Anni fa è durato per lungo tempo in voga, quasi a far rinascere teorie precedenti della superiorità della razza europea nordica sulle altre razze nel mondo, il punto di vista che la presenza antica – forse III o II millennio a.C. – nell’Europa intera di tante lingue indoeuropee spiegasse ogni storia regionale come un’eredità locale ricevuta dai discendenti di un orgoglioso popolo – appunto indoeuropeo – immigrato nel continente con tutto il suo corredo di antiche e gloriose Weltanschauungen. Di qui gli sforzi di ricercatori e di viaggiatori-giornalisti di riuscire a individuare e ricostruire la lingua originaria indoeuropea da attribuire a un popolo definito nel tempo e nello spazio. Dopodiché si proclamava, basandosi su un postulato di continuità diacronica, una presunta unità di intenti culturali e politici degli “europei antichi”. Dopodiché a seconda dei casi si riconosceva il meticciato dei conquistatori con gli autoctoni nelle popolazioni esistenti, ma a queste, per il fatto di essere attraverso la lingua-figlia strettamente collegati per parentela con gli invasori antichi, si riconosceva pure la capacità di elaborare progetti di vita tipici, ma migliori in assoluto perché di marchio indoeuropeo.
Si partiva così da come gli Indoeuropei dovessero apparire nell’aspetto fisico di base sfornando pazze equazioni razziali >indoeuropei biondi, occhi azzurri, dolicocefali< o >indoeuropei = difensori e protettori armati< et sim. e ci si appellò come prova di ciò a quanto gli osservatori medievali avevano lasciato scritto incontrandoli qui e lì sotto le spoglie di popolo conquistatore. Non ci si accorse quanto grande fosse l’assurdità di partire da una lingua per creare un popolo, sebbene e purtroppo tale modo di “fare storia” ritorni attuale ancora oggi…
Nei secoli XIX-XX l’Europa (e i suoi ectoplasmi extra-europei) guerrafondaia e colonialista, schiavista e insanguinata da efferatezze perpetrate su popoli di altri continenti era sostenuta da élites al potere reali e imperiali monocratiche i cui sovrani erano gli epigoni dei gloriosi e potentissimi Romani. E, se la lingua di Roma, il latino, apparteneva alla famiglia di lingue indoeuropee o indogermaniche scoperta da F. Bopp (1791-1867), essa non solo affratellava tutte le lingue europee (e quindi i parlanti sudditi) sotto l’egida di Roma, ma preludeva l’esistenza d’un popolo da chiamare in qualche modo indoeuropeo portatore di principi etici universali (o perlomeno da globalizzare, scriveremmo noi oggi) che la ricerca storica (e religiosa!) avrebbe confermato come origine di ogni potere sovrano nel mondo. A questi fini i saggi locali erano sollecitati da quei re e da quegli imperatori a costruire la storia umana più o meno sui fondamenti teleologici dettati dal dio cristiano e passati alla chiesa cattolica nel lontano Medioevo. Ora però con le nuove scienze e coi più moderni strumenti chissà che presto non si scoprisse che il fumoso popolo antenato fosse stato inviato dal dio cristiano stesso a porre le giuste basi politiche alle varie dinastie regnanti… addirittura prima di Cristo! Non solo ogni atto del monarca moderno, ma ogni ideologia da lui propagata e sponsorizzata riceveva così l’etichetta di sperimentata e giusta per tutti gli uomini suoi sudditi. Non era forse per questo che la chiesa consacrava i sovrani come pii e giusti per concessione divina o in latino gratia dei?
Nelle epopee nazionali musicate e cantate come monumenti letterari di altissimo valore pedagogico si riconobbe persino nelle ricerche linguistiche fatte un fondo comune in cui era difficile non ipotizzare che l’epos nazionale non lo avesse vissuto un popolo di conquistatori. Era questa loro “indole militaresca” innata che li spingeva ad avanzare in Europa specialmente, ma pure in Asia: Persia, India fino a Ceylon, e dava loro il diritto di imporre ai non-indoeuropei la loro potestà in lingua e in armi e cioè sia la guerra che la pace.
La prima domanda che ci poniamo è: Se la linguistica moderna ci avverte che la combinazione di una lingua con un popolo fisico e reale non è una costante, quando e in quali termini lingua e gruppo umano parlante restano due realtà distinte o perché soltanto a volte coincidono?
In verità risale alla burocrazia imperiale romana classificare le genti, peraltro dette barbare, in base alla lingua che dichiaravano di parlare e, siccome nel Medioevo ci troviamo nell’ambito di un impero romano cristianizzato fin nel midollo, il riferimento giuridico-storico più sicuro restavano le Sacre Scritture con la loro leggenda della Torre di Babele e quella delle 72 nazioni umane discese dai figli di Noè. Anzi, questi miti sopravvivevano nelle corti europee inglesi, spagnole, austriache, russe etc. fino a qualche decennio fa giacché all’interno del rispettivo territorio nazionale avallavano l’oppressione e la soppressione d’ogni multietnicità con l’auspicio del ritorno all’unità del genere umano come al tempo della creazione nella Genesi.
Sia come sia, una sessantina d’anni fa si consolida e diventa scienza l’archeologia e gli archeologi europei si spargono per il mondo alla ricerca delle origini… dell’Europa!
La teoria evoluzionistica di C. Darwin è stata ormai digerita, almeno nei paesi dove non domina l’ideologia cattolica, e “come mettere insieme la storia nazionale” è ormai chiaro nelle scuole e nelle università delle grandi capitali europee: Ogni nazione ha la sua storia con gente, lingua e territorio ben definiti. In Europa, caso speciale per il fatto di essere dominata dalle lingue che fanno parte di una riconosciuta famiglia indoeuropea, gli idiomi nazionali in concordanza con le idee evoluzionistiche non possono che risalire a una lingua madre e a una gente madre che la parlava e che aveva sognato/pianificato di dominare il mondo.
Alle missioni archeologiche pertanto fu affidato da subito il compito supremo di ritrovare le tracce del cammino che il popolo indoeuropeo originario aveva percorso per “conquistare l’Europa prima e poi Persia India e Oceano Indiano” e perché aveva scelto il nostro continente etc. Non staremo qui a fare la storia delle idee indoeuropeistiche (v. meglio J.-P. Demoule in bibl.) né del nazionalismo europeo a cui già dava fastidio la presenza dell’Impero Ottomano e ci trasferiamo nel dopoguerra, appunto negli anni 50 del XX sec.
In quegli anni l’archeologa lituana emigrata negli USA, Màrija Gimbutas (v. bibl.) indica come possibile e probabile origine e sede del primo popolo indoeuropeo le steppe ucraino-caspiche. Dai reperti essa ammette ormai senza remore che gli antenati eccellevano nelle armi e nell’arte della guerra avendo per primi portato nei territori conquistati la cavalcatura col morso e il carro da guerra. Non solo! Sembra che millenni fa fosse la donna a dominare la scena e che gli antenati ebbero da battersi strenuamente contro la società matriarcale preesistente. L’archeologa svela che alla fine i maschi prevalsero e ridussero purtroppo la femmina a pegno di scambio fra i capi-clan per sancire patti e alleanze di vario genere e riconoscendo la poligamia come istituzione legittima.
Tutti contenti dunque, sebbene sull’orlo del vaso di Pandora indoeuropeo la donna restasse per ancora un bel po’ in attesa di riscatto? Pare di no e neppure le steppe ucraine sono state finora riconosciute come patria indoeuropea tanto sicura. E allora più esattamente dov’era collocata geograficamente la cosiddetta Urheimat degli antenati indoeuropei?
Dalle ricerche di linguistica comparata e con i supposti addentellati archeologici gli antenati appaiono essere stati dei pastori e esser vissuti a una latitudine non troppo fredda. Sapendo che il nomadismo pastorale diventa sistematico non appena si scopre la steppa erbosa con foraggio a disposizione per quasi tutto l’anno, ecco quanto I. Lébédinsky (v. bibl.) scrive sulla questione di agricoltura, pastorizia, nomadismo e indoeuropei delle origini.
«Il nomadismo è un fenomeno che è esistito in diverse epoche della storia dell’umanità. Ma il modo di vita nomadico classico dell’Eurasia … è apparso … in seno di popolazioni in precedenza sedentarie. A lungo si è creduto che i portatori di culture neolitiche e calcolitiche “a kurgany” fossero dei nomadi. In realtà, malgrado la loro mobilità e l’importanza che l’allevamento avesse nella loro economia e persino anche se alcuni di loro abbiano potuto conoscere di fatto delle fasi di nomadismo, essi erano globalmente sedentari, avevano dei villaggi e praticavano l’agricoltura. Ciò vuol dire che il nomadismo come è attestato a partire dal IX sec. a.C. non costituiva nelle steppe una sorta di residuo arcaico [di modo di vivere], ma una specializzazione economica nuova.»
Tutto questo quindi potrebbe spiegare dal punto di vista archeologico e storico le carenze di terminologia tecnica in campo agricolo in un vocabolario della supposta lingua degli antenati, peraltro sinora sconosciuta, senza mettere in forse la loro concretezza storica. E il matriarcato che fine ha fatto fra gli “indoeuropei” primitivi? A quanto pare nella Rus’ di Kiev esso sopravvisse… ma fra i contadini sudditi fuori delle città dove risiedeva il potere! Logicamente ci riferiamo anche alle Amazzoni delle steppe ucraine descritte da Erodoto, ma più specificamente a certi usi e costumi e a certe divinità pagane che ancora oggi sono venerate nella campagna slavo-russa.
Le razze invece sono scomparse dal discorso antropologico ed è subentrato invece un costrutto genetico che si basa su fatti molto più concreti del metodo comparativo dei linguisti e delle misurazione craniologiche. Oggi siamo in grado grazie ai lavori sulla mappatura del genoma umano di Luca Cavalli-Sforza e dei suoi collaboratori di riconoscere dove certe cosiddette derive genetiche di Homo sapiens sapiens si sono generate e si sono concentrate prima di migrare in qualsiasi direzione. Riusciamo spesso tramite la genetica a definire i focolai e come da ciascuno di essi le derive (portate da genti fisiche logicamente) si sono sparse nei nuovi territori occupati dai migranti. Si può vedere a quale distanza di tempo, contata in generazioni, si sono mescolati coi locali e in qual grado ne hanno causato le trasformazioni nell’aspetto fisico esterno (fenotipo), punto incisivo per l’osservatore comune che presume l’abbandono di ogni stereotipo razzista del passato…
Anzi, immettendo un alcunché di misterioso per quanto poi riguarda gli scavi archeologici nelle steppe, ci piace riportare ciò che ne scrive l’archeologa J. Fischer (v. bibl.) sull’elemento femminile.
«Nelle steppe del sud russo sono state trovate tombe di donne che contengono oggetti funerari tipicamente maschili e che provano che il rango delle morte sepolte era superiore a quello degli uomini. Tramite l’analisi del DNA, fatto dall’antropologo di Magonza, J. Burger, si poté trovare che la donna guerriera sepolta [in una delle tombe] era di altissimo rango e di origini asiatiche, rispetto alle altre. Aveva un profilo DNA identico a quello di una ragazza mongola di 9 anni [di oggi] dai capelli biondi. Lì [nelle steppe] le donne vivono ancora insieme con abitudini di vita in comune: vestiti, cappelli, armi come le Amazzoni. Soltanto che le armi sono [oggi] usate per gare sportive e non per le guerre. J. Burger pensa che i nomadi siano gli epigoni delle amazzoni.»
Come si vede, diventa oggi più semplice e più sicuro dire chi c’era prima in Europa e chi è venuto dopo, con chi ci si è mescolati etc. non solo guardando in faccia la gente, ma analizzando il suo DNA. Di lì a spiegare la presenza più antica delle lingue indoeuropee in certe regioni e più recente in certe altre, per il momento tuttavia ce ne corre.
Gli studi in archeolinguistica comunque proseguono e oggi occorre accettare una realtà molto meno chiara e assiomatica com’era anni fa in cui una lingua non è in grado di essere parlata per secoli senza mutare e dopo un certo numero di anni può diventare incomprensibile alle generazioni contemporanee o successive ancora in sede o migrate altrove con le quali magari si mantengono dei contatti! E può la lingua, adesso unico segno distintivo permanente degli attuali parlanti, richiamare una qualche idea di aspetto fisico, di cultura, di usi e di costumi e quant’altro dei rispettivi antenati?
La verità è che nessun individuo parla la lingua comune del gruppo (veicolare) allo stesso modo degli altri compagni e per vari motivi come possono essere certe peculiarità personali di fraseologia o una pronuncia che etichetteremmo oggi in modo spregiativo o adulatorio, a seconda della simpatia verso l’interlocutore. Se poi un individuo lascia il suo gruppo, cambierà d’ambiente e di compagnia e troverà novità da descrivere e da capire (antropomorfizzare) ossia da trasformare in parole agendo e cambiando la lingua originaria propria. Ogni parlante è lui stesso l’elemento scatenante delle mutazioni linguistiche, visto che è allo stesso tempo il creatore di quel che sta dicendo momento per momento e, se le sue parole non sono sufficientemente ridicolizzate o corrette, esse trovano la giusta accoglienza nel vocabolario comune e così ci s’intende. D’altronde a questo serve lo strumento comunicativo che l’uomo ha istituzionalizzato in decine di migliaia di lingue diverse.
Gli esiti di questi processi elaborativi inoltre, lo ripetiamo, diventano dei segni di diversità rispetto al gruppo di partenza che si fanno più marcati o più numerosi col passar del tempo quando si diffondono su ”altre bocche” di pari potenzialità mutazionale. Ed ecco nascere la pianta della nuova futura lingua o, come si dice, si dialettizza il vecchio idioma.
E qui la seconda domanda: Come fa lo storico a ricostruire un passato linguistico dai segni dialettali che ignora persino che esistano allorché la lingua o le lingue anteriori non sono documentate? E in tale situazione come si fa a immaginare che esista una gente reale, fisica precedente che parla una lingua di cui si dubita persino dell’esistenza?
Soltanto con l’invenzione e l’imposizione della scrittura una lingua risulta fissata nel tempo e risulta frenata d’arbitrio nella sua ulteriore dialettizzazione. Normalmente la scrittura, quella che sia, produce finalmente una prova documentale dell’esistenza del mezzo linguistico da studiare e, se possibile concettualmente, si può anche cercare successivamente il gruppo umano che la usa. Attenzione però! Lo stadio scritto può esser raggiunto nel momento in cui diminuisce la frequenza degli spostamenti alla ricerca di cibo e allorché i raccoglitori-cacciatori si trasformano in sedentari. All’interno di questa nuova situazione comunicare col vicino e con tutti gli altri vicini diventa importantissimo e non solo con la parola, ma anche col segno inciso che aiuta a memorizzare o a avvertire ora che ci si è consorziati e si deve decidere un destino comune. Adesso alle discussioni prendono parte tutti e i concetti che si esprimono devono essere capiti da ciascuno in modo perfetto e omogeneo e possibilmente con limitatissimi malintesi. Il parlato è ormai un programma politico e ideologico-religioso capace di creare stati e sostenere élites dominanti e deve essere perciò accurato e preciso. Che accadrebbe, ad esempio in guerra, se un segnale fosse malinteso? Il tracollo…
Malgrado questo inciso, occorre pure rinunciare, quando si parla di genti/etnie/tribù di qualche millennio fa, a pensare a gruppi di migliaia di persone in una sede. I numeri che ci dà l’archeologia sono più esigui, nell’ordine di poche centinaia di individui. La ragione è evidente. Non esistendo una produzione alimentare industriale di massa, la caccia e la raccolta non riuscivano a mantenere in vita molte persone. I gruppi erano costretti a una perenne migrazione alla ricerca di cibo in territori nuovi da sfruttare e la densità demografica pertanto era ridotta.
A questo punto lasciamo entrare in scena gli Slavi.
Quali? Logicamente la “nazione” slava più numerosa degli anni 50 e cioè l’URSS, per giunta vincitrice dell’ultimo conflitto mondiale. Da nazione europea più giovane avrebbe sfruttato la sua eredità indoeuropea per proseguire la conquista del mondo col suo comunismo di stato? Nel 1994 si apre a Mosca una delle tante conferenze delle nazioni slave, ortodosse e (altre) cristiane e si rinfocolano le vecchie liti fra pangermanisti e panslavisti in cui i primi affermano senza tante storie che non esistono gli Slavi come popolo a sé e che le lingue slave sono varianti della lingua germanica dei Vandali orientali. Non solo! La Rus’ di Kiev, per l’appunto uno degli ultimi stati sorti nel Medioevo, per il fatto di trovarsi nelle immediate vicinanze della supposta sede del primo popolo indoeuropeo, non può che esserne il diretto erede. Ma in tal caso ne segue l’inattesa conclusione: La Rus’ di Kiev per lingua era slavo-russa cioè di lingua indoeuropea e gli Slavo-russi sono i fondatori della civiltà europea di oggi e in qualità di epigoni sovietici e ex-sovietici aspirano a dominare il mondo! Chi ha dato loro i natali?
Nei documenti da noi consultati sull’argomento, sebbene non esista una tradizione epica né storica di bibliche migrazioni slave da un punto all’altro del continente, molti di questi concetti tanto chiaramente espressi e esaurientemente provati non ci sono, ma sono ventilati con un certo piacere da qualche linguista e da alcuni storici tedeschi (J. Wittmann, H. Schröcke v. bibl.) facendoci temere il ritorno di idee in ambito Medioevo Russo e Rus’ di Kiev ormai più che sorpassate.
A parte ciò – ne riparliamo più avanti aggiungendo qualche dettaglio – rivolgiamoci alla parola slavo che nell’Europa occidentale nel Medioevo (IX-X secc.) acquisì un significato spregiativo sulle labbra di chi la pronunciava. Lo slavo a causa di tale sua parlata era classificato nella massa di uomini più bassa e più sfortunata di schiavo o non-uomo! L’esempio più sintomatico fra le lingue europee in cui Slavo e Schiavo coincidono etimologicamente (salvo il taglio voluto dalla chiesa cattolica della “c” nel latino Sclavi usato per popolo slavo e per servi), ma divergono nel significato, appare in inglese in cui SLAV è il popolo e SLAVE è il servo non libero ossia lo schiavo… E che ha a che fare ciò con la Rus’ di Kiev? Moltissimo poiché era lo stato europeo che ne mediò la vendita in grandissimo numero fino al 1300.
Chiaramente al tempo della formazione della Rus’ di Kiev tutta la costruzione concettuale fin qui esposta certamente non esisteva in maniera così complessa e non poté avere una grossa risonanza a Kiev. Ciò non esclude che l’élite locale (eterogenea in lingua e etnicamente in verità) industriatasi a mettere insieme il nuovo stato avesse un’altissima concezione di sé e un’idea precisa di come contrapporsi ai sudditi. Malgrado ciò a Kiev gli Slavi non ricevettero le appena dette connotazioni di inferiorità evidentemente, se le élites ne adottarono la lingua slavo-russa.
Le tradizioni etnico-linguistiche presenti fra IX e X sec. d.C., a Kiev in forza maggioritaria erano indoeuropee: Varjaghi, Slavi, Greci, Baltoslavi e furono queste etnie portatrici, una volta trovato il modo di restare strettamente alleate contro le altre non indoeuropee: Turco-bulgari e Ebraico-càzari, a fissare quali indoeuropei fossero i dominanti e quali dovessero essere i dominati fra gli altri indoeuropei e gli alloglotti.
È chiaro che si usarono concetti abbastanza diretti e non troppo complicati dal punto di vista filosofico implementando persino la vecchia idea del popolo vincitore maschio che ha castrato il popolo vinto che ora è femmina e così ribadire la superiorità delle armi maschili usate dal potere divino per portare l’élite alla vittoria e imporre la guerra come attività maschile del futuro stato.
Siccome il genere di miti che nel Medioevo risultavano vincenti nella lotta ideologica per il potere orbitavano proprio intorno a questi aspetti, quel che dobbiamo registrare invece come incompiutezza del discorso fatto fin qui è che non sappiamo quanto consapevolmente tali miti continuassero a conservare il loro palese stampo pagano, sebbene dal XI sec. in poi si proclamasse in tutta l’Europa che la società kievana e la Rus’ di Kiev facessero parte della grande famiglia cristiana assorbite (e asservite) nell’ideologia comune.
Tutto il nostro discorso sulle lingue indoeuropee e sulla lingua che noi per comodità abbiamo chiamato slavo-russa potrebbe sembrare pleonastico, se non tenessimo conto della peculiarità unica della lingua russa, e cioè che è l’unica lingua che in breve abbia abbinato la parola per lingua, russo jazyk, con il paganesimo, russo jazyčestvo.
Che cosa era accaduto nella comunità parlante per causare tale variazione del lessema jazyk?
Fino a quel momento, alla fine del X sec. d.C. quando fu introdotto a Kiev il cristianesimo, jazyk aveva il significato di informatore-spione ossia colui che fa rapporto al capo sul nemico, ma poi la semantica si era probabilmente ristretta e allora si affermò che chiunque non parlasse slavo-russo era pagano e pertanto nemico del sovrano kievano cristiano (Vladimiro il santo a quei tempi) e di conseguenza suddito inferiore di fronte a qualsiasi altro suddito invece battezzato.
© 2017 di Aldo C. Marturano
NdA: Manca la bibliografia che passerò a chi ne fosse interessato su richiesta
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