7 Ottobre 2024
Filosofia

La tirannia dei disvalori – Roberto Pecchioli

 “Non ci sono più i valori, signora mia”. Sembra un luogo comune, un dialogo da vagone ferroviario, il casuale, guardingo parlare del più e del meno tra conoscenze occasionali. Ebbene, non è vero: valori ce ne sono anche troppi. Mancano i principi, ovvero i fondamenti su cui poggia ciò a cui si attribuisce valore. Fu Max Weber, sociologo tedesco vissuto tra fine Ottocento e inizio Novecento, il primo a scoprire una caratteristica delle società avanzate, il “politeismo dei valori”, il fatto che nessun fondamento comune sostenesse più comunità di estranei, unite solo dall’appartenenza al medesimo tempo e alla convivenza (quasi sempre conflittuale) sullo stesso territorio. Nuove istanze si fanno sentire con forza all’interno di tradizioni che non possono ospitarle senza autodistruggersi, scriveva il sociologo bavarese oltre un secolo fa. Il cammino è compiuto e il politeismo dei valori che decompone le comunità è divenuto il panorama comune delle nostre società.

Mezzo secolo dopo Weber, la questione fu affrontata, con il piglio del giurista e l’altezza di vedute del filosofo, da Carl Schmitt, autore de La tirannia dei valori. Il titolo richiama un’intuizione di Nicolai Hartmann (1882-1950). L’espressione riguardava la tendenza di ogni valore ad impostarsi come signore (tiranno), determinando gli altri valori e il modo in cui questi, a loro volta, inducono le scelte dei singoli. Il “valore”, diversamente dal “principio”, è un veicolo di ostilità, poiché produce una moralizzazione piena di pericoli, che tracima dalla sfera sociale ed economica a quella giuridica – ambito privilegiato dell’analisi schimittiana – creando una “costituzionalizzazione “dei valori per il quale la giurisprudenza, da strumento di mediazione si trasforma in macchina di criminalizzazione e annientamento.

Ragionamenti profetici al tempo dell’ordoliberismo e della legalizzazione dei nuovi diritti scaturiti dalla trasvalutazione di tutti i valori (F. Nietzsche). Parlare e pensare per valori secondo Schmitt conduce a un “eterno conflitto dei valori e delle divisioni del mondo, un perpetuo bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti”. Infatti, il valore non è mai oggettivo; “il valore non è, ma vale”, ed “aspira apertamente a essere posto in atto”. Si tratta di un filone insidioso del soggettivismo, che “pone” i valori, pretendendo di fornire loro un fondamento oggettivo, occultando la cornice soggettivistica entro la quale sorgono.

La logica del valore è che – proprio “perché deve essere fatto valere”, si afferma svalutando gli altri valori. I punti di vista sono un’infinita molteplicità di prese di posizioni valutative. (Weber). Il punto di vista diventa punto d’attacco che svela la potenziale aggressività immanente a ogni posizione di valori, per Schmitt. Ciò in quanto richiede la svalutazione del valore rifiutato in quanto non-valore, connessa alla logica del valutare. “Il valore superiore ha il diritto e il dovere di sottomettere a sé il valore inferiore, e il valore in quanto tale annienta giustamente il non-valore in quanto tale. È tutto chiaro e semplice, fondato sulla specificità del valutare. Appunto in ciò consiste la tirannia dei valori.”

Sul terreno giuridico-politico l’appello ai valori – ad esempio la categoria di guerra giusta – mostra i suoi effetti tirannici. “Ogni riguardo nei confronti del nemico viene a cadere, anzi diventa un non-valore non appena la battaglia contro il nemico diventa una battaglia per i valori supremi. Il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto. “Parole del giurista che dimostrò la grandezza del diritto pubblico europeo formatosi a seguito della pace di Westfalia (1648) che chiuse la secolare vicenda delle guerre di religione.

Il richiamo a ragioni morali e alla loro pretesa di universalità può avere effetti devastanti. Chi si arma del valore può trasformarsi in assassino; quasi sempre è animato dal disprezzo per i valori altrui. Pensiamo alla logica neocons americana, che maschera la volontà di potenza con l’etica della “lotta del bene contro l’asse del male”, la cui conseguenza sono guerre viste come strumenti per affermare “valori” al prezzo dell’annientamento di quelli altrui. Riflessioni raggelanti se osserviamo i “valori” oggi dominanti nel nostro angolo di mondo, che è facile qualificare come disvalori.

La libertà è intesa come assenza di vincoli (libertà “da”, non “per”), il soggetto è l’unico sovrano, i diritti sovrastano i doveri, denaro, successo, piacere sono i valori di riferimento. La vita – che il cristianesimo considerava intangibile – è tornata disponibile, come migliaia di anni fa, quando il pater familias aveva potere di vita e di morte, decideva sulla nascita e la soppressione dei figli e dei nipoti, in cui i deboli venivano sacrificati, in cui la schiavitù – riduzione dell’essere umano a cosa, un bene di proprietà del padrone – era praticata ovunque. Nel mondo di oggi tutto è possibile, ammesso e permesso, purché divenga oggetto di compravendita. Il denaro è la misura di tutte le cose, ogni dio è scacciato dall’Olimpo, trasformato in deserto.

Nell’orizzonte degli antichi, nonostante la durezza della vita, restavano Dio – pur declinato al plurale – e un’idea chiara dell’esistenza del bene e del male, simboleggiata dai miti di Prometeo (lo scatenamento di tutte le forze) e di Pandora (il vaso che contiene virtù e vizi). Alla base vi era l’idea della caduta della condizione umana da una felice perfezione – l’età dell’oro o l’Eden – da cui l’uomo si è allontanato per aver seguito non la virtù, ma i vizi. Opposti sono i valori odierni, il cui simbolo è l’adorazione del progresso: oggi è sempre migliore di ieri. Il valore principale, il motore universale, è il possesso di beni materiali. Ha valore solamente Io, mentre la dimensione comunitaria è screditata; i legami vengono sciolti e il soggetto – diventato atomo – vaga non da viandante dell’esistenza, ma nomade che prende tutto ciò che trova senza altro riguardo che la soddisfazione immediata. Disvalori che si trasformano in leggi, imperativi, scacciando, come aveva previsto Schmitt i principi e innanzitutto i valori concorrenti o opposti.

Il mito greco aveva idealizzato i grandi temi dell’esistenza umana. Le sue divinità – così umane – incarnavano pregi e difetti dell’umanità e la loro lotta, ricondotta a unità nella figura paterna di Zeus, rappresentava una composita, complessa armonia. Il male più grande era l’assenza di limiti (hybris, arroganza, tracotanza), a cui si preferiva il controllo, la prudenza (phrònesis e sophrosyne) . Erano entrambi dèi Apollo (l’ordine, l’armonia, la bellezza) e Dioniso (il caos, l’ebbrezza), ma lo spirito greco preferiva senz’altro il primo, confinando Dioniso in momenti particolari, parentesi legate allo sfogo degli istinti. Oggi Dioniso è la nuova normalità: ha valore la trasgressione, l’ebbrezza, l’istinto. Ordine ed equilibrio diventano disvalori da deridere e cancellare.

I valori dominanti sono mercantili: Zeus è scacciato dall’Olimpo a favore di suo figlio Ermes (Mercurio, da merx, merce, per i Romani) dio del commercio e del guadagno. Subordinata a Mercurio, messa all’angolo è Atena, dea della sapienza e dell’arte. A che cosa “servono”? Quanto alla sapienza, la sua inutilità è certificata dall’esistenza di apparati artificiali in cui tutto è a portata di clic. Un altro dio di ritorno è Proteo, la mutazione continua, la trasformazione, patrono della società “liquida” e dell’umanità “fluida” dall’identità inesistente o cangiante. Affascina il mito di Narciso, il bellissimo giovane innamorato di se stesso, anzi della propria immagine riflessa, annegato nel lago in cui si specchiava. Narrazioni suggestive che diventano incubi se il loro significato simbolico viene elevato a “valore”. Apparenza, caos, continua mutazione, istinto: la montagna incantata del politeismo dei valori diventati diritti.

 Perché perseverare, perché esercitare le virtù “cardinali”, ossia cardini della vita orientata al bene, sapienza, giustizia, fortezza e temperanza. Ciascuna di essa è capovolta: inutile la sapienza, scalzata da un angusto specialismo strumentale; la giustizia è quella dell’antagonista di Socrate, Trasimaco, l’utile del più forte; la fortezza, capacità di fronteggiare gli eventi, fare ciò che va fatto per dovere e responsabilità, è scacciata con orrore; la temperanza è coperta di ridicolo. Fa’ quello che vuoi, come nella Thelème di Rabelais, e fallo subito, la volgarizzazione del carpe diem di Orazio. Tutto ciò afferma che viviamo nella tirannia dei disvalori, scimmia e ribaltamento dei valori. È in atto un curioso politeismo ateo, in cui ognuno è – o vorrebbe essere – legge a se stesso.

 La società liquida è relativista, non crede in nessun principio veritativo. L’ assenza di verità diventa “valore” per quanto distruttivo. Anche il nichilismo lo è, la convinzione che nulla abbia senso: il valore della vanità di ogni valore. Tirannia pura, sino all’odio di sé che pervade l’Occidente. Secondo la filosofa francese Chantal Delsol si tratta di un ritorno – inconsapevole? – al paganesimo. “Ecologista, pagana, relativista, post cristiana: tutte identità nel caos senza ancora un vincitore.” Il nichilismo è la volontà, specificatamente occidentale, di “superare e profanare i limiti, la distruzione dei riferimenti precedenti”. Secondo Delsol, la decostruzione è presente nel mondo occidentale sin dai filosofi cinici greci come Diogene, e gli scettici. Scrive Goethe nel Faust “tutto ciò che esiste merita di essere distrutto”. Le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij rappresentano “la confessione di una società di dissacrazione di tutti i valori”, il romanzo in cui si osserva la “distruzione della fede nelle leggi generali”, con la premessa che “non c’è nulla di sacro”.

 Il nichilismo è il ripudio dei principi fondamentali di una cultura e origina l’individualismo, poiché “dove vengono distrutti tutti i riferimenti, rimane solo l’individuo e il suo sé”. La tirannia dei disvalori fa sì che aspiriamo ad abolire tutto, pensando che tutto sia possibile, che non esista una specifica natura umana a cui aderire; tutto sarà ciò che noi vogliamo che sia, a cominciare da ciascuno di noi. Questo voluto superamento dei limiti, a partire dalla natura umana, è presentato come processo di liberazione”, quindi un valore. L’appello di Delsol è al ripristino di “ciò che è intrinsecamente umano”: la distinzione del sesso, della filiazione, della vita e della morte. L’utero in affitto – dichiarato valore sotto il nome di “gestazione per altri” – è per lei “più pagana che nichilista”. Lo stesso vale per la legislazione sull’aborto: “un ritorno al paganesimo, poiché l’infanticidio è sempre esistito ovunque, tranne che tra ebrei e cristiani”. Nichilista è il matrimonio omosessuale, giacché utilizza la parola “matrimonio” per introdurre un cambiamento sostanziale di definizione antropologica. Sono questi i “valori” contemporanei, il cui tratto comune è l’enfatizzazione del consenso soggettivo a ogni pratica, comportamento, situazione. L’esito è l’abolizione dei valori concorrenti: tirannia. Il ritorno dei principi non è all’orizzonte, tuttavia è necessario agire come il cavaliere della fede di Kierkegaard: rassegnato, ma ugualmente capace di avanzare senza fermarsi.

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