente, forse solo il remoto e risonante archetipo del “sacrificio sonoro” e del “Morto che canta” (28), come rilevò Marius Schneider (29), può liberarci dal “canto di morte” attuale, con tutto il suo degradante e deleterio “culto dei geni” e della “musica di consumo”, troppo effimera per nutrire il divino, ergo, l’umano! Se talvolta essa riesce a comunicare emozioni e sentimenti, quasi sempre rilascia nell’oblio il suo significato “supremo” e primordiale, un tempo custodito anticamente in Occidente da un ristretto numero di “iniziati”, che operavano in un contesto storico-sociale in cui la scissione moderna tra “sacro” e “profano” era del tutto inconcepibile o, molto probabilmente, insensata. Ancora oggi, in molte società extraoccidentali, è ancora possibile scorgere che la musica non è liturgia o ornamento del rituale, ma è l’essenza del rito stesso, che ri-conduce all’unione con il divino, al “contatto” con i molteplici stati dell’essere, all’estasi e agli stati di trance, come nello sciamanismo. Come fa notare Jean During, che ha studiato in maniera profonda il rapporto tra musica ed estasi nei rituali sufi (30), nei “concerti spirituali” (dikr, sama) assimilabili nella loro struttura a veri e propri mandala sonori, avviene un’intensificazione dell’esperienza estetica che conduce all’esperienza estatica attraverso «un progressivo passaggio dall’entasi all’estasi». Secondo lo studioso, sia nella “musica d’arte” che nella musica sacra si tratta di suscitare uno spostamento (ek-stase), un’uscita da se stessi, « dove la frontiera tra l’emozione sacrale e il trasporto estetico non è molto netta» (31).  La musica è qui ierofania, è cioè «un’irruzione del sacro che provoca il distacco di un territorio dal cosmo che lo circonda rendendolo qualitativamente diverso» (32) e il musicista un medium tra il cielo e la terra, capace di attirare potenze “soprannaturali” o “sotterranee”, potenze universali, al di sotto o al di sopra dell’auto-coscienza dell’io ordinario. In molti casi, si pensi ai Mevlevi dei sufi, ai raga indiani, ad alcuni gamelan del Bali, ai riti di esorcismo e di adorcismo in Africa, agli inni degli Yazidi o ai canti del peyolt (33), l’esperienza estatica non è affatto quel “totalmente altro” rispetto all’ esperienza estetica e non si identifica tout court con quella religiosa, perché più “segreta”, più “esoterica” e al tempo stesso più “sconfinata”. L’ascolto della musica nelle tradizioni orientali o sciamaniche, è sempre un “richiamo estatico” nella Risonanza del Remoto, che non implica alcun sentimento di afflizione o di rimpianto per un “qualcosa” di oggettivo o per un passato perduto, né un rifiuto pessimistico per il futuro, ma costituisce lo spazio metafisico per la relazione profonda, “verticale” con l’Origine, così prossima e così lontana, perché fuori dal tempo e dallo spazio. Da questo punto di vista, dalla capacità e dal livello di ascolto interiore dei “suoni esoterici”
dipenderà il grado di esperienza estatica, la “fuor-iuscita” e la “ri-uscita”, la “fusione” e la “confusione” (34).  Questo, però, è quanto di più “remoto”, “totalmente altro” rispetto al nostro modo di intendere la musica nell’era del “consumatore ipnotizzato”. Quanto dipende, allora, il significato autentico della musica dalla “capacità di ascolto”, di un individuo o di una collettività, della Risonanza del Remoto, del sacrificio sonoro originario? La nostra vita è sempre più satura di musica, i nostri giorni sono riempiti per lo più da «canzonette orecchiabili e sentimentali», artefatte e standardizzate. Come scriveva Curt Sachs, padre dell’etnomusicologia contemporanea e critico musicale, «gli uomini civilizzati sono divenuti uditori voraci, ma non ascoltano più. Usando il suono articolato, come una specie di droga, abbiamo dimenticato di esigere significato e valore in ciò che ascoltiamo» (35). Adorno, come ben noto, è stato forse il più acuto studioso della popular music, dell’ipnopedia (36) dell’industria culturale, del feticismo delle merci e dei suoi nefasti effetti nella società di massa, intensificando, così, la teoria critica neo-marxista. Il suo punto di vista può essere sintetizzato dalle sue stesse aspre parole nei confronti della “nuova musica” destinata al consumo:

«sembra che sia direttamente complementare all’ammutolirsi dell’uomo, all’estinguersi del linguaggio inteso come espressione, all’incapacità di comunicazione. Essa alberga nelle brecce del silenzio che si aprono tra gli uomini deformati dall’ansia, dalla routine e dalla cieca obbedienza […] Questa musica viene percepita solo come uno sfondo sonoro: se nessuno più è in grado di parlare realmente, nessuno è nemmeno più in grado di ascoltare […] la potenza del banale si è estesa sulla società nel suo insieme» (37)

Non si tratta, in questo articolo, di condannare la commercializzazione delle opere d’arte per fini meramente ideologici, né tantomeno la popular music in quanto tale per dimostrare l’esistenza di una musica “pura”, “seria” o “colta”, ma di favorire l’apertura per un “nuovo ascolto” della Risonanza del Remoto, che non è tanto ciò che è distante nel tempo, ma ciò che è profondamente altro” rispetto al nostro modo di intendere e sentire “qui ed ora”.

 

3. La Risonanza del Remoto nella musica contemporanea: Tradizione, Disgregazione e Rigenerazione.

Attualmente si rilevano atteggiamenti duplici verso la musica da parte dei compositori e dei fruitori: sempre più “edonisti”, “emotivi”, “effimeri” (come nella musica pop ) oppure sempre più astratti e formali, come dimostrato dalle composizioni sempre più cervellotiche, “iper-astratte” e “ipertecnologiche” di certe avanguardie, espressione di un nichilismo “sonoro” e pseudo-rivoluzionario che si conforma di fatto al tecnicismo, generando “nuove accademie”, nuove convenzioni e nuovi prodotti commerciali. «Ora l’uomo costruisce le sue musiche sempre più con il suo piccolo cervello, non le riceve più dall’alto, né dal cielo, né da qualsiasi Deva o deità. Non le riceve e neanche più le chiede», scriveva Giacinto Scelsi, rilevando così in occidente la rottura“sacro-profano”, l’affievolimento di quel dialogo mistico tra il divino e l’umano e della coincidentia oppositorum, che nella musica ha trovato, fin dalle sue origini, lo spazio più immenso. L’ evoluzione, quale movimento creativo di nuove forme “più evolute” non è un semplice movimento lineare in avanti , dove lo stadio successivo sarebbe più vero e più perfetto di uno stadio precedente, più primitivo e grezzo. Questo è un grave pregiudizio della mentalità moderna e positivista che confonde storia ed evoluzione e che si basa su una superstiziosa idea di “progresso” dal basso verso l’alto, reputando il “primitivo” un modo inferiore di vita rispetto al “moderno” e fondando i propri criteri di misura esclusivamente sui livelli tecnici e scientifici di una comunità culturale. Questa mentalità, che ha generato l’uomo moderno “civilizzatore”, trascura ed ignora inevitabilmente tutto ciò che nella vita, nella cultura, nell’arte e nel pensiero non è riducibile ad una successione di sequenze lineari e uniformi. « Ma», come scrive Sachs «c’è un altro uomo che sa e comprende:l’orientale, il primitivo, che a tratti riesce a parlare e a far aprire gli occhi a chi non vuol vedere» (38).  Molti occidentali reputano le composizioni di Mozart o Beethoven “eterne e universali” e hanno fondato su di esse criteri assoluti. Se questo fosse vero, sarebbe vero anche il contrario:«Molte molte note, ma niente buona musica» affermò infatti un musicista eschimese quando ascoltò le registrazioni dei famosi compositori occidentali e “bello, ma troppo semplice!” rispose un eccellente musicista albanese quando ascoltò la Nona di Beethoven! (39). Non si tratta, ovviamente, di misconoscere la bellezza e la profondità delle opere in questione, ma di aprirsi alla risonanza perenne del remoto «per comprendere fino a che punto il nostro guadagno è al tempo stessa una perdita» (40). Da questa prospettiva, ciò che apre nuovi orizzonti alle possibilità creative può essere anche dovuto a un “ritorno” e, in ultima analisi ad una “Tradizione” viva che si rigenera e si innova, in quanto movimento verso l’interno che salva dall’ostentazione e dalle sterili “fantasticherie”. Eppure, la mentalità di molti musicisti accademici e “avanguardisti”, è ed è stata quasi del tutto persuasa dall’ idea di “evoluzione” come di un movimento lineare verso l’esterno, che lascia alle proprie spalle l’inizio e tutto ciò che viene di volta in volta “superato”. Le grandi innovazioni, parafrasano Jankélévitch (41), non derivano dalla ricerca della novità a tutti i costi, anzi la escludono!Chi innova nella musica non ha da essere un inventore. Questa, però, sembra essere diventata la tendenza dominante del “momento”, che si riduce spesso in un mero esercizio stilistico. Le musiche in Occidente più interessanti e influenti del Novecento, sono spesso nate dal “sottosuolo”, tra piccole cerchie di persone e al di fuori dei grandi circuiti mediatici. Molte “innovazioni” , altresì, sono avvenute grazie al “primitivo”, alla “tradizione”: si pensi a «Debussy e Ravel , sopraffatti dalla musica balinese e da altre musiche non occidentali che avevano udito all’Expo di Parigi nel 1889» (42), a Michail Glinka e a Milji Balakirev che avevano «intriso i loro lavori con i modi e gli umori della musica popolare indigena», a Satie e Ives che avevano inserito nelle loro composizioni canzoni popolari e da cabaret, marce e inni. Esse sono state il frutto di un rinnovato contatto con la Tradizione (sia occidentale che extraoccidentale), la quale ha da sempre trasmesso quegli elementi ancestrali e remoti che rendono l’opera musicale non una creazione dell’io e non il mero prodotto di tecniche compositive ,di tecnologie progredite, di moderni formalismi, ma un “richiamo estatico”, al di là del tempo e dello spazio. Allo stesso modo, da Bartok a Debussy, Giacinto Scelsi, La Monte Young, Terry Riley, dai Popol Vuh, Third Ear Band, ai Faust e ai Dead Can Dance, giusto per citarne alcuni, hanno attinto la loro profonda autenticità dalle sorgenti della musica “primordiale” custodita da altre culture del mondo, dalle millenarie melodie e formule sonore indiane, dai repertori popolari trasmessi da generazione in generazione, dall’universo delle potenze inconsce e ancestrali. L’utilizzo del drone (bordone) e della sovrapposizione di frequenze armonicamente correlate (overtones), la prevalenza della modalità sulla tonalità, l’uso del sistema musicale non temperato, la “multiripetizione” sono ben evidenti nel collettivo musicale americano Theatre of Eternal Music (La Monte Young, Marian Zazeela, John Cale e Angus Mclise dei Velvet Underground, Tony Conrad) Il progetto della Dream House, un luogo dove avvenivano performance o esecuzioni lunghe giorni (o anni!), dove si viveva insieme e si creava collettivamente, dove chiunque poteva essere “inondato dall’ascolto”, risentivano degli insegnamenti del misticismo musicale indiano, rafforzato dal maestro pakistano Pandit Prath Nath, che dall’India si trasferì negli U.S.A. negli anni Settanta. Questi musicisti nati in Occidente, hanno ricongiunto radicalmente la propria vita quotidiana a quella artistica, proprio come secondo il concetto di musica nelle comunità “arcaiche”. Angus Mclise, ad esempio, lasciò i Velvet Underground perché rifiutava di suonare dietro “compenso” economico e perché non accettava l’imposizione delle “durate standard” dei concerti. Secondo Young la Dream House, la stanza in cui la musica sorge e si evolve come un organismo vivente con una propria vita,

«libererebbe gli artisti dall’artificiosità del tempo misurato e gli permetterebbe di suonare in tempo reale…che io sappia non ci sono stati studi precedenti sugli effetti a lungo termine sulla gente delle onde sonore composite continue periodiche» (43).

Tutto ciò è stato espressione di una Tradizione remota, sintesi vivente che si differenzia sia dal sincretismo musicale della Word Music, fenomeno mainstream in Europa e negli U.S.A. negli anni 80-90 sia dal “conservatorismo” che non accoglie cambiamenti, che assolutizza il “passato” senza custodire l’infinita potenzialità della “Risonanza del Remoto”, che può manifestarsi in diversi contesti storici e attraverso nuove forme. La “potenza” (dynamis), la Risonanza del Remoto, ha continuato ad agire, ma in modo nascosto, perché i grandi pionieri sono rimasti per lo più sconosciuti al grande pubblico, sopratutto durante la loro attività musicale, e si è manifestata anche nella popular music, certo, in modo più degradato anche se più spettacolare. Il fenomeno del rock degli anni Settanta ha trovato certamente una radice vitale nella tradizione ermetica, misterica e magica. Molti rocker hanno attinto la propria forza persuasiva richiamandosi alle dottrine della “Magia cerimoniale e sessuale” di Aleister Crowley (44) e all’esoterismo orientale (Tantrismo, “Via della mano sinistra”). Questo, se per un verso è il segno di un sotterraneo proseguimento negli insegnamenti della Tradizione Perenne verso l’ “auto-trascendimento ascendente”, per l’altro è molto più spesso il segno di un “auto-trascendimento discendente”, di “una spiritualità alla rovescia”, di uno stato ulteriore di degradazione dall’ irrigidimento del corpo (metafora organica della civiltà materialista) alla disgregazione del cadavere45, dunque la mera controparte di ciò che le numerose sette, “nuove” chiese, movimenti “ribelli” hanno contestato, non l’opposto (46).  Oswald Spengler ha chiamato queste tendenze “seconda religiosità” (47), riferendosi a tutte quelle forme vaghe di misticismo e neo-spiritualismo borghese (48), “sub-intellettuale”, che si traducono in vuoti fenomeni dissolutori, “meccanicistici”, “superstiziosi”. Elemire Zolla non esitò a condannare, in una sua intervista del 1993 al quotidiano «La Nazione» i movimenti del ‘68 come «il complotto più misterioso e satanico della storia»:

«non saprei definire diversamente la girandola di avvenimenti che segnarono la fine Sessantotto: «i sacrifici umani della banda Manson, gli attentati dinamitardi dei Wheathermen, i rapimenti dei Simbionesi, il suicidio collettivo dei fedeli del reverendo James Warren Jones in Guyana» (49).

È, dunque, possibile ritrovare un significato “altro” della Musica, che non sia quello di una subliminale e occulta persuasione o di un sottofondo della “macchinazione” e dell’ingranaggio? Nel tempo della tecnocrazia e della sordità del “consumatore ipnotizzato”, è ancora possibile che la musica sia l’ attimo eterno e spontaneo del “richiamo estatico” e non un rituale coercitivo di dissoluzione del tempo e di affossamento nella frivolezza o nel regressus ad infinitum del subumano? Se il Remoto risuona perennemente, nonostante e in forza della sua “distanza”, allora chi più del musicista ha il compito di aprirsi all’Ascolto del sacrificio sonoro originario e di ampliare la “fenditura” spazio-temporale per la sua Risonanza?

Note:

1 Cfr. SCHNEIDER, M. (2007) Il Significato della Musica, trad. it. di A. Audisio, Milano: Adelphi.
2 Cfr. SCHNEIDER, M. (1992) La Musica Primitiva, trad. it. di S. Tolnay, Milano: Aldephi.
3 SCHNEIDER, M. (2007) cit., p.17.
4 «Potrebbe darsi che i sacrifici materiali fossero agli inizi destinati a dei inferiori, perché il vero cibo dei grandi dei non può essere altro che la musica. In vista di questo nutrimento la Samavidhana Unpanishad attribuisce a ogni dio un suono determinato della scala tonale. Un dio che non riceva canti di lode sparisce, muore d’inazione. Del pari gli uomini hanno bisogno della sostanza sonora che emana degli dei. L’esempio classico è il tuono», Ivi, p. 68.
5 BECKER, J. (2003) Musica e trance, in Enciclopedia della Musica, vol. III – Musica e Religione, a cura di Jean Jacques
Nattiez, Torino: Einaudi, p. 427.
6 SCHNEIDER, M. (1992), cit., p. 67.
7 SACHS, C. (2014) Le Sorgenti della Musica, trad. it. di M. Astrologo, Torino: Bollati Boringhieri, p.28.
8 COOMARASWAMY, A. K. (2011) La Danza di Śiva, trad. it. di G. Marano, Milano: Adelphi, p.83.
9 D’OLIVET, F. (1981) La musica spiegata come scienza e come arte, trad. it. di D. Della Porta, Carmagnola: Edizioni
Arktos, p. 32.
10 Ivi, p. 39.
11 «Il peggio di questo malinteso impiego della matematica-escludendo eventualmente qualche approccio più mediato- è stato quello di presentarsi come un atteggiamento scientifico, che ha finito per pervadere e improntare notevolmente la parte della musica sperimentale dell’ultimo secolo. E anche per svalutare il ruolo autentico della scienza nella musica, che è quello di trovare giustificazioni oggettive al sistema musicale adottato, giustificazioni che per ora le neuroscienze hanno reperito per il solo sistema classico», FROVA, A. (2010) Armonia Celeste e Dodecafonia, Roma: Bur, pp. 88-89. Il libro del fisico Andrea Frova è molto interessante e si presenta come una giustificazione oggettiva, su basi fisiche e neuroscientifiche, del fallimento di molta musica del Novecento (serialismo, musica concreta, musica aleatoria ecc…) da lui definita “adiabatica”(dal greco adiabatos,“senza passaggio”). Mi sembra, però, che l’autore abbia assolutizzato il sistema tonale classico trascurando o sottovalutando, forse non senza pregiudizi estetico-culturali, il sistema modale “non-temperato” e la poliritmia delle musiche tradizionali extraoccidentali e primitive, intrinseche ai rituali estatici e di trance.
12 DURING, J. (2003) «Il Sacro e il Profano: una distinzione legittima?Il Caso delle musiche del Vicino Oriente», in
Enciclopedia della Musica, vol. III – Musica e Culture, a cura di Jean Jacques Nattiez, Torino: Einaudi, p. 293.
13 SCHNEIDER, M. (1992), cit., p. 72.
14 «Accogliamo invece le prospettive che ci sono offerte dal tempo in cui viviamo, e che ben si riassumono nelle
seguenti affermazioni di Boulez: prima, “la musica non può progredire senza la scienza” e, seconda, “la tecnologia non
è l’unica evoluzione possibile per la musica, ma non la si può evitare”», FROVA, A. (2010), cit, p. 89.
15 AAVV. (1997) I Canti degli Sciamani, a cura di F. Paolo Campione, Cornaredo (MI): Red Edizioni.
16 BECKER, J. (2003), cit., p. 411.
17 Cfr. MATURANA-VARELA (2010), L’Albero della Conoscenza, trad. it. di C. Ronchi, Milano: Jaca Book.
18 «Sul piano psicologico, la musica influisce anche sulla percezione, tanto spaziale quanto temporale, che si ha del
proprio essere…Trasformando pertanto in varia maniera il modo di sentire il tempo e lo spazio, la musica modifica il
nostro “essere-nel-mondo”», ROUGET, G. (1980), Musica e Trance, a cura di G. Mongelli, Torino: Einaudi, pp. 167-169.
19 ZOLLA, E. (2009) Gli Arcani del Potere. Elzeviri 1960-2000, a cura di Graziana Marchianò, Milano: Rizzoli, p. 49.
20 Cfr. PACKARD, V. (1971), I Persuasori Occulti, trad. it. di C. Fruttero, Milano: Il Saggiatore.
21 Cfr. LIBET, B. (2007), Mind Time, trad. it. di P. Napolitani, Milano: Raffaello Cortina.
22 ZOLLA, E. (2009) Gli Arcani del Potere. Elzeviri 1960-2000, a cura di G. Marchianò, Milano: Edizioni BUR, p. 51.
23 Ivi, p. 144.
24 Ivi, p. 61.
25 Tra le tante critiche ad una “metafisica della musica”, quella di Jankélévitch (cfr. La Musica e l’ineffabile) sembra la più convincente, rifiutando qualsiasi significato univoco della musica per affermare la sua polisemia. Tuttavia, questa posizione confonde e limita la metafisica, (che si attua pur sempre in un linguaggio simbolico e archetipico dell’Ineffabile), riducendola ad un sapere didascalico, discorsivo e univocizzante che è l’opposto della metafisica autentica, in quanto sapienza “perenne” e “universale”.
26 Cfr. HEIDEGGER, M. Contributi alla Filosofia (2007), trad. it. di F. Volpi, Milano: Adelphi.
27 EVOLA, J. Cavalcare la Tigre (1995), Roma: Edizioni Mediterranee, p. 144.
28 La Brihadaranyaka Upanishad descrive il “dio supremo”, al di là di ogni rappresentazione e personificazione, come un morto cantore che si sacrifica nel canto, uscendo così dal nulla e facendosi vuoto per la risonanza universale. Il creatore stesso non è che un canto dei canti (“gli dei sono canti”), dunque, la prima manifestazione dell’Invisibile puramente eidetica, acustica e luminosa che procede fino alla materializzazione del mondo e degli uomini. Il suono primordiale (il brahman) è il primo sacrificio, inteso come atto creatore e fonte di tutta la realtà materiale, che sorge come da una “pietrificazione” di ritmiche sonore. Nei miti della creazione il suono primordiale udibile, ma invisibile è rappresentato simbolicamente dalle acque nelle tenebre. Cfr. SCHNEIDER, M. Il Significato della Musica (2007), cit., p.
74.
29 «Questo suono emana dal vuoto nel quale si è formato un pensiero il quale fa vibrare il Nulla….il solo vero morto sembra il dio onnipotente, inconcepibile, inavvicinabile, al quale non si tributa di solito alcun culto. La sua realtà è il nulla…La via che un tal dio percorre dal nulla al mondo di maya per creare e tessere il nostro mondo esige un grande sforzo. La filosofia e i riti designano tale sforzo come sfregamento, cammino o sacrificio. Soltanto per mezzo del sacrificio che agli inizi della creazione è riservato esclusivamente agli dei, s’impone più tardi anche negli uomini, e non solo agli uomini del mondo materializzato, ma anche a quelli che in forma di creature sonore precedettero l’umanità. Il sacrificio è il cammino su cui si incontrano gli dei e gli uomini. Cfr SCHNEIDER, M. Il Significato della Musica (2007)
cit, pp. 59-61.
30 Cfr. DURING, J. Musica ed Estasi. L’ascolto mistico nella tradizione sufi (2013), trad. it. di G. De Zorzi, Roma: Squilibri.
31 Cfr. DURING, J. (2003), cit., pp. 296-297.
32 ELIADE, M. Il Sacro e il Profano (1967), trad. it. di F. Fadini, Torino: Bollati Boringhieri, p. 22.
33 DURING, J. (2003), pp. 282-284.
34 Scriveva il sufi Al-Khalabadhi nel X secolo d. C., «L’ascolto è di due tipi. Alcuni ascoltano le parole e ne traggono un ammonimento. Uomini simili ascoltano solamente in maniera discriminatoria e con il cuore presente. Altri, invece, ascoltano le melodie, che sono nutrimento dello spirito: quando lo spirito ottiene il suo nutrimento giunge alla sua stazione spirituale e abbandona il controllo del corpo, ed è allora che negli ascoltatori compaiono la commozione e l’agitazione». Nella tradizione esoterica dell’Islam si giunse, poi, a distinguere tre livelli di ascolto (ascolto comune, ascolto secondo lo stato interiore, ascolto secondo il Vero) in corrispondenza delle tre classiche gerarchie spirituali.
Cfr. DURING, J. Musica ed Estasi, (2013), cit., pp .70-71.
35 SACHS, C. cit., p. 23.
36 Il termine fu coniato da Aldous Huxley nel suo romanzo Il Mondo Nuovo.
37 ADORNO, T.W. Introduzione alla sociologia della musica (2002),trad. it. di Giacomo Manzoni, Torino: Einaudi.
38 SACHS, C. (2014), cit., p. 233.
39 Ivi, p.
40 Ivi, p. 238.
41 Cfr JANKÉLÉVITCH, V. (2001) La Musica e L’Ineffabile, trad. it. di E. Lisciani-Petrini, Milano: Studi Bompiani.
42 NYMAN, M. (2011) La Musica Sperimentale, trad. it. di S. Zonca e G. Carlotti, Milano: Shake Edizioni, p. 56.
43 Ivi, p.169.
44 E’ nota la grande influenza dell’esoterista inglese nel mondo del rock e nella controcultura americana (dai Beatles ai Led Zeppelin, dai Doors ai Black Sabbath, da Brian Jones a Kenneth Anger). Il libro Magick in Theory and Practices attinge dalle dottrine orientali del Tantrismo, dalla Cabala ebraica e dall’ermetismo occidentale e dell’alchimia e contiene il sistema di occultismo pratico che sviluppò personalmente. Certamente Crwoley fu etichettato come un “indemoniato”. Certamente fu iniziato a forme oscure dello Yoga tantrico, ma mi sembra comunque indebito e del tutto fuorviante etichettare il suo sistema dottrinale magico una forma di “satanismo”. Cfr., CROWLEY, A., (1976)
Magick, trad. it. di A. Pollini, Roma: Astrolabio-Ubaldini.
45 «A tal proposito dobbiamo fare la distinzione tra due tendenze che si esprimono mediante termini apparentemente antinomici: da un lato, la tendenza verso quella che abbiamo chiamato la “solidificazione” del mondo, della quale ci siamo finora interessati, dall’altro la tendenza verso la dissoluzione…»,Cfr. GUENON, R. (1982) Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, trad. it. di T. Masera e P. Nutrizio, Milano: Aldephi, p.166.
47 Secondo Oswald Spengler si tratta di un processo di degenerazione delle civiltà dalle forme originarie, dove predominano la qualità, lo spirito, la tradizione vivente, alle forme tarde dove dominano l’intelletto astratto, il pragmatismo, l’economia e la finanza e il mondo delle masse. La “seconda religiosità” , in quanto forma sporadica di spiritualismo e di religione secolarizzata, appiattita, confusa, priva di ogni autentica dimensione superiore, accompagnerebbe le fasi terminali di una civiltà oramai disanimata e “barbaricamente evoluta”, e non sarebbe che una nota a margine del materialismo incallito. Cfr. SPENGLER, O. (1995) Il Tramonto dell’Occidente, Milano: Guanda.
48 «Mentre le antiche scienze sacre erano la prerogativa di una umanità superiore, di caste regali e sacerdotali, oggi come maggioranza sono medium, “maghi” da popolino, pendolisti, spiritisti, antroposofi, astrologhi e veggenti da annunci pubblicitari, teosofisti, “guaritori”, divulgatori di uno yoga americanizzato e così via a bandire il nuovo verbo antimaterialistico, accompagnando visi qualche mistico esaltato e visionario e qualche profeta contemporaneo. La mistificazione e la superstizione si mescolano quasi costantemente, nel neo-spiritualismo…», EVOLA, J. (1995) cit., p. 179.
49 Cfr. ZOLLA, E. (2013), cit., p. 10.

BIBLIOGRAFIA:
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Enrico Falbo,

è nato nel 1981. Laureato in Filosofia Teoretica, Docente e Musicista. Si interessa di Metafisica, nel suo significato originario e autentico di “Sophia Sovrumana”, universale e sovra-razionale, in una prospettiva di superamento del dualismo moderno e contemporaneo “razionalismo-irrazionalismo”, sulla scia della Philosophia Perennis o Sanatana Dharma. Da musicista, dopo alcune esperienze con band alternative-rock, ha intrapreso lo studio della viola e della musica indiana. La sua forma di ricerca è caratterizzata dall’uso di strumenti indiani ad arco (Dilruba, Esraj) miscelati con l’elettronica, effetti e loop. Le sue influenze spaziano dalla drone-music al post-rock, dalla “musica cosmica” alle sonorità dei rituali estatici”.

 

 

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