PREMESSA: durante il Regime fiorì un’abbondante memorialistica squadrista, sia pure via via edulcorata col progredire della “normalizzazione”. Di essa non è rimasta traccia (se non in qualche rara ristampa di coraggiosi Editori). Eppure sarebbe utile per capire veramente cosa si proponevano i giovanotti in camicia nera tra il 1919 e il 1922, e come “si pensavano”.
Da tale considerazione nasce il progetto di una “Antologia squadrista”, della quale anticipo qui due brani, facendoli precedere da due righi di presentazione. Questo è il secondo e ultimo (per ora)
“LA SITUAZIONE ERA GRAVE, SI CHIEDEVANO RINFORZI” (Sannicandro Garganico, primavera 1921, spedizione in paese)
Se a Bari il primo fascismo si identifica con la figura di Araldo di Crollalanza, nel Nord della regione è Giuseppe Caradonna, avvocato e reduce pluridecorato, a mettersi in luce, soprattutto per la prontezza e capacità con le quali dimostra di saper contrastare la fino allora impunita violenza sovversiva.
Né fa ombra alla sua azione la presenza in zona, nella sua stessa Cerignola, di un Capo dei sovversivi come Giuseppe di Vittorio, destinato ad assumere rilievo nazionale. La lotta è dura fin dall’inizio. Incendi di masserie e violenze private ad opera dei “rossi” sono all’ordine del giorno, e il limitato numero di coloro che sono disposti a contrastare questo “sistema” non sembra essere un ostacolo insormontabile.
La soluzione farà perno su due pilastri: l’uso del cavallo per gli spostamenti veloci, laddove non c’è una rete viaria o ferroviaria degna di questo nome, e l’armamento tale da sopperire all’inferiorità numerica.
La sintesi di un biografo dell’avvocato di Cerignola lo spiega perfettamente:
Il cavallo rappresentava ancora l’unico mezzo veloce di spostamento nelle campagne. La cavalleria (fascista ndr) disponeva di un’arma che per gli italiani di quel tempo era inconsueta: la carabina Winchester.
Il possesso di quest’arma fu reso possibile grazie alla missione di una delegazione di Arditi che si recarono negli Stati Uniti. Lo scopo della missione era quello di riuscire a raccogliere fondi tra gli emigrati italiani e gli ex combattenti della guerra 1915-18. Tra i sostenitori dell’iniziativa vi era anche un emigrato di Cerignola: il padre di Fiorello la Guardia, futuro Sindaco di New York, che divenne personale amico di Caradonna….
L’American Legion ebbe un ruolo importante in America per la propaganda anticomunista e la repressione squadrista dei moti sovversivi comunisti scoppiati anche negli USA. Nacque nel 1919. Il suo Comandante nazionale, Alvin Owsley, dichiarò che: ”I fascisti sono per l’Italia ciò che l’American Legion è per gli Stati Uniti”. Mussolini ne divenne membro onorario.
Lo stesso Caradonna era molto noto negli ambienti americani della Legione, tanto che il Governo gli donò una medaglia ricordo.
La missione degli Arditi italiani in America ebbe grande accoglienza e rese possibile la dotazione delle carabine Winchester e delle pistole Browning per la cavalleria di Caradonna, armi modernissime in Italia per quei tempi, e particolarmente adatte per la cavalleria” (Pierfranco Bruni, “Giuseppe Caradonna e la Destra Nazionale”, Roma 1996, pag. 44).
Gli effetti dell’azione di Caradonna e dei suoi squadristi hanno del miracoloso, o, più probabilmente, dimostrano come unicamente lo stato di costrizione fosse alla base del successo della precedente predicazione social-comunista. Singoli e Leghe al completo passano nel campo fascista, Amministrazioni socialiste ritenute invincibili si sciolgono come neve al sole, il “biennio rosso”, che qui è stato particolarmente aggressivo, diventa un ricordo di tempi che sembrano lontani.
A non voler ammettere questa realtà, per trincerarsi dietro l’alibi dello “squadrismo agrario erede del mazzierismo” sono quelli che la situazione locale non conoscono, bravi solo a teorizzare a tavolino (Gramsci compreso). Chi, invece, tra i contadini vive, e sa della loro dura fatica e delle loro – in realtà modeste – speranze, la vede diversamente. Come Argentina Altobelli, autorevole Segretaria della potente Federazione dei Lavoratori della Terra, che, con una vera “lettera aperta”, pubblicata su La Terra, organo del suo Sindacato, del 1° maggio del ’22, si rivolgerà ai “rurali” fascisti (“Io ti conosco, fascista dal berretto nero e con l’insegna della morte, che terrorizzi i poveri contadini lavoratori. Sei noto nell’ampia palude del Ferrarese che confina con il Polesine, ove crescono i canneti e vivono le rane. Sei figlio dei lavoratori della terra anche tu…”).
Meno politico, ma più affettuoso il ricordo del solito Gravelli:
Rievochiamoli, questi fascisti di campagna, solidi, membruti e tarchiati, bronzei in faccia ed adusti, dai pugni bitorzoluti e callosi, in cima a certe braccia nerborute come mazze d’arme! rievochiamoli, nelle loro camicie nere di cotonina grezza e rozza, con certe morti secche da mettere davvero paura. Certi teschi oblunghi e sbilenchi, digrignanti come in un ghigno, segnati da una traccia di filo bianco grosso, con certi stinchi incrociati, duri e diritti, da parere grissini, e certi pugnali tra i denti, che mani inesperte o… trepidanti di donne o di figlie avevano segnato serpeggianti come kriss malesi.
Rievochiamoli, con i loro rami di faggio o di ginepro duro e nocchieruto, ostentati con l’indifferenza di chi va a spasso con la giacchetta alla moda, colle loro doppiette, coi loro fucilacci a stoppa, con certe pistole che spesso appartennero a chi sa chi, e che, forse, sparavano indietro invece che avanti.
Ma non c’è da ridere di tutto questo, anzi, “quando passa il gagliardetto”, il loro gagliardetto nero o cremisi o tricolore che sia, “levatevi il cappello”, o borghesi panciuti e metodici, o snobs dai calzoni alla charleston e dai baffini alla Douglas, incerettati ed impomatati. Essi, questi contadini infagottati in cappottacci sdruciti, sbrendolati, rattoppati, con le fasce pillaccherose e non troppo attillate e quei loro fez messi in pimpinnacolo, in cima al capo, con le nappe che dicono di no continuamente in qua e là, essi sono l’avanguardia, quadrata e meravigliosa, di tutti i rurali d’italia, quelli che compresero la parola di riscossa e di fede gettata dal duce, e la raccolsero, e si fecero campioni in una jacquerie sublime, e furono tori scagliati contro lo sfarfallio scarlatto che riddava per le campagna abbandonate, e dettero le forze vive al fascismo, come le dettero alla guerra…
Rievochiamo, con commozione ed orgoglio, questa Santa Canaglia o cittadina o rurale, ma sempre magnificamente squadrista, temerariamente pronta a buttarsi allo sbaraglio, ridendo o cantando. (Asvero Gravelli, I canti della rivoluzione, Roma 1926, pag. 209)
Nel concreto, sarà l’organizzatore sindacale fascista Luigi Granata, inviato in ispezione in Puglia, a fare il punto di situazione, con una lettera diretta a Starace, Vice Segretario del Partito, nell’agosto del 1922:
“I peggiori nemici di Andria sono appunto i signori cosiddetti dell’ordine. Essi ostacolano veramente il fiorire delle nostre organizzazioni; essi minano il Fascio, pretendono veramente di portare l’operaio alla schiavitù. Oggi, nelle giornate di agosto, minacciano, anzi insistono, col voler pagare l’operaio con lire 4,25 al giorno. L’operaio cosa può pensare?… L’operaio, fatto maestro da un’esperienza di un non lontano passato, teme dai proprietari un ritorno all’antico, ed ha perfettamente ragione”. (Simona Colarizi, “Dopoguerra e fascismo in Puglia”, Bari 1971, pag 288)
Nella risposta Starace si dirà perfettamente d’accordo, perché: “i profittatori devono essere in modo assoluto eliminati”. Ed è ciò che fanno, da subito, anche gli squadristi pugliesi, compresi quelli di Sannicandro Garganico.
All’inizio, come nell’episodio che segue, chiederanno aiuto ai camerati del Capoluogo, ma dopo, anche per essi, la marcia sarà inarrestabile. “Rurali” di Puglia, come gli uomini di Balbo e Arpinati al Nord, si muoveranno nel segno di un comune anelito di giustizia e miglioramento sociale.
***
La prima presa di contatto tra il fascismo e Sannicandro Garganico avvenne nella primavera del 1921, in periodo elettorale.
Sannicandro è un grosso centro del Gargano nord. In quei tempi era la roccaforte del comunismo: un paese, cioè fuorilegge, un piccolo soviet, in cui tutto era possibile e le autorità dello Stato si facevano bellamente ignorare. Delle secolari questioni di terreni demaniali e di usi civici, mettevano il grosso della popolazione contro i grandi proprietari del luogo, indicati, a torto o a ragione, come usurpatori di beni e diritti appartenenti alla comunità.
Buon terreno, dunque, per gli agitatori estremisti. Bisogna aggiungere che Sannicandro aveva dato i natali all’avv Domenico Fioritto, segretario generale del partito Socialista italiano, e pertanto c’era anche una ragione di sentimentalismo campanilistico che spingeva i buoni sannicandresi verso quella fede politica, che trovava la sua sintesi e la sua espressione in una bandiera rossa che a me personalmente non riuscì a dare mai altra impressione che quella di trovarmi di fronte ad un segnale di arresto ferroviario.
Il giovane fascismo della Capitanata – sorto per l’esempio e l’incitamento di Giuseppe Caradonna, e di cui avevo assunto la carica di Segretario Federale – si batteva nel ’21 per la lista nazionale, capeggiata da Salandra, ed in cui figurava il nome dello stesso Caradonna. Quando accennai al Comitato Elettorale la mia intenzione di tenere un comizio a Sannicandro, mi sentii dare del pazzo. Sannicandro era stato radiato dal numero dei paesi dove poteva svolgersi la propaganda elettorale. Ma Sannicandro tentava il nostro ardore. Mi consigliai con il camerata d’Alfonso, un eroico Bersagliere decorato e mutilato, comandante delle squadre d’azione del mio paese natio, San Severo. Trovammo che a Sannicandro bisognava andarci, a qualunque costo. Qualche giorno dopo, infatti, caricati su di un camion una ventina fra i nostri migliori squadristi, partimmo.
A Sannicandro eravamo attesi, segno evidente che il servizio informazioni bolscevico funzionava benissimo. Un folto gruppo di comunisti stava sulle porte del paese. Larghi cappelli, cravatte nere svolazzanti, barbe incolte, nodosi randelli: i rivoluzionari della serena montagna del Gargano avevano uno sconsolante aspetto brigantesco…
Ci dissero subito, senza giri di parole, e con una schiettezza tutta montanara,che, se non tornavamo indietro, ci avrebbero rotto le costole. Noi scendemmo dal camion come chi arriva al termine di una gita di piacere. Un omone nero e brutto – un capo, evidentemente – ci domandò urlando se per caso non avessimo capito. Il gruppo dei suoi seguaci si strinse minaccioso.
“Capito benissimo – risposi – ma noi siamo venuti proprio per farci rompere le costole. Parola! Tu non hai fatto la guerra?”
“No, ho disertato” mi rispose fieramente l’omone nero.
“Bravo. Noi invece abbiamo fatto la guerra. Ed in guerra si acquistano delle brutte abitudini. La prima è quella di non tornare mai indietro quando si è deciso di andare avanti. La seconda è quella di prendere gusto anche alla rottura delle ossa. La terza è di inviare, prima di andare all’altro mondo, qualcuno ad annunciare al Padre Eterno il nostro prossimo arrivo. Regolati”
L’omone nero si infuriò. La discussione divenne viva e serrata: sentivo che da un momento all’atro sarebbe avvenuto l’urto. Il gruppo degli avversari ingrossava. Meglio. In tute le azioni squadriste, ho sempre preferito avere dinnanzi a me una folla. Se date il tempo ad una folla di attaccarvi, vi travolge; se l’attaccate decisamente, scappano tutti! Noi eravamo pronti per attaccare.
Ma ecco arrivare alcuni notabili del paese. Dei combattenti, qualche fascista: degli amici, insomma. Questi amici parlamentarono con i loro concittadini rivoluzionari. Ci venne concesso di entrare nel paese e tenere un comizio sulla piazza principale. Non dovevamo, però, arrecare offesa alle persone ed alle cose degli avversari. Assicurammo che non c’era nessuna intenzione di offendere da parte nostra, ma solo quella di difenderci, eventualmente.
Tenni il comizio in piazza deserta. Nelle vie adiacenti, numerosi paesani, tenuti fermi agli sbocchi della piazza dai caporioni, fischiavano e mi indirizzavano le più grosse insolenze. Più alzavo il tono della mia voce, per far giungere le mie parole, più saliva il coro dei fischi e delle insolenze. Divenni rauco. I miei squadristi avevano una voglia matta di menare le mani, e anch’io. Ma avevamo promesso. Mangiammo e ripartimmo.
Un fatto mi aveva colpito: salvo i gruppi di comunisti, che circolavano come tante pattuglie di sicurezza, il paese era deserto. Tutto chiuso, tutto silenzioso, una specie di città morta, abbandonata. Ne seppi alcuni giorni dopo la ragione.
I comunisti avevano sparso la voce che i fascisti assalivano le case, violavano le donne, uccidevano i bambini… All’annuncio del nostro arrivo, la popolazione si era barricata nelle case, o si era addirittura rifugiata nella campagna. …Bene! Alla prima occasione i rivoluzionari di Sannicandro ce l’avrebbero pagata.
Tempo dopo, il Cap. Tozzi mi faceva giungere la notizia che, alla fine di un comizio tenuto alla Casa del Popolo, era stato tentato l’assalto alla sede degli ex combattenti e del Fascio, che era sorto un conflitto fra i dimostranti e i Carabinieri, e questi ultimi – pochi, tre o quattro – stretti dalla folla minacciosa, feriti da colpi di arma da fuoco e sassate, avevano dovuto far uso delle armi: c’erano un morto e dei feriti.
La situazione era grave, si chiedevano rinforzi.
Partii immediatamente, con tutti gli squadristi potuti riunire in fretta. Giungemmo a Sannicandro inattesi. La nostra entrata improvvisa nel paese determinò uno sbandamento ed una fuga generale. Le donne – ahimè le donne! – urlavano, piangevano, si precipitavano alla ricerca dei figlioli, chiamandoli con grida acute, si chiudevano a precipizio e con fracasso nelle case; gli uomini scappavano in tutte le direzioni. Delle bestie abbandonate nelle vie si davano alla pazza gioia, aumentando la confusione e il disordine. Era evidente che la ferocia attribuitaci dai comunisti ci poneva, agli occhi della popolazione, in un fosco alone di terrore, che l’annientava nella paura. Tanto meglio per noi: la vittoria sarebbe stata facile e sicura.
Alla sede del Fascio venimmo accolti con entusiasmo dagli ex combattenti e dai fascisti. Erano pochi, ma buoni. Mentre il Capitano Tozzi mi informava della situazione, e si discuteva sull’azione da svolgere, ecco una notizia triste. Riavutisi dalla sorpresa, i comunisti tentavano di concentrarsi alla Casa del Popolo, per poi assalirci. Un fascista, incontrato nella via, era stato da essi ferito in malo modo, con un terribile colpo di ascia. Accorremmo. Dinanzi ad una farmacia, dove era stato portato per il pronto soccorso, giaceva, in una pozza di sangue, un uomo che aveva un orribile squarcio tra il collo ed le spalle. Un moribondo. Non c’era più tempo da perdere. Ordini rapidi, secchi, precisi. Dividersi per squadre, battere di corsa il paese, per disperdere i comunisti che tentavano di concentrarsi alla Casa del Popolo e alla Casa Comunale. In dieci minuti il paese fu spazzato. Ci impossessammo dopo della Casa del Popolo ed occupammo la sede comunale, su cui venne subito alzata, dopo tanti anni, la bandiera d’Italia.
Non vi furono morti, ma vi deve essere stato, quel giorno, un discreto numero di teste rotte ed ammaccate. Ai miei squadristi avevo sempre raccomandato di non usare le armi che in caso disperato. Lavorare, invece, di manganello. Ed il manganello, quel giorno, scrisse una buona pagina. L’arma assai spesso uccide, e la morte è sempre una triste cosa.
Per noi, che la violenza era una necessità, impostaci dalle vicende, ed un mezzo, mai un fine, il manganello rappresentava l’ideale.
Certo è che le manganellate distribuite quel giorno a Sannicandro furono veramente educative. Ne vedemmo subito gli effetti. Passato il primo momento di sbigottimento e di paura, la popolazione cominciò a mettere il naso fuori di casa. I diavoli neri cantavano giocondamente, salutando la bandiera alta sulla torre comunale. E gli assalti alle case, e gli incendi, le stragi, e gli stupri?
Nulla, nella serenità della dolce ora del tramonto montano, salivano i canti della Patria, i canti dell’amore, le gioie semplici di soldati che sanno di aver combattuto e vinto una buona battaglia.
E donne, e uomini, e fanciulli, ecco che cominciano a farsi attorno ai fascisti: vogliono vederli da vicino, guardarli bene, toccarli. Ne avevano un concetto così strano, e così pauroso! Sono uomini, invece. Portano tutti sulla camicia nera i segni della guerra combattuta. Sono soldati: “Ma non volete farci del male?”
“Non facciamo del male che a chi non lo fa!”.
E domande e risposte si incrociano nel fresco e sonoro dialetto pugliese. Ogni squadrista, in un crocchio di uomini e di donne diventa propagandista per suo conto, e spiega, chiarisce, trasfonde negli ascoltatori un pò della sua fede e del suo ardore.
E’ il primo seme, gettato in buona terra, della idea del domani.
(Attilio De Cicco, Il tempo del manganello, in “Panorami di realizzazione del fascismo, vol. VI, il movimento delle squadre nell’Italia meridionale e insulare, Roma 1942)
FOTO 1: il libro dal quale è tratto il testo
FOTO 2: Caradonna a capo delle squadre a cavallo