Le rivoluzioni efficaci cambiano il quotidiano, sterzano su idee nuove di zecca per dare risposte ai bisogni dell’uomo. Fu così con l’arco e la freccia nel Paleolitico, con l’i-Phone dieci anni fa, i primi due che mi vengono in mente. Quando si va, sigh-sigh, dal meccanico lo riconosciamo dal suo abito da lavoro, una tuta blu in genere unta di grasso. Il vestito strizza l’occhio al mestiere d’appartenenza; con le “ tute blu” intendevamo l’universo dei metalmeccanici, coi colletti grigi i travet fantozziani, con quelli bianchi i quadri dirigenti dei settori economici cioè l’alta borghesia che ci governa. A tal proposito Giuseppe Prezzolini ricordava di essere stato invitato da Antonio Gramsci a tenere una conferenza agli operai della FIAT. Lo ascoltarono diffidenti, non lo contestarono per rispetto a Gramsci, ma a discorso ultimato Prezzolini rifletté su quell’ostilità palese: quei lavoratori volevano scalzare la classe dei padroni però senza “cambiar d’abito”, agognavano anche loro al vestito chic, in giacca e cravatta, magari da cambiare a sera per le uscite mondane. Chiosa così le sue riflessioni in “ Io credo” il grande giornalista senese: “ Di fronte al lusso dei villani rifatti,dei pescecani imbottiti, dei pidocchi rivestiti, poteva essere bello il gesto di una classe…di vestire un abito modesto, semplice, quasi monacale per ricordare a tutti le virtù e i valori che la gentaglia piena di soldi dimentica…”
Parafrasando un vecchio proverbio anche l’abito fa il rivoluzionario ma la classe operaia aspirava solo a vestire borghese. Il 17 giugno del 1920, il quotidiano La Nazione di Firenze pubblica un inserto dedicato alla “TUTA” (in origine TUTTA) corredato dal relativo cartamodello con le istruzioni alfanumeriche per realizzarlo scritte in inglese, quasi a sottolineare l’universalità dell’ indumento. Lo stilista di quel straight line garment (abito retto) tanto semplice quanto rivoluzionario era fiorentino di natali senza ius soli, Ernesto Henry Michahelles che da quel giorno si firmò col palindromo esoterico THAYAHT. Così il quotidiano illustrò questo capo futurista: “Sopraveste di un solo pezzo con pantaloni e maniche, di robusto cotone o di fibre speciali, indossata da operai, sportivi o persone che svolgono particolari attività” ideata per uomini e ragazzi. Il cartamodello allegato in volantino permette a chiunque ne sappia di cucito di fabbricarsi questo soprabito da solo, un’anticipazione del “fai da te” nel campo della moda.
Cucite le due maniche era una grande T nella quale infilarsi dai piedi, tirare su, imbucare le braccia e chiudere sul davanti i sette bottoni. C’era di più, questo indumento non era solo da lavoro ma adatto a “vestire il giorno e la sera” delle attività umane in ogni stagione. Un capo unisex adatto ad ogni contesto o circostanza, soddisfa le esigenze maschili e femminili per la semplicità e praticità del modello come del tessuto telato in fibra di cotone. Certo una differenza di taglio tra maschio e femmina poi avverrà, la versione femminile sarà una lunga camiciona rettangolare abbottonata sul davanti ( la zip sarà applicata agli abiti solo negli anni ‘30 ) stretta a clessidra in vita da una cinta, ai piedi solo sandali aperti senza tacco. Con la tuta uomini e donne, giovani o meno giovani, financo i bambini potevano vestirsi, con poca spesa, per andare al lavoro come a scuola, al mare o in montagna, in viaggio o stare in casa, mentre si fa sport o altro, un po’ come la zhongshan zhuang (giacca) cinese della rivoluzione maoista o la famosa tuta di Fidel.
La tuta fu una risposta anche alle esigenze economiche di un’Europa uscita dalla guerra con la testa rotta, attraversata da una virale conflittualità politico-sociale acuita dalla messianica rivoluzione del proletariato che s’espandeva dalla Russia alla classe operaia del vecchio Continente. Ebbe un successo transnazionale toccando la Francia dell’haute couture, la Germania di Weimar,l’Albione d’oltre manica e via fino in America. Un capo semplice, geometrico, funzionale, più completo dei robusti jeans usati dai camalli genovesi. Bastava una stoffa di cotone blu di m. 4.50 x 0.70 per farsi questo “abito universale” che non lasciava alcun sciavero, era economico a tutto tondo (disegno, stoffa, fattura, cuciture minime bassi tempi per realizzarlo ed indossarlo), facile da lavare, stirare, rammendare, robusto quanto basta, soprattutto comodissimo per la libertà che lasciava ai movimenti. Ben diverso dai grigi abiti da lavoro, autentiche divise, disegnate dai costruttivisti sovietici, la Tuta rappresentò un manufatto eversivo per la moda del tempo. vestiva bene anche una statua come osservò G. Prezzolini. Un vestito giovane, antiborghese, proiettato nella dimensione tutta nuova della società industriale contrassegnata già da allora dalle tre “e”: efficacia, efficienza, economicità. Un abito d’avanguardia come il suo ideatore, in linea con il “tumulto di immagini scatenato dal futurismo”. Già nel ’13 Giacomo Balla aveva scritto:” Vogliamo abiti futuristi confortanti, pratici a togliere e a mettere, abiti che abbiano forme e colori dinamici, aggressivi, urtanti, volitivi violenti volanti…”. Il blu significa il cielo, il volo, la fede nel progresso di cavalcare l’abisso dell’ignoto.
Ernesto Henry Michahelles, noto con lo pseudonimo “bifronte” Thayaht, nasce a Firenze, nella villa di famiglia a Poggio Imperiale, il 21 agosto 1893 da famiglia molto agiata d’ origini anglo-svizzere in quanto sua madre è anglo-americana, suo padre svizzero d’ ascendenza tedesca. Il suo bisnonno, dal ramo materno, era lo scultore statunitense, d’ origine irlandese, Hiram Powers (1805-1873) nativo della poi mitica Woodstock, artista di indirizzo neoclassico venato di romanticismo vissuto a Firenze dal 1837 fino alla sua dipartita nel ’73, Thayaht, primogenito di quattro figli, indirizzato dal padre verso studi tecnico-scientifici, scoprì, da adolescente, la sua vocatio ad artium così da tralasciare gli studi curricolari per prendere insegnamenti di pittura dall’americano Julius Rolshoven alla “Casa del diavolo” e dall’incisore Filippo Marfori Savini. Nel 1915, dopo un suo breve soggiorno a Parigi, espone presso il negozio fiorentino di Brogi i suoi disegni astratti, oggi dispersi, che suscitarono l’interesse del clan futurista fiorentino. La creatività di Thayaht spaziava già da allora a tutto campo, dalla pittura alla scultura e poi oreficeria, design, scenografia teatrale, moda, grafica pubblicitaria, architettura e fotografia, nello spirito vorticoso della seconda stagione del Futurismo italiano. E’ a Parigi però, in Rue Rivoli dove apre uno studio, che l’artista s’afferma nel campo della moda, firmando da stilista figurini per la maison di Madeleine Vionnet, couturiere francese impegnata, con Coco Chanel, a rivoluzionare il fashion femminile negli anni ’20 liberandolo da corsetti e gabbie di stecche lanciando l’ Art déco.
Nel 1919 decide di tornare a Firenze e mettere mano, con il fratello Ruggero, alla sua intuizione rivoluzionaria: la Tuta. Il successo gli arrise subito, quel capo fece tendenza nell’ambiente fiorentino tanto che nel ‘20, a piazzale Michelangelo, ci fu un primo raduno di 100 figuranti “tutisti”, una squisita operazione di marketing ante litteram. Dal ‘21 al ‘23 Thayaht è negli U.S.A. per seguire il corso di “ Disegno dinamico e colorazione scientifica “ tenuto dal prof. Jai Hambidge presso la prestigiosa Harvard University, ma continua, per contratto, la collaborazione con la maison Vionnet che gli vale la pubblicazione dei suoi figurini sulla prestigiosa rivista di moda “ Gazette du bon ton”. Gli abiti disegnati da Ernesto fasciano sensualmente il corpo femminile esaltandone flessuosità e fascino con tagli geometrici, stoffe fruscianti, vibrazioni di luci, sapiente scelta dei colori, ornati, accessori. Di ritorno nel ’23 nella sua amata Firenze vi conosce lo scultore e designer Antonio Maraini (nonno di Dacia Maraini), romano d’ origine ticinese, che aveva aderito al fascismo avvicinandosi timidamente a quel “ritorno all’ordine” teorizzato da Margherita Sarfatti, ma restando nell’alveo futurista. Anche Ernesto aderisce entusiasta al Fascismo ma sempre nella sua declinazione marinettiana; lo affascina l’Idea di rivoluzione antropologica tesa ad aggredire ogni aspetto dell’esistente compreso quell’irrazionale che tanto lo solleticava. A questo credo resterà fedele fino alla morte, nonostante i contrasti avuti, a metà degli anni ’30, con la componente reazionaria del fascismo, calcando da protagonista la scena dell’arte del ventennio. Ottenuta la cittadinanza italiana, s’ adoperò con tale convinto impegno nel PNF da essere eletto persino deputato in Parlamento. Dopo il ‘45 finirà in soffitta, ignorato, pagando così il suo trascorso politico.
Riprendiamo il discorso, con Antonio Maraini nel ’23 e nel ’27 partecipa all’Esposizione Internazione delle arti decorative a Monza esponendo stoffe, tappeti e disegni di abiti. I due, in sinergia, disegnano poi le scenografie per le rappresentazioni del Teatro dei Fidenti di Firenze ottenendo un clamoroso successo, in particolare con l’allestimento della verdiana “Aida”. Il gruppo nazionale fascista dell’arte della paglia gli commissiona i modelli di cappelli da uomo e da donna, nascono “Il Pinedo”, “Il Madrido”, “Il Sirtico” studiati a seconda dell’attività sportiva che si doveva svolgere. Quando nel ’25 era tornato dagli U.S.A. nella sua Firenze, il suo stile però era cambiato evolvendosi verso creazioni ricche di vettori, proporzioni auree, linee elicoidali, cerchi costruiti seguendo la teoria della “simmetria dinamica” di J. Hambidge, questo lo portò interrompere la collaborazione con Vionnet. La residenza americana poi aveva stimolato ancor di più i suoi interessi nel campo delle scienze esoteriche già tanto care ai futuristi. S’ era avvicinato alle teorie dell’architetto-teosofo-yogi Claude Fayette Bragdon autore di diverse opere sull’argomento tra cui quella Bellissima necessità che gli architetti d’oggi dovrebbero studiare attentamente per applicare le sette regole che sottendono alla Bellezza.Nel 1929 il pittore e compositore Primo Conti ( nome per intero Umberto I) lo presentò al guru del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti e da quel momento il suo legame con il movimento artistico si fece ancora più organico, tanto che nell’ottobre dello stesso anno espose a Milano alla Mostra di 33 artisti futuristi. E’ celebre la testa intitolata DUX, ritratto essenziale, futurista che suscitò gli elogi di F. T. Marinetti e fu donato a Mussolini.
Nell’ambito delle diverse correnti artistiche, cito solo Valori Plastici, Novecento, Realismo magico, Thayaht scelse il Futurismo approdandovi tardi ma in consonanza con i principi di geometria, essenzialità funzionale, dinamismo che avevano teorizzato Balla e Depero. Ma c’era anche l’aspetto esoterico del movimento che rivestiva un ruolo affatto secondario per gli interessi a tutto campo di Thayaht. Quella vita nova protesa all’avvenire si proiettava allo svelamento dell’impossibile, dell’impalpabile, per colmare l’ignoto dei “profondi pozzi dell’Assurdo”. Già per Giovanni Papini il futurismo era l’“amore del rischio, del non tentato,…dell’altezza non raggiunta, dell’abisso non scandagliato”. La ricerca futurista era intrisa di sperimentazioni nel campo dell’occultismo, dei fenomeni paranormali, saldata alla semantica della simbologia ermetica. A Milano Marinetti, Severini, forse Boccioni, guardavano con interesse al ramo magico-teosofico, tanto che i primi due, con certezza, erano assidui frequentatori di sedute medianiche. Papini e Soffici a Firenze, sulla rivista Lacerba, disquisivano di animismo-metafisico, attratti dalla scrittura automatica nelle riunioni spiritiche e per queste Thayaht disegna un tavolino ad uso medianico.
Giacomo Balla aderisce al Gruppo Teosofico di Roma di Carlo Ballatore scegliendo come guida nel cammino Julius Evola fondatore, negli anni Trenta, del Gruppo Ur e delle riviste “Ur” e “Krur” nel tentativo di innestare la scienza esoterica romana nella vite della rivoluzione fascista. Nel manifesto La ricostruzione futurista dell’universo del 1915, Giacomo Balla scrive testualmente: “Daremo scheletro e carne all’invisibile”, quell’invisibile che Anton Giulio Bragaglia inventore del Fotodinamismo futurista cercò invano di fissare sulle lastre fotografiche. Il “ futurista politico” Mario Carli, poeta, scrittore, giornalista ribelle, ottenne la collaborazione di Thayaht alla rivista “Oggi e domani” che chiuderà nel ‘34 quando Carli sarà nominato Console in Brasile. Ernesto cura poi il settore fashion della rivista Moda, organo ufficiale della Federazione Nazionale Fascista Industria dell’Abbigliamento. Siamo nel 1931 i fratelli Michahelles brevettano Casolaria abitazione estensibile alle mutate esigenze di chi la vive, partendo da un nucleo minimo per una giovine coppia, si passa alla moltiplicazione degli spazi col crescere dello stato di famiglia.
Ernesto ci lascia poi 14 paginette dattiloscritte sulle “case in serie” teorizzando unità abitative razionaliste, da realizzarsi con materiali poveri, sgravio dei pesi, produzione seriale dei componenti, tecniche d’ assemblaggio mutuate dalle auto, efficienza energetica. Pare un’utopia ma non lo è se troverà applicazioni da parte dell’Istituto Casa Popolari nella mitica Garbatella. Lo stile di Ernesto si è evoluto dal bon ton del déco al razionalismo futurista dove la moda, il design, le arti tutte promuvono processi creativi industriali; è il “pensiero” della macchina a concretizzare la quarta dimensione: il tempo. Emblematico a tal proposito sarò il brevetto, nel ’37, della “fotoscena” sviluppo ulteriore del fotomontaggio futurista. Consiste in un apparecchio nel quale le immagini vengono disposte non più su un solo piano ma su piani multipli ove si possono illuminare separatamente con luce bianca o colorata, il tutto rimanendo spostabile a volontà, come le scene e le quinte di un minuscolo teatro…” Un gioco istruttivo e divertente lo definì il suo inventore. Alla XVII Biennale di Venezia del 1930 presenta due opere: La Fienaiola e La Prua d’Italia Certamente diverse per stile: rotondità pura contro costruttività plastica.
Gli anni ’30 vedono Thayaht sperimentare nuovi materiali per le sue creazioni fino a brevettarne uno di sua invenzione la lega di alluminio e argento chiamata “thayahtite” ancora oggi in uso. Partecipa alla I Quadriennale romana del ’31, nello stesso anno alla Mostra futurista di Firenze di pittura, scultura e aeropittura, in dicembre a Torino alla Mostra di fotografia futurista, nel ’33 alla Mostra d’arte sacra futurista, alla V Triennale di Milano con Prampolini presenta il progetto di un aeroporto civile. Nel ’32, con suo fratello, firma il manifesto per la trasformazione dell’abbigliamento maschile che doveva fondarsi su criteri di assoluta praticità, funzionalità, economia di costi e tempi. Nel ’36 è presente alla Biennale veneziana ed alla Triennale di Milano. Si sperimentò perfino nell’arte culinaria entrando nell’acceso quanto goliardico dibattito suscitato da Marinetti sull’abolizione degli spaghetti. Nel 1935 acquista una villa in Versilia, “la casa gialla” ( ci ricorda il Van Gogh di Arles) dove si trasferisce riprendendo i suoi studi filosofici ed esoterici, anche come reazione verso la critica alla sua personalità artistica avanzata dall’ala gretta del fascismo. Lui restò un ribelle trasgressivo, un fascista futurista, ma non abiurò alla sua fede politica continuando a godere della stima di Mussolini come del poeta dei Cantos Ezra Pound amante della Versilia.
Le sorti della guerra, la caduta del fascismo, la conseguente dannazione della sua persona, lo condussero ad un isolamento forzato, rielaborando, in pittura, il sintetismo di Gauguin ma riscoprendo in parallelo il suo interesse per l’Astronomia. Nei primi anni ’50 in Francia e in Italia si erano verificati numrosi avvistamenti di oggetti misteriosi, per i quali gli americani avrebbero coniato l’acronimo U.F.O. Così nel 1954 Ernesto fonda il C.I.R.N.O.S. ( Centro Indipendente Raccolta Notizie Osservazioni Spaziali) con sede a Fiumetto , frazione di Marina di Pietrasanta (LU) città della sua residenza estiva. L’associazione di Thayaht è la prima in Italia ad occuparsi scientificamente dei casi di avvistamento degli oggetti non identificati. Già nel 1955 viene pubblicata una prima relazione sul tema seguendo una rigorosa analisi statistica e probatoria sui fenomeni che sembrava suffragare l’ipotesi dell’epifania di vite extraterrestri. Nel ’58 dette alle stampe una seconda relazione sugli U.F.O. provando a fornire una spiegazione psico-scientifica del fenomeno individuando due aspetti distinti dello stesso che chiamerà “effetto PSI” (nulla che fare coi socialisti) basato sulla telepatia, chi guida l’oggetto cattura volutamente l’attenzione di chi lo vede e “l’effetto SIGMA” ipotizzando interferenze elettromagnetiche su macchine elettriche o strumenti magnetici. La morte però lo colse all’improvviso nella sua “Casa Gialla” il 29 aprile del 1959. E’ sepolto nel cimitero evangelico degli Allori di Firenze, vicino a Poggio Imperiale….e rimase sepolto per troppi anni!
Bibliografia
Scappini, Thayaht. Vita, scritti, carteggi. Ed. Skira, 2005
Giuseppe Prezzolini, annotazioni sul diario “Io credo”, 1923.
Fondazione Massimo e Sonia Cirulli, Thayath
Il Museo immaginario, Thayaht & Ram
Enrico Baccarini, Thayaht e C.I.R.N.O.S., Artista e pioniere dell’Ufologia italiana, da Enigma, 2010
Emanuele Casalena