Loredana mi conferma come Modena meriti essere visitata. Dopo Parma, forse, è la più bella città dell’Emilia, aggiunge. Con la torre della Ghirlandina, che svetta ardita – i suoi ottantasei metri le consentono di essere ammirata ovunque si provenga – e, al contempo, con un non so che di civettuolo. Ci vollero dei secoli per arrivare al suo risultato compiuto, tra l’XI secolo e il 1588, ma ne valeva la pena. Mi riprometto di visitarla, in altra occasione, oggi no. Nella piazza sottostante, là dove dei pannelli in pietra riportano i volti di uomini e donne – sono decine – di partigiani o presunti tali, caduti durante la guerra civile ad opera di tedeschi e ‘repubblichini’, sostano labari e bandiere dell’ANPI e un folto (?) numero di partecipanti alla manifestazione. Motivo: l’inaugurazione del circolo La Terra dei Padri, circolo con dichiarate vocazioni di fare cultura, ma – va da sè – che trattasi solo di ‘una pagliacciata fascista mascherata da cultura’ (leggo dai titoli della Gazzetta di Modena, domenica 15 gennaio, mentre alla stazione di Bologna attendo il treno per Roma).
Del resto nessuno intende ricordare i caduti della ‘parte sbagliata’ – e furono anche loro decine e decine di uomini e donne in camicia nera – e tutti coloro che furono le vittime del regolamento dei conti, a guerra finita, dietro motivi politici (eliminare i rappresentanti della borghesia e i loro sodali, prossimo l’avvento del comunismo) e rancori personali o semplicemente per spirito di rapina e sopraffazione. All’interno di quell’area geografica che venne definita tristemente come Il triangolo della morte – e titolo del documentato libro dei fratelli Giorgio e Paolo Pisano, edito da Mursia inizio anni Novanta. Ne ho copia a casa. A Modena e provincia è dedicata la seconda parte, oltre cento cinquanta pagine fitte di episodi nomi sequenze d’orrori. Nessuna contrapposizione (quella c’è ed è la scelta ideale che ci riserviamo di difendere fedeli e ostinati), solo il constatare come rimanga difficile, se non impossibile, fare i conti con la storia nel ‘nostro’ Paese.
No, decisamente questo sabato non s’adatta a visitare l’interno della Ghirlandina, la copia della Secchia Rapita, trofeo strappato ai bolognesi nella battaglia di Zappolino del 1325, e titolo del poema tragicomico di Alessandro Tassoni (1621) – proemio del campanilismo con le sue rivalità lotte fazioni prima da contado ed oggi da stadio… E, appunto, mentre altre Nazioni possono vantare poemi eroici, gesta di dei di cavalieri di sfide di lame al sole e di cavalli al galoppo – si pensi a El Cid per gli spagnoli –, noi dobbiamo esaltare il colpo alla schiena, l’agguato proditorio, di notte, la bomba che semina morte indiscriminata, tutto facile, tra la folla anonime mani assassine, poi il linciaggio lo stupro il massacro di indifesi di inermi di ingenui. E gli eredi, simili nella viltà e nell’odio (per poi piagnucolare e pentirsi al primo schiaffo), in dieci e in cento sputacchiare strattonare prendere a botte a calci il ragazzino che ha disegnato la croce celtica sullo zainetto. E peggio: il rogo di Primavalle, il sangue di Franco e di Francesco e di Stefano ad Acca Larenzia. Abbiamo rifiutato – e per decenni – la definizione di ‘guerra civile’, 1943-’45, continuando a smerciare la favola di una lotta di liberazione di ‘un popolo alla macchia’ ed altre menzogne a legittimare una nuova classe politica, cialtroni al servizio degli alleati o di Stalin, di fatto il nostro essere diventati proconsolato USA…
I duecento ragazzotti del centri sociali sfilano per un percorso, periferico deserto già definito dalla questura – in fondo sono i figli un po’ scapestrati dell’oggi – con pugni chiusi bandiere rosse striscione in testa ripetendo vecchie ingiurie minacce reiterate, patetico armamentario degli anni ’70, mentre la Storia li ha depositati, senza cura e rispetto, nei cassonetti dell’immondizia ideologica. Non lo sanno. Come rifletteva lo scrittore francese Drieu la Rochelle, fra le due guerre mondiali, il mondo è pieno di falliti da far tenerezza. Facce truci e beceri nel verso, per l’occasione. Si sono dovuti accontentare, però, di rompere il vetro e lo specchietto di una macchina; tentare di aggredire la figlia del presidente del circolo. Poca cosa rispetto ai bastoni le barricate all’inizio e, poi, le molotov e la chiave inglese (con cui sfondarono il cranio a Sergio Ramelli, lassù, a Milano) e la P38. Cresceranno?
Con la macchina seguo un percorso alternativo, che ci hanno consigliato; già il sole declina e presto si farà buio; non è difficile trovare il luogo, la polizia elmetti e scudi con blindati a fare da sbarramento. Entro. Il salone spazioso, le pareti imbiancate di fresco, il telo plasticato con un richiamo medievale e la scritta robusta ‘La Terra dei Padri dietro il tavolo degli oratori, i microfoni e gli strumenti musicali (suoneranno, dopo la presentazione, I Topi neri). Saluto alcuni dei presenti, qualcuno mi saluta, i capelli lunghi e bianchi non passano inosservati… Al banco, un’acqua minerale; due chiacchiere con Luciano – vecchio militante (più giovane di me, però) dell’attivismo romano e trasferitosi per lavoro a Modena da anni –; mi siedo lungo la parete, in attesa che arrivi Maurizio, invitato a tenere una sorta di prolusione. Intanto il salone si va riempiendo, cento/centocinquanta persone. Non è poco. La cappa mefitica di un antifascismo dogmatico e onnivoro non invita a esporsi. Troppi lutti, lontani e recenti, epurazioni preclusioni emarginazione un silenzio assordante.
Cultura e territorio. L’ho scritto sovente. Inaspettato mi arriva l’invito a prendere posto dietro il tavolo degli oratori, portare un mio contributo. Non era nelle mie intenzioni – ne sono lusingato (aristocratica virtù della vanità!), lo confesso, anche se mi sento lo scolaretto preso in fallo durante le interrogazioni. La sfida, mi viene da pensare. Nietzsche – anche questo lo ripeto sovente – affermava come ‘l’oggi appartiene alla plebe’ (il senso, non la citazione, sarà l’inizio). In questa città dove ci si ostina a celebrare – e ad imporre – i ludi dell’antifascismo. La ‘vecchia signora’ di cui parla Pirandello, priva però dell’ironia. Essere qui, di sabato pomeriggio, richiede coraggio e gusto appunto della sfida. (Davanti alla tastiera, in queste prime ore del giorno, ho l’immagine di mio padre che, tenendomi sulle ginocchia in poltrona, legge Sangue romagnolo – anche se siamo in Emilia –, tratto dal libro Cuore). Essere sfida al presente rimanda a quella bellezza, che salva essa sola ognuno di noi. Davanti allo specchio, sì, al rientro a casa, chi siede qui avrà diritto di contemplarsi e ritrovarsi e identificarsi quale espressione dell’ideale aristocratico greco, di cui ci rendeva noti Adriano Romualdi, della kalòskaiàgathia – essere belli nelle armonie del corpo ed essere buoni nelle armonie dell’animo.
‘Chi trama nell’ombra sapremo stanar…’. Il grido del padre ferito ci giunge repentino e improvviso. Approfittando del buio hanno tentato di aggredire la figlia di Fabio. Mi ritrovo per strada contro la notte vile contro l’anagrafe contro il nulla. D’istinto. E’ la storia, forse non alta certo altra, di oltre cinquant’anni di militanza… Forse ridicolo e forse patetico, ma io. Rientro nel salone. Poco dopo lascio Modena; non La Terra dei Padri.
Cultura e territorio. Una comunità intende radicarsi crescere germinare e dare frutti. E’ il mio auspicio. Una comunità, qualunque siano le motivazioni originarie, diviene tale quando i suoi appartenenti con-dividono il patrimonio di emozioni e sentimenti, di idee e lotte – creano insomma ‘uno stile’ –. Una comunità è tale quando sa vedere oltre la linea imposta dal tempo e dalle circostanze e andare oltre, sempre più in là, rendendo luminoso il proprio cammino. Interpreti del presente, con la speranza di poter rendere migliore il futuro e fieri delle proprie radici. Qualcuno ebbe a parlare di ‘nostalgia del futuro’. E darsi un progetto; ed essere momento di incontro e non di scontro. Di avversari ve ne sono già tanti; spesso il difetto si manifesta in carenza di lealtà nella coerenza in nobile intento – educar/ci è un tirocinio. Perché, memori del filosofo Seneca, sappiamo che ‘vivere militare est’.
Nei giorni successivi la morte di Peppe Dimitri, il Comandante da tutti noi stimato ed amato, lo si volle onorare e ricordare con manifesti ove, sullo sfondo di un paesaggio innevato, s’ergeva una quercia e campeggiava la scritta ‘combattere è un destino’… E’ il mio augurio, il mio auspicio. ‘Non chiedere agli dei una vita priva di affanni, ma un animo grande’. Questo sarà il destino de La Terra dei Padri? Lo voglio credere. E tutto il resto diverrà, allora, facile…
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