Come ogni anno anche in questo 2022 l’Italia, almeno quella ufficiale, si appresta a festeggiare la ricorrenza del 25 aprile, e, come ogni anno, torno a dire qualcosa a questo proposito.
Per la verità, non è con molta voglia che riprendo in mano questo tema, giacché mi pare, al riguardo di avervi espresso abbondantemente già gli anni scorsi, il mio pensiero in proposito.
Per la verità continuo sempre a chiedermi quanto il fatto che l’Italia continui a festeggiare come se si fosse trattato di una vittoria, la nostra sconfitta nella seconda guerra mondiale, quanto dileggio ci procuri all’estero. Forse in realtà un po’ meno di quel che si potrebbe pensare, perché, non solo da noi, oggi la gente oggi in fatto di storia è incredibilmente ignorante. Non è solo una questione di programmi scolastici, ma per avere il senso della storia occorre percepirla come una continuità vivente che determina il nostro mondo e ciò che noi stessi siamo, non come un’arida elencazione mnemonica di nomi e date, qualcosa a cui l’odierna cultura mediatica, tutta tesa a far vivere la gente nel presente immediato, senza relazione con il passato né con un avvenire di un qualche genere, si oppone fortemente.
Tuttavia, capiamo facilmente che sarebbe di gran lunga più dignitoso sbarazzarsi di questa festa ridicola, e trascorrere l’anniversario della nostra sconfitta nel silenzio.
Io, per la verità, avendovi gli anni scorsi esposto con ampiezza il mio punto di vista al riguardo, per non creare doppioni, ero fortemente indeciso se affrontare l’argomento in occasione di questo 25 aprile 2022, e proprio per questo motivo ho deciso di dare uno spazio particolarmente ampio alla Giornata del Ricordo del 10 febbraio con una serie di quattro articoli, Dal confine orientale, per non dimenticare, che, come avete visto, hanno occupato l’intero mese di febbraio.
Infatti, sarebbe forse pleonastico ribadirlo, ma tanti italiani se ne dimenticano, la sconfitta indecorosamente festeggiata il 25 aprile, qui sul confine orientale significò mattanza, con decine di migliaia di nostri connazionali trucidati dalle bande partigiane slavo-comuniste, e centinaia di migliaia costretti alla fuga, abbandonando le loro case e le loro terre, precisamente allo scopo, perseguito dalla Jugoslavia comunista che non perse mai di vista il carattere etnico della guerra, di cancellare la presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico.
La triste verità è che noi italiani del confine orientale abbiamo pagato il prezzo più pesante della sconfitta, abbiamo pagato per tutti.
Come se non bastasse, la memoria di questi tragici eventi è stata avvolta per sessant’anni da una cappa di complice omertà. Solo ricordare quei morti e quella tragedia significava essere “fascisti”. Però, bisogna capire che solo sapere di quei fatti significa smentire l’utopia comunista. “Proletari di tutto il mondo unitevi”, è una panzana che sarebbe ridicola se non avesse avuto per ogni dove conseguenze spaventose. Citatemi un solo conflitto della storia umana che non sia stato prima di tutto uno scontro etnico.
Oggi i lupi hanno vestito la pelliccia degli agnelli, per quanto grottesca stia loro addosso, e il PD, erede del PCI, manda il 10 febbraio la sua delegazione alla foiba di Basovizza. Fatica – e ipocrisia – sprecata: i continui danneggiamenti e imbrattamenti subiti da monumenti e lapidi che ricordano le foibe e l’esodo, dimostrano quale sia il vero animo dei “compagni” al riguardo.
Io sono nato nel 1952, appartengo a una generazione che non ha conosciuto il fascismo per esperienza diretta, ma ben ho conosciuto e conosco le mille ipocrisie della democrazia antifascista e la sua sinecura per l’interesse nazionale, soprattutto riguardo al Nordest italiano. Ricordiamo tra l’altro la cessione alla Jugoslavia della città di Pola avvenuta nel 1947 contestualmente alla firma del Trattato di pace, quella del villaggio di Crevatini nel 1954, la cessione definitiva della Zona B nel 1987 con il trattato di Osimo, nel 2020 quella della Scuola Interpreti di Trieste che ha avuto il torto di sorgere su un’area dove c’era un tempo l’hotel Balkan, di cui si è falsamente attribuito l’incendio “ai fascisti”, inventando un crimine fascista inesistente, e tacendo il fatto che i quattro uccisi dei fatti di un secolo prima: Tommaso Gulli, Aldo Rossi, Giovanni Nini, Luigi Casciana furono tutti e quattro italiani trucidati dagli slavi (vi rimando all’esposizione dei fatti in Dal confine orientale, per non dimenticare, quarta parte).
Con la guerra perduta, l’eccidio dei nostri connazionali, le terre che eravamo costretti ad abbandonare, non avevamo perso abbastanza? Evidentemente no per la democrazia antifascista. E non parliamo della decadenza imposta all’economia triestina per evitare che potesse essere concorrenziale con quella jugoslava.
Ne emerge una lezione chiara: antifascista significa sostanzialmente anti-italiano.
Eccomi quindi a riprendere in mano l’argomento, sia pure con sofferenza, e se dovrò ripetermi e autocitarmi, pazienza. Anzi, vi presento una sorta di riepilogo di quanto già detto in passato.
Come forse ricorderete, avevo esordito questo appuntamento annuale con un ampio scritto, diviso sulle pagine di “Ereticamente” in più articoli, La festa della vergogna. La triste verità è che l’Italia non ha soltanto perso la seconda guerra mondiale, l’ha persa con disonore. Il “ribaltone” dell’8 settembre 1943 con l’episodio inedito nella storia mondiale di un re e di un governo che disertano e vanno a gettarsi nelle braccia del nemico, è stato di per sé sufficiente a coprire di fango e di infamia la nostra storia, nonostante i sacrifici sopportati e il valore dimostrato da tanti nostri combattenti.
L’unica amara soddisfazione è constatare che casa Savoia ha comunque perso il trono, mentre la casa imperiale giapponese che ha continuato, assieme al suo popolo, a combattere fino all’ultimo dalla stessa parte, lo ha invece mantenuto. Non c’è nulla da fare per certe italiche furbate, il tradimento riceve il disprezzo anche del nemico che ne beneficia, e un nemico leale riceve maggiore rispetto di un “alleato” infido.
La storia però è più complessa di così. Già all’indomani della nostra entrata in guerra, se non il re stesso, ambienti militari di alto livello legati alla corona, gli stessi che avevano premuto su Mussolini per l’entrata in guerra, nascondendogli lo stato d’impreparazione e di logoramento dopo l’impegno in due conflitti successivi (Etiopia e Spagna) delle nostre forze armate, cominciarono a sabotare la nostra partecipazione al conflitto e a passare informazioni al nemico.
Tutto ciò, almeno per quel che riguarda la marina, lo ha ben documentato Antonino Trizzino nel suo bestseller Navi e poltrone (che gli costò un lungo iter giudiziario in una democrazia in cui la verità fa paura) e negli altri suoi libri. In sostanza, si contava sulla sconfitta per far cadere il fascismo, uno sporco gioco condotto sulla pelle dei nostri combattenti e delle nostre popolazioni che, gli uni e le altre, ne pagarono un costo terribile. Potremmo dire che la nostra disastrosa partecipazione al conflitto fu voluta piuttosto dall’antifascismo che dal fascismo.
Per la verità, chiari segni di cedimento morale si erano manifestati già prima dell’8 settembre 1943 con la conquista “alleata” della Sicilia. Se vi ricordate, io in La festa della vergogna vi ho citato due testimonianze a questo proposito: lo sgomento di un militare catturato che, mentre in fila coi suoi compagni si avviava sulla triste strada della prigionia, vide un paese siciliano accogliere festosamente quegli stessi invasori di cui lui e i suoi si erano battuti fino allo stremo per tenerli fuori, e la testimonianza di un reporter americano al seguito delle truppe “alleate” che davanti a un episodio analogo, commentò: “Non ho mai visto uno spettacolo tanto vergognoso”, il che ci rimanda al concetto che ho espresso più sopra: il tradimento riceve il disprezzo anche di chi ne beneficia.
Qualcuno ha detto che la prima vittima delle guerre è sempre la verità, e George Orwell ci ha insegnato che il miglior modo di mentire è la manipolazione del linguaggio “La guerra è la pace”, “l’odio è l’amore”, e via dicendo. Riguardo ai fatti della seconda guerra mondiale, questo metodo è stato usato alla grande, e imperversa tuttora in una storiografia il cui preciso compito è quello di nascondere la verità. I nemici invasori sono diventati “alleati”, colpire alle spalle chi ancora si opponeva all’invasione per procurarsi benemerenze presso il vincitore, è diventato “resistenza”, e così via. Stranamente, un termine il cui significato non è stato stravolto, è “partigiano”, difatti il suo significato originario è “di parte, fazioso, in malafede”.
Qui, sul tema della sconfitta, s’innesta quello della guerra civile. E’ un fatto che grazie alla promessa utopica di una giustizia sociale mai realizzata e di certo del tutto assente in quelle oligarchie che sono state e sono, là dove esistono tuttora (Cina, Cuba, Corea del nord) i sistemi “rossi”, sfruttando ogni genere di malcontento, il comunismo è riuscito ad avere una presenza ubiquitaria. Nella cosiddetta resistenza, i partigiani comunisti furono la forza di gran lunga preponderante, si capisce quanto sia falso e ridicolo definirla lotta “per la libertà”, quando lo scopo di costoro era l’instaurazione di una feroce tirannide.
Il PCI italiano era strettamente dipendente dall’Unione Sovietica di Stalin, e il suo leader, Palmiro Togliatti era segretario del tiranno georgiano, e ha avuto il discutibile onore che una città sovietica portasse il suo nome.
L’ideologia marxista non è, come disse Benedetto Croce, “un paio d’occhiali sociologico”, al contrario, è un paraocchi, e costoro erano del tutto ciechi agli aspetti etnici e nazionali del conflitto, e qui si colloca uno degli episodi più “luminosi” della sedicente resistenza, luminoso nel senso che davvero ci illumina sul suo reale significato: la strage di Porzus. In questa località friulana i partigiani comunisti della brigata Garibaldi massacrarono i partigiani non comunisti della brigata Osoppo, dopo averli circondati e disarmati con l’inganno. Il motivo? La Osoppo si era rifiutata di mettersi agli ordini del IX Corpus jugoslavo, cosa che, in base agli accordi fra Togliatti e Tito, in cambio dell’aiuto a “fare la rivoluzione” in Italia, prefigurava l’annessione alla Jugoslavia non solo della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume, ma di tutto il Friuli.
“Liberazione”? In realtà fu mattanza, soprattutto dopo che la parte soccombente fu costretta a deporre le armi e nessuno era rimasto a difendere le popolazioni inermi, mattanza che colpì indiscriminatamente i combattenti della RSI e i civili, anziani, donne, bambini, chiunque pensavano potesse essere di ostacolo all’imminente rivoluzione, o aveva avuto la sventura di essere uno scomodo testimone degli eccidi, degli stupri, delle ruberie che si protrassero fino al 1947, ben dopo la conclusione del conflitto.
Rispetto a quanto vi ho esposto in La festa della vergogna, negli anni successivi non vi sarebbe stato moltissimo da aggiungere. Un anno mi colpì il testo di un volantino di evidente sinistra ispirazione che sosteneva: “è meglio antifascismo in assenza di fascismo, che fascismo in assenza di antifascismo”. Cosa significa “antifascismo in assenza di fascismo”? mi venne da riflettere. Niente altro che pecoresca adesione (o sottomissione) all’ordine “democratico” esistente, mascherata però in qualche modo da empito rivoluzionario, il colmo dell’ipocrisia.
Tuttavia, mi venne da riflettere, era forse possibile accedere a un ulteriore livello di analisi, con gli anni che ci separano sempre più da quegli eventi di cui sono ormai pochi i protagonisti rimasti in vita, ci sarebbe stato da attendersi che il livore del contrasto fascismo-antifascismo si stemperasse, si svelenisse, invece pare avvenuto l’esatto contrario. Cosa mai significa “fascismo” nella mente di questi antifascisti tardivi?
Ci sono due fatti che vanno considerati, prima di tutto il globale fallimento delle idee di sinistra. Il crollo dell’Unione Sovietica, la disfatta dei “socialismi reali” li ha indotti a trasformarsi in paladini anche troppo zelanti di dottrine economiche liberiste. L’antifascismo è l’unico articolo di fede che gli rimane. Rinunciarvi, significherebbe per essi annullarsi.
Altro fatto, l’immagine del fascismo come “male assoluto” costruita con accanimento sempre più viperino da quella “rigorosissima fonte storica” che è la cinematografia hollywoodiana in un mondo in cui le rappresentazioni mediatiche prendono sempre più il posto della realtà, ma qui non è davvero troppo difficile capire cosa c’è dietro. Per gli Stati Uniti, la caduta dell’Unione Sovietica ha posto il problema di continuare a giustificare la NATO (creata formalmente in funzione antisovietica), e tutto il sistema di vassallaggi imposto all’Europa malamente mascherato da alleanze alla pari: ecco quindi la trovata: la gratitudine per averci “liberati” dal fascismo come sostituto della paura dell’Unione Sovietica.
Il minimo che si può dire, è che è davvero paradossale che questi antifascisti, che sono ovviamente dei “compagni” si facciano dettare la visione del mondo da ciò che fino a ieri ritenevano un avversario.
A questo punto, mi sembrava davvero di aver dato fondo a tutto quanto avessi da dire in proposito quando ho avuto un’intuizione improvvisa: se questa vergognosa festa del 25 aprile non è ancora caduta nella desuetudine che merita, è perché, essenzialmente, al di là dei tromboni ufficiali, è la festa dei “compagni”. Ebbene, tutte le volte che “i compagni” sono riusciti a prevalere su chicchessia, è stato perché si sono trovati con una superiorità numerica o materiale per cui era impossibile non vincere, ad esempio l’Unione Sovietica che durante la seconda guerra mondiale ha prevalso sulla Germania (che però non era impegnata solo sul fronte russo), ma al prezzo di un’emorragia umana spaventosa, oppure quando hanno potuto agire a tradimento, o almeno cogliendo alla sprovvista l’avversario (esemplari la presa del potere a Cuba dei castristi approfittando delle vacanze natalizie, ma ancora di più la presa di Saigon e la conclusione della guerra del Vietnam, ottenuta dai nordvietnamiti approfittando (e violandolo) di un cessate il fuoco frutto di un’elaboratissima trattativa.
Tutte le volte che “i compagni” si sono trovati ad affrontare un avversario faccia a faccia e in condizioni di non totale disparità, e penso sia agli scontri di piazza degli anni ’20, sia a quelli degli anni ’70 dello scorso secolo, ne sono usciti irrimediabilmente battuti.
Il che potrebbe indurci a illazioni, che lascio a voi, sulla qualità umana di quanti si sono fatti e si fanno abbindolare dalla bandiera rossa.
NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo è un esempio di come si falsifica la storia. I “partigiani” raffigurati in questa foto d’epoca sono in realtà attori fatti posare per creare il mito resistenziale. Avevano tanta poca familiarità con i fucili che erano stati dati loro, che subito dopo questo scatto, una delle tre attrici in primo piano lasciò partire un colpo uccidendo una compagna.
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