L’individualismo radical libertario, di cui si possono individuare i frutti velenosi anche in manifestazioni e fenomeni apparentemente distanti e privi di relazione, si avvale di un totalitarismo culturale che giustifica le devianze e censura chiunque ponga un argine tra desideri e diritti.
Chi potrebbe trovare un nesso tra le cronache delinquenziali delle baby gang e le rivendicazioni degli omosessuali con gli sbarchi sempre più frequenti di immigrati clandestini, se non si avvalesse del “filo di Arianna” del clima culturale che tenta di imporre per legge qualsiasi preferenza soggettiva?
Non c’è gruppo di attivisti che non reclami il riconoscimento per legge dei propri desideri, elevati a diritti e guai a contestare queste pretese, magari nel nome di valori che guardano appena un po’ più in là dei gusti personali, perché scatta immediatamente il politicamente corretto, che censura chiunque osi porre un argine tra desiderio e diritto.
Tutto questo accade sotto i nostri occhi continuamente.
Vale per le baby gang come per gli immigrati o i LGBT, perché l’individualismo libertario tende a far credere che le voglie degli individui abbiano lo stesso rilievo dei loro diritti: se mi piace quel telefonino di ultima generazione me ne approprio, se voglio gli agi dell’Occidente pretendo d’essere accolto, se preferisco diventare donna e generare un figlio devo poterlo fare e poco importa se, di contro, c’è un ragazzino picchiato al quale è sottratto il suo cellulare, se c’è una Nazione che viene invasa oppure se il diritto del nascituro viene calpestato.
In sostanza, si vuole imporre l’idea che il diritto consista nel riconoscimento di un bene (o presunto tale) che spetta al singolo solo per il fatto che egli lo percepisca appunto come buono e desiderabile. Assistiamo così alla progressiva “personalizzazione” dei diritti, per cui si afferma la pretesa che siano soddisfatti “i miei diritti”, anche se questi sconfinino nel campo del voluttuario, dell’accessorio, del semplice desiderato.
Il piccolo delinquente non usa violenza e non ruba per procurarsi un bene essenziale, necessario alla sopravvivenza, ma piuttosto per avere le sneakers alla moda o un capo firmato; il clandestino non fugge da guerre o repressioni, ma aspira solo ai beni, alle assistenze e alle comodità occidentali; l’omosessuale ritiene di poter operare le sue scelte a prescindere da ogni limite sociale e naturale, solo perché è quello che vuole. La logica di quanti pretendono che ogni loro desiderio si trasformi in diritto, riduce l’individuo a centro e fine di tutto, al punto che pensiero, azione e relazioni sono vissute solo come momenti autoreferenziali di gratificazione individuale. Inoltre, se ogni desiderio è ritenuto degno di essere soddisfatto, ne consegue la pretesa che le istituzioni ne garantiscano la realizzazione o che perlomeno dalle istituzioni tale realizzazione non sia impedita.
Questa mentalità rivendica così la possibilità che ognuno sia libero di esercitare i propri pretesi diritti individuali: eutanasia, aborto, utero in affitto, fecondazione eterologa, matrimonio omosessuale, adozioni da parte di coppie omosessuali, sono infatti reclamati come diritti dell’individuo; i clandestini, prima col ricatto del soccorso marittimo e poi imponendo la loro permanenza in ragione del diritto umanitario, pretendono d’essere accolti e ammessi a usufruire dei beni e del welfare dei cittadini; le seconde generazioni di immigrati, che delinquono in baby gang organizzate, rivendicano con arroganza le loro violenze come una forma di riscatto sociale ed etnico e come un risarcimento di diritti conculcati. Tutto questo senza che sia riconosciuta la facoltà per altri di dissentire, senza il rischio di essere immediatamente considerati omofobi, razzisti e repressivi.
Questa narrazione è giustificata sostenendo che i pretesi diritti individuali non impongono qualcosa ad altri né danneggiano alcuno, ma solo permettono all’individuo ciò che prima, in un contesto culturale giudicato troppo rigido, era proibito: si allargherebbe così la sfera della libertà personale. Una furbizia ideologica e propagandistica che relega lo Stato in un ruolo subalterno, privandolo di ogni potere di indirizzo, di ogni responsabilità verso le future generazioni e di ogni potestà nel mantenimento del bene comune, della coesione sociale e della identità della Nazione.
Si assiste così al prevalere di una concezione di autonomia assoluta dell’individuo, alla visione narcisistica dell’uomo, liberista e globalizzato, che si identifica con le pretese che è in grado di soddisfare, che valuta la realizzazione di sé con i beni che riesce ad acquisire, senza considerare né relazioni né principi che esulino dalla mercificazione che egli fa di ogni valore materiale e immateriale. Questa visione individualistica dell’uomo si traduce nel rifiuto e nel disconoscimento di ogni limite naturale e, per questo, anche le conquiste scientifiche e i progressi tecnologici vengono addotti a dimostrazione di come sia possibile, quindi comunque lecita, la realizzazione di ogni capriccio.
Ciò che le scienze possono oggi avverare comporta infatti il pericolo che gli strumenti tecnologici di autorealizzazione finiscano per mercificare l’altro, ponendolo a servizio della attuazione di ogni propria aspirazione: si pensi a esempio alla pretesa di un figlio a ogni costo, anche ricorrendo all’utero in affitto, senza tenere conto dei bisogni relazionali del nascituro e della madre ridotta a mera “incubatrice” e senza contare che, comunque, il figlio non è mai un oggetto, un qualcosa che si possa scegliere e comprare.
L’attuale esasperazione dei diritti appare, quindi, la manifestazione di una società malata, profondamente egoista e relativista, per la quale il diritto non è più l’esercizio di un potere giudicato lecito e utile, a favore del bene comune e con la conseguente assunzione di una responsabilità solidale, ma semplicemente l’affermazione di un proprio desiderio, spesso incostante, compulsivo e prepotente. Negli anni ’60 del secolo scorso il medico e psicanalista tedesco Alexander Mitscherlich definiva questa cultura contemporanea come espressione di una “società senza padre”. Il padre, infatti, a livello simbolico (familiare e sociale) incarna quell’istanza valoriale ed etica, indispensabile per la crescita e la maturità del figlio. Perdendo di vista il padre l’uomo perde sé stesso e la propria maturità, la capacità di sopportare le frustrazioni, di educare i propri desideri e di pensare alla realizzazione di sé come a un evoliano dominio dell’Io, anziché come a una pura pretesa di autoaffermazione edonistica.
E’ proprio questa visione che l’Occidente d’oggi ha perduto e perciò nella società decadente, che rinnega il padre e ogni principio virile a esso connesso, di fronte alle sfide della cultura radical individualista, siamo chiamati a ferme e irriducibili contrapposizioni, lontane da ogni passiva accettazione o, peggio, da qualsiasi rinnegamento. Al ritiro spirituale organizzato nei giorni scorsi a Roma per i partecipanti ai lavori sinodali, un domenicano, padre Timothy Radcliffe, si è lasciato andare ad alcune farneticazioni all’insegna del cosiddetto pensiero woke, cioè la massima espressione dell’ideologia individualista e intollerante, radicale e decostruttiva: “Sono profondamente consapevole dei miei limiti personali. Sono anziano – bianco – occidentale – e uomo! Non so che cosa sia peggio! Tutti questi aspetti della mia identità limitano la mia comprensione. Vi chiedo quindi perdono per l’inadeguatezza delle mie parole”. Parole talmente surreali e indecenti che attestano come la penetrazione cancerogena di certo radicalismo, ormai infiltrato anche in istituzioni millenarie, punti a inculcare un senso di inferiorità nell’uomo bianco (ed eterosessuale) occidentale rispetto alla morale progressista, che ha trasformato quei connotati in una sorta di marchio d’infamia per contrapporvi l’abomino della “cancel culture”, il pietismo del “black lives matter”, l’ipocrisia del “politically correct”, la devianza del “no borders”, i fallimenti del “melting pot” e lo sdoganamento di ogni pulsione viscerale elevata a pretesa di diritto individuale.
A questa oscena deriva, opponiamo una visione verticale con la riscoperta e la imposizione dei limiti naturali e sociali, della responsabilità personale e di principi non negoziabili, del consenso e dello spirito, della identità e delle tradizioni del popolo e dell’autorità dello Stato.
Enrico Marino
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