“Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Questo è l’incipit del Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte di Carlo Marx. Occorre dissentire dal barbuto profeta comunista e stare all’opinione del genio della Fenomenologia dello Spirito. La storia non è mai farsa, purtroppo, è per sua natura tragedia, o almeno dramma, specie in periodi come il presente, in cui tutto si brucia, diviene e si consuma, a partire dalla civiltà in cui siamo nati, che proprio nel primo tratto del Terzo Millennio sta consumando gli ultimi decenni della sua gloriosa, lunghissima vicenda, confermando la verità del principio della fisica aristotelica “motus in fine velocior”.
Spengler e Toynbee avevano visto giusto nella diagnosi sulla natura ciclica delle civiltà, che nascono e si spengono come le vite umane. Il nostro tramonto ci avvicina ormai alla notte dell’Europa. Meno precisa, in termini temporali, è stata la prognosi. Il decorso della malattia europea ed occidentale è diventato infausto nell’ultimo mezzo secolo e la china, irreversibile, si sta trasformando in burrone. Lo aveva teorizzato anche Giambattista Vico nella Scienza Nova, osservando: “L’ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’ accademie”. Il pensiero successivo, che il grande napoletano chiama degnità afferma: “Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze”. Infine esprime una verità di cui siamo più che mai testimoni: la natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta; con l’antecedenti degnità danno una parte de’ princìpi della storia ideale eterna, sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini.”
L’Occidente, terra del tramonto, è al capolinea di un percorso che ha attraversato i millenni; l’Italia, che, attraverso Roma, l’arte e la religione l’ha improntato più di ogni altra nazione, sembra all’avanguardia nel processo di dissoluzione. Il nostro popolo può essere definito in mille modi, ma il più pregnante mi sembra quello di un inglese, Winston Churchill, che ha rappresentato l’ultima colonna della vocazione imperiale britannica: “Gli italiani perdono le partite di calcio come fossero guerre, e le guerre come fossero partite di calcio”. Alcuni giorni fa, con la massima serietà, un brillante laureato in ingegneria mi ha chiesto a che cosa servisse la sovranità. Non l’ho convinto, suppongo. La prima rilevazione dopo il referendum sulla Brexit fa scoprire che la maggioranza europeista tra gli italiani si è ampiamente rafforzata negli ultimi giorni: crediamo a tutte le menzogne diffuse dall’orchestra del potere, e la paura del mare aperto, in cui non ci avventuriamo più ci fa rimanere prigionieri della caverna dalla cui ombra Platone cercava di trar fuori gli uomini.
L’unico momento in cui ci sentiamo italiani sono i campionati europei e mondiali di calcio. Non ci ribelliamo all’invasione africana, salvo lamentarci a mezza bocca dei troppi privilegi accordati agli stranieri; non facciamo figli perché “costa” e comunque non vogliamo responsabilità. L’Italia di oggi ricorda sempre più l’impero romano all’alba del suo terzo secolo, quando i regni successivi di due esponenti della dinastia dei Severi hanno inflitto colpi durissimi a Roma ed alla sua storia gloriosa.
Parliamo di Caracalla e di Eliogabalo, poco più di un decennio di potere in due, ma che effetti sull’impero
Dopo un breve interregno di Macrino, lo scettro toccò al quattordicenne Eliogabalo, un Severo acclamato imperatore dall’esercito di Siria. Siriaco egli stesso di nascita e cultura, ereditò dalla madre il culto orientale: Eliogabalo significa Re della Montagna. Giunto a Roma, vi portò il culto del Dio Sole (Sol Invictus), fu manovrato dalle donne della sua famiglia, siriache anch’esse. Ebbe cinque mogli e… due mariti. Così li chiamava egli stesso, e uno di loro pretese di sposarlo pubblicamente con una imponente cerimonia nella capitale. L’altro si chiamava Zotico e non è il caso di dire di più. Visse nella dissolutezza più sfrenata e nella promiscuità sessuale. Non ancora diciannovenne, fu anch’egli vittima di quello che oggi chiameremmo colpo di stato militare. Se Caracalla è ricordato per le grandiose terme di cui sopravvivono le vestigia, Eliogabalo è rimasto nella storia per il culto del Sole e per essere stato il primo sovrano transgender della storia.
Lo storico greco Dionigi di Alicarnasso, che viveva a Roma, ci spiega che i moltissimi stranieri della capitale erano spesso dediti al furto, alla prostituzione e ad ogni malaffare, e che lo Stato non era affatto tenero con loro. Ai confini imperiali, le legioni respingevano con durezza le infiltrazioni di popolazioni esterne anche in caso di carestie. Perfino i militari di cittadinanza non romana potevano diventare cittadini solo dopo 25 anni di onorato servizio sotto le armi. La stessa parola “extraneus”,straniero, significa va colui che sta fuori delle mura, e che è dunque estraneo alla comunità.
Poi arrivò Caracalla e per motivi di cassa – peraltro irrisolti – Roma divenne un’altra cosa, tanto che, nella lunga agonia dell’impero, un gran numero di profughi Goti chiesero asilo. L’imperatore Valente lo accordò senza pretendere in cambio sottomissione e romanizzazione delle masse straniere, promettendo persino terre da coltivare, probabilmente per paura. L’accoglienza cui ci obbligano in questi anni nacque allora, ma la penuria di viveri e la scarsa disponibilità di terre condusse ad una ribellione, il cui esito fu la disfatta militare romana di Adrianopoli del 378, in cui rimase ucciso lo stesso Valente. I Goti si spinsero poi in Tracia, devastandola come poi l’Illiria (Adriatico Orientale). La pace successiva fu un tragico cedimento di Roma: l’imperatore Teodosio, lo stesso che proclamò il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero, pensò infatti che dovesse essere la Provvidenza a sottomettere il cuore degli uomini, trasformando “ogni ferocia in dolcezza”, come riferisce il filosofo ed alto funzionario dello Stato Temistio.
Un errore tragico dovuto ad un cristianesimo letterale, oggi diremmo fondamentalista, sinistramente vicino alle posizioni odierne dei successori di Pietro. Pochi anni dopo, l’invasione visigota ed il sacco di Roma del 410 ad opera di Alarico confermerà la follia suicida di una civiltà pervenuta alla fase finale spiegata da G.B. Vico. I generali erano stranieri, indifferenti alla ragione di Stato, quella “salus rei publicae suprema lex” che fece grande quella città fondata da Romolo dopo aver tracciato un solco, separando “fuori” e “dentro”, al prezzo della stessa morte del fratello Remo. Uno dei generali si rivoltò contro Roma per fedeltà a Stilicone, capo dell’esercito fatto sopprimere dall’imperatore Onorio, e lasciò campo libero alle orde gote, che, secondo molte testimonianze, entrarono nell’Urbe attraverso la Porta Salaria aperta dalla ricca Proba, che, forse pacifista ante litteram, voleva risparmiare ai concittadini nuovi stenti. Fu invece un terribile crescendo di stupri, uccisioni, violenze, saccheggi, di cui dà testimonianza il massimo filosofo del cristianesimo antico, Agostino di Ippona.
Il resto della storia è un lungo, drammatico, decadere in termini demografici, militari, economici, giuridici sino alla fine ufficiale, con l’erulo Odoacre che depose il povero Romolo Augustolo, imperatore ragazzino, il cui padre Oreste non aveva il denaro per pagare un esercito di ventura. Un senatore vissuto all’epoca del sacco visigoto, Aurelio Vittore fu dette il seguente amaro giudizio: “La crisi di Roma è colpa di quegli imperatori che hanno lasciato entrare chiunque, civilizzati e barbari, consentendo ai barbari di governarci”. Soprattutto Valente e Teodosio, campione di un cristianesimo irenista ed ingenuo che si ripresenta oggi nella chiesa di Bergoglio e dei teologi modernisti, ormai priva di trascendenza e di quella grandiosa intenzione soteriologica che la rese grande in lunghe stagioni passate. Naturalmente, possiamo trattare Aurelio Vittore come un Salvini del passato remoto, o esprimere un giudizio positivo sulla fine della nostra civiltà, ma i fatti, dai quali occorre trarre significazione, secondo il fondatore della scienza politica Machiavelli, sono comunque lì.
La storia non vive di simmetrie né di giustapposizioni. Ciò che è stato, tuttavia, ha tratti così simili alla vicenda presente dell’Europa da lasciare sconvolti. Nel potente prologo del Qoélet, o Ecclesiaste c’è una celebre terzina che recita così: “Quel che è stato sarà/ e quel che è fatto si rifarà/ non c’è niente di nuovo sotto il sole”. E’ un avallo importante per una filosofia della storia non basata sulla linearità, ma su un andamento circolare, o almeno ellittico delle cose umane. Roma antica, che aveva oltre un millennio di storia, crollò per implosione, analoga sorte sta per toccare all’Europa ed alla sua estenuata civiltà, divenuta igienica civilizzazione. Il turbamento riguarda l’indifferenza degli interessati, noi, un po’ per incredulità, molto per ignoranza voluta dalle nuove oligarchie interessate a dominare docili consumatori dotati di semplici conoscenze strumentali (“ciò che serve” nel quotidiano) ed anche perché esiste una forma istintiva di rifiuto nei confronti dei lati più tragici della vita.
Tutte le civiltà grandi e meno grandi, più o meno a lungo presenti sulla scena del mondo, hanno percorso lo stesso itinerario descritto da Vico, e ripreso da Spengler: ci troviamo nella fase terminale, nella quale alla dissolutezza si affianca la crisi demografica, il timore del futuro, il desiderio bruciante di consumare il presente, trasformato in quadro puntinista. Milioni di punti che però, come nell’astrattismo, non rappresentano più nulla, non significano più alcunché.
Proprio la destituzione del senso mi sembra la chiave per comprendere quest’epoca bastarda – è amante infatti dell’ibridazione, della contaminazione, del rimescolamento, e aborre ogni forma di purezza. Non è più neppure dionisiaca: il baccanale, o la notte di Valpurga, è sempre in corso, non rappresenta più lo sfogo delle pulsioni alternato alla razionalità di Apollo. Si dice che Eliogabalo, dimentico dei suoi doveri politici, delegati alle donne siriane del suo seguito, prive di qualsiasi cultura diversa dal culto semi orgiastico del Sol Invictus, stazionasse nudo fuori dalle stanze imperiali, chiamando chiunque, anzi ordinando, la partecipazione ad eccessi sessuali o alimentari di ogni tipo. Non è poi così diverso dal pansessualismo che è una delle malattie postmoderne, con i suoi riti e sacerdoti, pornografia, gay pride, pubblicità corrive che trascinano sempre più in basso il signor “consumatore”, plebe desiderante perennemente con la saliva in bocca come il povero cane di Pavlov.
Caracalla è rimasto nell’immaginario popolare per le grandiose terme, non una infrastruttura volta a migliorare la vita dei sudditi, ma il luogo dove si poteva dare sfogo alle pulsioni e, non di rado, ai vizi. Una frase di Emil Cioran, gran profeta della decadenza e del nichilismo, che non so citare verbatim, diceva a un dipresso che la civiltà occidentale è stata così grande che anche la sua decadenza sarà simile alla sua storia. Credo che sia un pensiero della sua gioventù, probabilmente all’inizio degli anni Cinquanta. Aveva, disgraziatamente, visto giusto, come reazionari cattolici alla Gòmez Dàvila o alla Marcel De Corte, o come tradizionalisti nemici del “regno della quantità” come Guénon o Evola.
Anche l’Apocalisse di Giovanni ci parla di un regno del male, che per i cristiani è l’Anticristo e per altri il Kali Yuga, in cui si spanderà il regno di Gog e Magog, i cui membri saranno numerosi come la sabbia nel mare. Il comando impersonale dei signori del denaro ha già dissolto appartenenze, convinzioni secolari, credenze consolidate, modi di essere di masse umane imponenti.
Nei popoli che chiamiamo occidentali non si vedono reazioni, pure se il fuoco cova sotto la cenere. Tuttavia, lunghi decenni, anzi oltre due secoli di intenso lavoro delle centrali della dissoluzione hanno disseccato molte radici, tra le quali la più drammaticamente assente è quella spirituale. Non c’è da stupirsi, pertanto, se la rivolta che dovrà scoppiare – e scoppierà- verrà guidata da una forma nuova di materialismo comunista, precipitando ulteriormente verso il basso le nostre genti, o quel che ne rimarrà.
Restano due prospettive, per l’uomo differenziato: passare al bosco, come l’anarca di Ernst Junger, realizzando sul piano individuale le prospettive degli antichi stoici (“Vivi nascosto” e “sopporta e astieniti”), oppure lavorare per rendere più veloce la fine di questi tempi ultimi, nella speranza di seminare qualcosa per il dopodomani. Cicerone nel “De officiis” esorta a piantare alberi per la prossima generazione. Il fatto è che la prossima generazione sarà già talmente diversa, in termini etnici, morali, comportamentali e valoriali, e così tesa verso un transumano ancora da scoprire, che i nostri alberi rischieranno di nascere secchi, o sterili.
La pittura dell’Ottocento ci ha dato due quadri bellissimi ed inquietanti, per chi ha un’anima, e sono il Viandante nel mare di nebbia ed il Mare di Ghiaccio di Kaspar David Friedrich. Il Novecento si è aperto con le diverse forme dell’Urlo di Munch.
Adesso, dobbiamo accontentarci, come simboli del presente, delle folle italiote ed europee transumanti come greggi sull’antico tratturo, dopo ore di fila per attraversare il lago d’Iseo a piedi nudi sulla passerella ideata dal bulgaro Christo (ogni epoca ha il Cristo che merita), definita opera d’arte. In alternativa, ci sono i gommoni delle dolenti masse africane che sfidano il mare in quanto pretendono una parte del pericolante benessere nostro, sognato attraverso le immagini della debordiana Società dello Spettacolo.
I furbi, come sempre, non affogano. Forse non ci resta che rifugiarci nell’umana commedia disegnata da Aristofane, il gigante della scena ateniese, conoscitore profondo dell’animo greco ed universale. Nella commedia “Gli Uccelli”, spesso caricata dai critici di significati simbolici, due uomini, Pisétero e Evelpide – di buona speranza…- abbandonano la terra, stanchi degli uomini, e vanno nel mondo degli uccelli. Sono, tuttavia, uomini, e restano mossi dalla volontà di potenza, o meglio dall’ “hybris” ellenica. Si accorgono della posizione privilegiata degli uccelli, a metà tra la Terra degli uomini ed i cieli a abitati dagli Dei, e cominciano a ricattare anche Zeus. Cacciano da Nubicuculìa, il regno degli uccelli, alcuni soggetti pessimi, un ispettore, simbolo del potere, un venditore di leggi e decreti, che assomiglia tanto ai politicastri, un poeta di quart’ordine, che ci ricorda i troppi intellettuali imbroglioni, ed un indovino, che oggi potremmo assimilare ad un economista con il vizio delle statistiche. Alla fine, Pisetero si sostituisce a Zeus sposando Regina, la depositaria dei fulmini degli dei.
L’uomo di Aristofane vuole farsi Dio, ed in questo è assolutamente attuale, ma io colgo un’altra sfumatura. Pisétero è re degli uccelli, non degli uomini. Che ne faranno, gli abitatori alati dei cieli, della sapienza e della civiltà da cui egli è sì sfuggito, ma che si porta dentro l’anima ed è, in fondo, la sua stessa pelle?
Anche gli imperatori antichi, da un certo momento in poi, non sono stati più “romani”. Non è passato troppo tempo e non sono stati più neppure imperatori, travolti da popoli, modi di pensare, credenze nuove, diverse, estranee. Il dissoluto ragazzo Eliogabalo avrà davvero capito che cosa significasse essere imperatore romano, tra riti esoterici, orge, feste “en travesti” e cerimonie nuziali omosex che solo i suoi pronipoti d’Occidente, al termine di un cammino di millenni, apprezzano in nome di una grottesca uguaglianza che egli avrebbe aborrito? Caracalla, suo predecessore, avrà valutato se gli conveniva davvero riscuotere nuove tasse, peraltro esigue, un cinque per cento dei patrimoni…, per pagarsi la fedeltà dei soldati, che non ha avuto, o vittorie militari così effimere da perire in una congiura dopo aver subito la sconfitta nella guerra contro i Parti?. Intanto, “civis romanus sum”, dopo l’editto del 212, poteva essere proclamato in tante lingue diverse, da popoli e genti ignare di Roma, indifferenti alla sua storia, noncuranti di tutto, fuorché del loro interesse immediato a chiamarsi romani per poi vivere a loro modo.
Lascio a chi legge riflettere sull’Italia e l’Europa del 2016, che legalizza ogni capriccio, chiama matrimonio l’unione di due uomini o due donne, si congratula con se stessa di leggi che favoriscono e banalizzano la denatalità, esaltano il consumo, rendono Dio il denaro e Demiurgo il mercato, disprezzano ogni anelito spirituale, o tendenza a guardare in alto da parte di Homunculus, l’”ultimo uomo” un po’ Faust e molto Pecora Dolly.
Poi, arriveranno Alarico ed i Goti, e non ci sarà bisogno di aprire porte, già spalancate perché le libertà liberali prescrivono la fine dei confini ed i superstiti fedeli di quel Cristo ex salvatore, oggi assistente sociale con il patentino dell’Azienda Sanitaria, ci impongono di scioglierci in una brodaglia multicolore. Infine, si stuferanno anche di chiamarsi Italia ed Europa e, come Odoacre, deporranno l’ultimo Re Travicello al servizio del Danaro. Nihil sub sole novi, niente di nuovo sotto il sole, sempre l’Ecclesiaste.
Sorgerà un nuovo sole, perché il mondo non si è fermato mai un momento, come cantava Jimmy Fontana, e nuove idee si imporranno, altri piedi calpesteranno queste terre un giorno nostre e così intensamente amate. Non è detto che sarà un male, ma certo non sarà il nostro mondo, quel sole una volta invictus non verrà più guardato con i nostri occhi.
Ci stupiamo delle balene che si suicidano spiaggiandosi sulle nostre coste, non capiamo il perché di quei gesti così fuori dalla logica e dall’istinto di conservazione. Non ci stupiamo, tuttavia, di noi stessi, della decisione non scritta e non detta in base alla quale i nostri popoli hanno deciso un lento suicidio. Da Caracalla ed Eliogabalo all’Italia multietnica e multiculturale (culturale?) di Madama Boldrini e dell’extracomunitario vaticano Bergoglio, lavandaio di immigrati e di Platinette, deforme maschera transessuale, alla “grande italiana” Emma Bonino con pompa di bicicletta per aborti fai da te al seguito, di politici sguatteri e finanzieri viceré di chi comanda a Matrix, sino ai monsignori pedofili ed al resto di una classe dirigente cialtrona, corrotta ed incolta.
Meglio Aristofane, tutto sommato, ed il regno degli uccelli del buon Pisétero, a metà strada tra cielo e terra.
2 Comments