Dalla critica artistica all’apologia diretta del capitalismo americano
La sinistra è lo spazio politico-culturale per eccellenza in cui si collocano i sostenitori dell’odierna ideologia dominante del liberalismo cosmopolita. Una simile presa di posizione, all’apparenza molto netta, non è frutto di estemporaneità ma trapela persino dalle dichiarazioni più sincere di quegli esponenti politici, anche di vertice, incorporati nel novero delle soggettività politiche interne al liberalismo di sinistra. In un’intervista al quotidiano La Stampa del 7 febbraio 2017 infatti, un esponente di rilievo del Partito Democratico, Michele Emiliano, definì la formazione politica di cui faceva parte: «[…] il partito dei banchieri, dei finanzieri, dell’establishment. Un partito interessato solo ai potenti e non al popolo»[i]. L’esternazione di cui sopra basterebbe per chiudere il discorso relativamente a cosa sia, oggi, la sinistra cosiddetta democratica ma è importante proseguire per approfondire al meglio il tema. La sinistra politico-culturale è, a dispetto del leitmotiv veicolato dai suoi intellettuali di grido in merito al superamento delle ideologie nell’era postmoderna, il campo d’azione prediletto di chi si ispira a una concezione ultraideologica (bensì, rigorosamente, postidentitaria) non solo della “politica politicante” ma, anche e soprattutto, della vita. L’idea, prettamente ottocentesca, di “sinistra” politica e, segnatamente a partire dagli eventi connessi all’affaire Dreyfus, intellettuale, per molti aspetti potrebbe rimandare a una sorta di patologia dello spirito (paragonabile al razzismo biologico) fondata su assiomi quali il settarismo identitario, l’agorafobia culturale e la monomania dell’invidia. Ciò non toglie che, nel corso del XIX e di parte del XX secolo, i movimenti socialisti (comunque non riconducibili ipso facto alla sinistra culturale intesa nella sua accezione più ampia) di rivendicazione dei diritti collettivi di lavoratori e classi subalterne più in generale riuscirono a inserirsi appieno, anche e soprattutto in Europa, nel novero dello Zeitgeist del momento, ponendo in essere una critica radicale nei riguardi della società capitalistica in espansione. I partiti e i movimenti politici e sociali della sinistra ricoprirono anche, nel XX secolo, un ruolo importante (sebbene non esclusivo) nell’ambito dei processi di decolonizzazione e di liberazione nazionale dei Paesi arabi, latinoamericani, africani e del continente asiatico. Tuttavia, il collante politico che legava la sinistra organizzata alle classi popolari cominciò ad affievolirsi nel momento in cui la critica artistica mossa dagli intellettuali progressisti, di estrazione borghese, nei confronti del capitalismo relativo europeo (fordista/keynesiano, dicotomico) fu propriamente integrata, divenendo versante sistemico della fase odierna di
– religione nichilistica del progresso capitalistico della Storia;
– ideologia dominante del Politicamente Corretto.
Le idiosincrasie ideologiche della sinistra progressista furono analizzate, al meglio, dal filosofo torinese Costanzo Preve (1943-2013), il quale spiegò le vere ragioni alla radice del fallimento politico e culturale della sinistra nel momento stesso in cui tale corrente politica, aderendo alla vulgata volta a descrivere il capitalismo come un modello ipso facto di riproduzione economico-sociale di destra, fraintendeva irrimediabilmente l’autentica natura, nichilista e perciò tutt’altro che conservatrice o, men che meno, tradizionale, del capitalismo stesso. Scrive infatti Preve, criticando profondamente ogni manifestazione di sinistrismo politico-culturale:
In breve: la “sinistra” (nulla a che fare con le severe analisi strutturali di Marx) crede che il keynesismo in economia e la liberalizzazione dei costumi nella cultura siano tappe di avvicinamento progressivo (e di fatto “stadiale”) a una società socialista e comunistica (in senso umanistico e antistaliniano), in quanto crede che per sua stessa insuperabile natura il capitalismo si fondi su di un profilo razzista, omofobico, maschilista, sessista, autoritario, eccetera. Di fronte al fatto inatteso, invece, che il capitalismo per la sua stessa natura riproduttiva tende a superare il suo primo momento di instaurazione, effettivamente razzista, maschilista, omofobico, sessista, eccetera, per poter allargare le sue basi di consenso e di gestione attiva, includendovi appunto i neri, le donne, gli omosessuali, eccetera, la sinistra resta priva di qualunque teoria di riferimento, non sapendo neppure più dove porre le sue basi culturali identitarie[iii].
Il macroscopico fraintendimento degli intellettuali di sinistra consistette dunque nel considerare il processo di liberalizzazione dei costumi borghesi quale tappa di avvicinamento a una società socialista e comunistica e non, come invece la storia ha ampiamente dimostrato, alla stregua di una fase di accostamento a una post-società (individualizzata e tribalizzata) improntata al nichilismo e allo sciovinismo di mercato. Le basi culturali identitarie che la sinistra, priva di ogni capacità, possibilità e volontà di elaborazione teorica perlomeno a partire dagli anni Sessanta del XX secolo[iv], non era più in grado di orientare con un briciolo di coerenza in direzione di una critica organica nei confronti del capitalismo di libero mercato e libero desiderio consumistico, vennero reindirizzate nella codificazione dei riti di omologazione e di convinta subalternità dei protestatari sessantottini e delle femministe al Neovangelo del Politicamente Corretto. Il Politicamente Corretto come ideologia unica di integrazione di massa nel novero di una narrativa confacente allo spirito dei tempi fu definito, con magistrale capacità di sintesi, da Costanzo Preve, «un sistema superstizioso di interdizioni e di punizioni di bestemmie sociali laicizzate»[v]. Il Politicamente Corretto è l’ideologia di legittimazione di ogni forma, anche militare, di colonialismo americanocentrico contemporaneo. Il Politicamente Corretto giustifica infatti, e anzi celebra ipso facto, la società nichilistica di mercato odierna e la fine di ogni identità tradizionale e collettiva. In questo senso, il Politicamente Corretto è una forma di sciovinismo assai più deteriore di ogni nazionalismo novecentesco realizzatosi, nel corso del XX secolo, in regime politico autoritario e con pretese paternalistico-corporativiste. Il Politicamente Corretto è infatti lo sciovinismo del mercato e del cosmopolitismo, del mondo unificato all’insegna del liberalismo odierno, cui si ispirano le nuove classi medie affluenti il cui habitat per antonomasia è costituito dai luoghi della crisi globale di ogni riferimento a valori identitari originari e non negoziabili, ossia le megalopoli gentrificate internazionali. Il Politicamente Corretto è infatti l’ideologia che ispira l’agire nel mondo di quelle élite transnazionali e transgender che pretendono di dettare il tono di vita al resto dell’umanità squalificata al rango di massa di trogloditi, disadattati e deplorables da “rieducare”, attraverso il modello performativo costituito dalla propaganda del mainstream media, a quelli che le classi dominanti neoliberali definiscono “valori europei” (ossia, a stili di vita e modi di essere riconducibili all’individualismo e al consumismo più gretti e irresponsabili). È in nome e per conto del Politicamente Corretto che, oggi, termini come antisemitismo, omofobia, razzismo, misoginia, maschilismo e fascismo conoscono una sovraesposizione mediatica senza pari poiché integralmente tesa a suscitare il senso di colpa delle masse teledipendenti nei confronti dei crimini compiuti, nel corso del cosiddetto secolo mostruoso dei “totalitarismi gemelli” novecenteschi, dai regimi di Hitler e Stalin. Insomma, demonizzando sistematicamente il secolo in cui la politica riuscì a imporre il proprio primato nei confronti dell’economia, le élite politico-culturali gauchistes contemporanee ponevano in essere, scientemente, l’apologia indiretta del regime liberal-capitalista fondato sulla prevalenza delle cosiddette “regole del mercato globale” nei confronti della volontà popolare intesa nel senso più compiuto del termine. Il filosofo Costanzo Preve elencò, con le parole che seguono, i cinque elementi fondamentali del Politicamente Corretto in Italia:
1) Americanismo come presupposto di una collocazione interna a un mondo esterno dato per preliminare e scontato. 2) Religione olocaustica e sacralizzata del sacerdozio sionista come nuovo rito religioso europeo in epoca di crisi dei vecchi monoteismi prescrittivi e invasivi della totale liberalizzazione dei corpi e della manipolazione degli spiriti. 3) Diritti umani delle etnie e delle minoranze sessuali come nuova legittimazione del diritto all’intervento militare unilaterale al di fuori di qualunque legalità internazionale. 4) Mantenimento illimitato dell’antifascismo in assenza completa di fascismo. 5) Dicotomia bipolare Destra/Sinistra come manipolazione dello spazio politico e come mascheramento del partito unico della riproduzione capitalistica[vi].
Di questi cinque elementi fondamentali del Politicamente Corretto, l’americanismo e la retorica antifascista in assenza di fascismo appaiono, nella fase attuale, i principali strumenti di controllo sociale esercitati dal clero politico-giornalistico e accademico nei confronti del resto del “volgo”. L’americanismo è, infatti, non tanto un fattore di servilismo nei confronti di tutto ciò che gli Stati Uniti rappresentano bensì il peana, acritico, dei politici, degli intellettuali, degli accademici e degli startupper di nuovo conio nei confronti del liberalismo culturale e dell’ideologia dei diritti cosmetici. Non a caso, i liberali detestano l’America di Trump, considerano il motto America First veicolato, in campagna elettorale, dal tycoon repubblicano, una sorta di riproposizione del fascismo storico novecentesco e definiscono «miserabili», «frustrati» e «ignoranti» i sostenitori, americani ed europei, del modello di sviluppo fondato sulla tutela delle identità e dei confini nazionali e morali consolidati e preesistenti all’affermazione della società liberale tecno-mercantile postmoderna. L’autentico americanista infatti è il tipo antropologico cosmopolita, il fautore della sottocultura della mobilità planetaria, il contestatore animante le “marce delle donne” anti-Trump e colui il quale, sulla scorta dei ceti politici e mediatici liberali e socialdemocratici pro-Ue, domanda, insistentemente, «più libero mercato» e «più diritti di libertà individuali» nel mondo. Lo stereotipo dell’apologista dell’Impero del Male fondato sull’ideologia del liberalismo assoluto e avente come propria base di sostegno la upper class edonista e narcisista delle megacities globali (New York, Londra, San Francisco, Parigi, ecc.) fu tratteggiato, con le parole che seguono, da Costanzo Preve:
Il vero americanismo […] consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, e in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo Paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici e assiologici diversi, il codice del crimine e il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine! Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milošević, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini. Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica a Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori[vii].
Non solo l’americanismo inteso come adesione ai canoni astratti del liberalismo politico-culturale ma anche la retorica antifascista in assenza di fascismo può e deve essere considerata alla stregua di un dispositivo di controllo sociale utilizzato dalle sedicenti élite della globalizzazione al fine di tacitare, attraverso il sistematico impedimento della valutazione dei fatti contingenti, chiunque osi porre in essere ipotesi di fuoriuscita dagli equilibri di sistema consolidati e fondati sull’egemonia delle idee dominanti delle classi dominanti. L’antifascismo in assenza di fascismo fu infatti il cavallo di battaglia privilegiato del circo politico-mediatico liberale di sinistra intento a delegittimare il successo elettorale di Donald Trump negli Usa, le dinamiche di riorganizzazione sociale, in chiave patriottica, attuate (in nome del concetto di “democrazia sovrana”) da Vladimir Putin in Russia e la possibile affermazione di Marine Le Pen alle elezioni presidenziali francesi della primavera 2017. Costanzo Preve effettuò, da par suo, una encomiabile decostruzione analitica della categoria, strumentale e antistorica, concernente l’antifascismo in assenza di fascismo, che ci appare utile riportare:
L’antifascismo in assenza completa di fascismo è in realtà un meccanismo ideologico pestifero per impedire la valutazione dei fatti attuali […]. E tuttavia anche la follia ha una spiegazione razionale. L’antifascismo in assenza completa di fascismo è stato dopo il 1956 la nuova trincea di legittimazione del mastodonte PCI dopo la delegittimazione kruscioviana di Stalin. Inoltre, l’antifascismo in assenza completa di fascismo permette il “gioco dei faccioni”, per cui nella casella vuota chiamata “fascismo” è sempre possibile mettere figurine di fascisti sempre nuovi (Almirante, De Gasperi, Scelba, Fanfani, Craxi, le Brigate Rosse, Berlusconi, eccetera). Con l’arrivo dell’americanismo (gli USA, la potenza antifascista che ci ha liberati), della religione olocaustica (il fascismo antisemita e sterminista delle leggi razziali), e infine della teologia dei diritti umani (e cioè Ahmadinejad fascista, Mugabe fascista, Milošević fascista, eccetera) la continuazione dell’antifascismo in assenza completa di fascismo è destinata a fiorire gloriosamente[viii].
Nella casella vuota denominata “fascismo” furono inseriti, nel 2017, i nomi dei sostenitori del principio sovranista di opposizione globale all’ideologia totalitaria, ossia come fatto sociale onnicomprensivo, del liberalismo contemporaneo. A essere definiti “fascisti” erano tutti coloro i quali osavano mettere il discussione l’ideologia unica del Politicamente Corretto. Questo perché, come scrive Preve, il Politicamente Corretto «si manifesta oggi come sovrastruttura ideologica ideale (nel senso darwiniano di fittest, e cioè più adatta) del capitalismo globalizzato»[ix]. Aderendo incondizionatamente all’ideologia del Politicamente Corretto, la sinistra dissipò se stessa, divenendo merce politica esposta nella «galleria di caratteri e di profili teatrali»[x] approntata ad hoc dai media globalisti allo scopo di confondere, disorientare e manipolare l’opinione pubblica e al fine di perpetuare l’ormai obsoleta antitesi dicotomica conservatori/progressisti. Questa antitesi, tenuta in vita artificialmente al solo scopo di fornire un poco d’ossigeno al pericolante regime della globalizzazione liberale, era stata ormai ampiamente soppiantata dalla contrapposizione dialettica globalisti/sovranisti. La dicotomia sinistra/destra infatti, come giustamente ricorda il filosofo francese Jean-Claude Michéa, «esiste solo nelle classi medie urbane, relativamente protette dalla globalizzazione»[xi] ma è del tutto indifferente ai ceti popolari. Questi ultimi in effetti, sostiene Michéa, «non credono più alla dicotomia tra destra e sinistra […] gettandosi nell’astensionismo, nel voto bianco o nel cosiddetto voto “anti-sistema”»[xii]. Gli assunti teorici fortemente gauchistes (e strutturati attorno all’idea concernente l’istituzione di un’antisocietà del caos generalizzato, anche morale, e della stravaganza permanente) e, al contempo, totalitari, del capitalismo contemporaneo furono ravvisati e sottoposti a fattiva analisi sociologica dal citato Jean-Claude Michéa, che in merito scrisse:
Il capitalismo non è solamente un “modo di produzione” fondato sull’accumulazione continua del capitale, sulla “proletarizzazione” degli individui e sul primato del valore di scambio sul valore d’uso. Nella misura in cui quest’accumulazione non può conoscere, per definizione, “nessun limite morale né naturale” (Marx), essa include necessariamente un complemento giuridico e culturale – l’ideologia dei “diritti dell’uomo” e la “cultura consumistica” – fondato sull’appello a trasgredire perennemente tutte le norme morali stabilite […]. È precisamente in questo senso che il capitalismo può essere definito […] come un “fatto sociale totale”[xiii].
In questo contesto, afferma Michéa, la sinistra tornò a ricoprire il ruolo, già incarnato perfettamente nel XIX secolo, ovvero ai tempi dell’affaire Dreyfus, di «semplice partito della “modernizzazione” continua dell’economia e dei costumi (dunque sempre più difficile da distinguere dalla destra liberale moderna), sostenuto alle urne dalle nuove classi medie urbane (gli “agenti dominati della dominazione capitalistica”, scriveva André Gorz)»[xiv]. La sinistra contemporanea è infatti il partito radicale di massa, il partito dell’apologia della società radicale dei consumi e dei desideri uniformati al dettato dei media globalisti, ai meccanismi ideologici e agli automatismi psicologici indotti dal regime pubblicitario generalizzato. Il liberalismo progressista è, in effetti, l’ideologia di riferimento dei teorici del “caos costruttivo” in ambito geopolitico, politico, economico e morale poiché, secondo quanto scrive il filosofo francese Charles Robin, esso «appare, in questo senso, come la prima coerente filosofia politica che non intende prescrivere niente agli uomini in materia di “valori” o di “norme di condotta”, ma che delega interamente ai meccanismi anonimi e impersonali del diritto e del Mercato la preoccupazione di regolare il libero scatenarsi delle passioni umane»[xv]. L’esemplificazione più recente del liberalismo come fatto sociale totale che non intende sottoporre ai consociati alcunché in tema di valori o norme di condotta si poteva ravvisare nella figura politica di Emmanuel Macron, candidato, uscito alla fine vincitore, del blocco globalista e “obamiano” alle elezioni presidenziali francesi del 2017. Macron fondò il suo programma elettorale su codesta locuzione, da lui pronunciata sin dal 2014: «Abbiamo bisogno di giovani che abbiano voglia di divenire miliardari […]. Alcuni falliranno, altri riusciranno, ma nel frattempo il Paese avanzerà»[xvi]. Macron invitò pertanto, apertamente e senza infingimenti, i giovani francesi a votarsi all’ideologia del denaro. Macron era, a livello politico-culturale, il rappresentante per antonomasia di una sinistra che si faceva beffe dei “valori” poiché celebrava il mero interesse speculativo individuale. Proprio in virtù dell’orientamento ideologico del candidato espressione del globalismo e del “riformismo” liberale[xvii], il circo politico-giornalistico pseudo-progressista dei Paesi della Ue prese immediatamente a sostenere, all’unisono, Emmanuel Macron, con parole di esplicito elogio come quelle che seguono:
Emmanuel Macron […] ha 39 anni, è pupillo di Hollande che se l’era portato all’Eliseo come vicesegretario, poi nominato viceministro dell’Economia […]. È giovane, brillante, europeista, socialdemocratico ma anche liberale, mondialista […]. È esattamente in quella posizione di mezzo che nella Francia bipolare non ha mai avuto successo […]. Piace molto ai media […]. È stato banchiere d’affari in Rothschild e per la sinistra la sua «freschezza» sa molto di vecchio […][xviii].
I media globalisti auspicavano pertanto che, in occasione di un eventuale ballottaggio presidenziale, gli elettori di sinistra, in nome del retaggio «tutti insieme contro il pericolo fascista»[xix], potessero convincersi a votare per un ex banchiere d’affari dei Rothschild, iperliberale e fautore dello smantellamento di ciò che, in Francia, rimaneva dello Stato sociale, piuttosto che per Marine Le Pen, leader del Front National (immancabilmente definita esponente di «estrema destra»[xx] dal mainstream pro-Ue) e promotrice di un programma economico vantaggioso per i ceti popolari e autoctoni. Marine Le Pen si presentò infatti, in campagna elettorale, con una proposta programmatica che avrebbe dovuto rappresentare il cavallo di battaglia della sinistra, ossia fondata sui seguenti presupposti: fuori dall’Ue, fuori dall’euro e, soprattutto, fuori dalla Nato. Agli elettori francesi di sinistra si chiedeva dunque, facendo leva sul ricorso alla retorica antifascista in palese assenza di fascismo, di votare, al secondo turno delle elezioni presidenziali 2017, per un candidato il cui programma arrideva alle fasce sociali appagate dalla globalizzazione, quel ceto medio affluente e cool, devoto alla sottocultura della mobilità e che aveva elevato il Politicamente Corretto a «suo nuovo profilo filosofico identitario di appartenenza»[xxi]. Il Politicamente Corretto, vettore di riproduzione capitalistica nella cultura, era l’ideologia del tabù conformistico avente come suo dogma identitario la proibizione assoluta del dialogo politico tra sinistra antiglobalista e destra antiglobalista. I maîtres à panser del Politicamente Corretto si vantavano di aver concettualizzato un complesso di riferimenti identitari (in realtà, postidentitari) volto a “liberare” i ceti borghesi dai precedenti condizionamenti politici e psicologici di cui, soprattutto in materia sessuale, sarebbero stati “vittime”. Il questo senso, il Politicamente Corretto ha costituito la protesi ideologica di legittimazione dello scioglimento del vecchio ceto borghese tradizionale nel nuovo, indistinto, magma moltitudinario postborghese costituito da individui upper class, aspiranti celebrities del nuovo ordine mondiale liberale, privi di coscienza infelice. Il consolidamento dei rapporti di forza stabiliti dall’egemonia culturale del Politicamente Corretto avrebbe dovuto, sulla scorta dei presupposti libertari di cui sopra, estendere all’intera società l’accesso a quei diritti cosmetici dapprima appannaggio esclusivamente delle classi agiate. In altri termini: invece di attaccare frontalmente l’edonismo e il borghesismo delle classi medie e proprietarie, gli intellettuali di sinistra si fecero interpreti dell’opzione politica concernente l’estensione generalizzata dei modi di essere e degli stili di vita e di consumo à la page caratteristici dei ceti abbienti sopraccitati. La sinistra è infatti, oggi, il partito dei fautori del self-service generalizzato dei “diritti” e delle “opportunità” individuali. Gli intellettuali di sinistra, in questo senso, si fecero portatori, segnatamente dal Sessantotto in avanti, di processi, incalzanti e sostanzialmente privi di contraddittorio alcuno, di flessibilizzazione sociale integrale. Per giungere all’obiettivo prefissatosi, codesti intellettuali dovettero instaurare un nuovo tabù a garanzia della perpetuazione, incontrastata, dei rapporti di forza stabiliti dalla postmodernità, ovvero il divieto assoluto del dialogo tra la sinistra antiglobalista e la destra antiglobalista. Il 1999, con l’aggressione Nato nei confronti della Jugoslavia, una guerra venduta, da parte del ceto politico-intellettuale progressista di Usa e Ue, all’opinione pubblica occidentale come “umanitaria” e “antifascista”, fu, come ricorda Preve, l’«anno chiave» che ufficializzò il passaggio, strutturale ed entusiastico, della sinistra ex comunista tra le fila dei sostenitori della postmodernità e della filosofia della fine capitalistica della Storia. Nel 1999 la sinistra politico-intellettuale rivelò se stessa quale sponda politica affidabile per la gestione, in nome e per conto delle nuove classi speculative e multimilionarie globali, dei processi di transizione a una fase del capitalismo integralmente votata a una dimensione di sciovinismo della merce creativa, del denaro e dell’esistenza commerciale degli individui. L’istituzione, da parte della polizia (politico-giornalistica e accademica) del pensiero unico antifascista in assenza di fascismo, del tabù conformistico concernente il dogma, falso e opportunistico, dell’incomunicabilità tra sinistra antiglobalista e destra antiglobalista, facilitò ulteriormente l’approdo della sinistra politico-culturale ai lidi della terra incognita del settarismo. Particolare merito, in questo senso, va ascritto a quegli intellettuali che, sull’esempio di Costanzo Preve, nel 1999 ebbero il coraggio di infrangere il tabù di cui sopra, fuoriuscendo definitivamente dalla gabbia di acciaio costituita dal sinistrismo e dalle sue propaggini di legittimazione politica e accademica mainstream. Il citato filosofo Costanzo Preve, e riportiamo questa sua riflessione a guisa di chiusura del presente saggio, sintetizzò (con magistrale capacità di analisi) il nesso filosofico concernente il dispiegarsi, travolgente, della filosofia del progresso capitalistico della Storia proprio in virtù degli effetti psico-politici prodotti dall’istituzione del tabù conformista di cui sopra, scrivendo in proposito:
Intorno ai primi anni Novanta (crollo dell’URSS, permanenza del comunismo italiano sotto la tenda a ossigeno fra urli plebei di nicchia identitaria di appartenenza, colpo di stato giudiziario extraparlamentare di giudici ed ex PCI, eccetera) ho iniziato a staccarmi dalla sinistra, che fino ad allora avevo identificato con l’ala più coerente e colta della società. Ho rotto l’alleanza intima con questa gente nel 1999, quando la sinistra, per farsi riconoscere dall’imperatore USA, ha fatto la guerra alla Jugoslavia sulla base di sporchissime menzogne. Il 1999 è stato un anno-chiave. Ho rotto il tabù identitario dell’impossibilità di dialogare con la destra, e ne sono stato ricompensato con il gossip telematico di “fascismo”. Ho atteso invano la difesa da parte di chi avrebbe dovuto conoscermi benissimo, e il loro rumoroso silenzio è stato alla fine catartico e benefico, perché ha interrotto i miei ultimi legami “sentimentali” con questa feccia antropologica e umana. Sono molto più comunista che in gioventù, ma questo non interessa la feccia cui ho fatto riferimento[xxii].
Note:
[i] A. La Mattina, Emiliano: “Con banche e finanza ci siamo dimenticati di chi è rimasto escluso”. Il governatore della Puglia: l’Europa non è la causa di tutti i mali, intervista a Michele Emiliano, in «La Stampa», 7 febbraio 2017.
[ii] Cfr. D. Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, saggio introduttivo di Andrea Tagliapietra, Bompiani, Milano, 2012.
[iii] C. Preve, Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante, Petite Plaisance, Pistoia, 2010, p. 6.
[iv] Gli anni Sessanta-Settanta del XX secolo furono, per antonomasia, il periodo storico di americanizzazione della sinistra, in cui le forme anticonformiste di contestazione radical-progressista vennero incanalate nella pseudo-cultura beat e nel confusionario movimento hippy.
[v] Ivi, p. 8.
[vi] Ivi, p. 8-9.
[vii] Ivi, p. 9.
[viii] Ivi, p. 12.
[ix] Ivi, p. 15.
[x] Ivi, p. 14.
[xi] S. Caputo, La Francia anticapitalista e popolare di Michéa, intervista a Jean-Claude Michéa, in «La Verità», 7 febbraio 2017.
[xii] Ivi.
[xiii] S. Caputo, Sul tradimento della sinistra francese. Dialogo con Jean-Claude Michéa, in S. Caputo, a cura di, Franciavanguardia. Cronaca di una rivoluzione culturale, con un commento di Pietrangelo Buttafuoco, Circolo Proudhon, Roma, 2014, p. 80.
[xiv] Ivi, p. 84.
[xv] C. Robin, La sinistra del capitale e dell’alta finanza. Liberalismo culturale, mercato globalizzato, società liquida, Controcorrente, Napoli, 2015, p. 36.
[xvi] Cit. in B. Scotti, Chi è Emmanuel Macron? Il Renzi di Francia, il rottamatore d’Oltralpe, ragazzo di Amiens che sedusse la sua professoressa e che ora intende sedurre la Francia, in «L’Intellettuale Dissidente», 1 febbraio 2017.
[xvii] Il termine “riformismo” era l’espressione cui il mainstream media faceva abitualmente ricorso per intossicare l’opinione pubblica occidentale al fine di veicolare il messaggio secondo cui il liberismo economico era ipso facto positivo in quanto fautore dell’innesco di processi, in verità astratti e funzionali alla promozione degli interessi dei ceti maggiormente abbienti e proprietari, di “cambiamento” dell’ordine precedentemente stabilito.
[xviii] C. Martinetti, La carica degli anti-sistema. Le Pen guida la ribellione. Le primarie dei partiti hanno bocciato i candidati favoriti. Spuntano nuove idee ma anche la vecchia ostilità alla Ue, in «La Stampa», 11 febbraio 2017.
[xix] Cit. in Ivi.
[xx] Cfr. C. Ockrent, Le due Le Pen incarnano l’ascesa dell’estrema destra, in «L’Espresso», 4 dicembre 2015; G. Riva, In Europa la sinistra è sparita: ormai è destra contro estrema destra. Nel 2017 si vota in Germania e in Francia dove ad essere favorite sono le formazioni della destra tradizionale. Che devono difendersi solo dai partiti anti-sistema. Mentre i movimenti progressisti sono ridotti a terza forza, in «L’Espresso», 14 dicembre 2016.
[xxi] C. Preve, Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante, cit., p. 8.
[xxii] Ivi, p. 13.
Paolo Borgognone
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